Conversazione con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Benedetta Muzii

In ambito giudiziario, è sempre più frequente il ricorso all’opinione di esperti in neuroscienze per accertare le condizioni di imputabilità di un individuo, finanche in casi in cui sembra assente un disordine psichiatrico in quanto tale. L’incontro tra il diritto e le neuroscienze – che taluni definiscono con il neologismo “neurodiritto” – sta provocando veri e propri conflitti conoscitivi, con conseguenze molto problematiche. L’ingresso del brain imaging nelle aule di giustizia ha messo a nostra disposizione unimportante quantità di dati sugli stati mentali e sulle condotte per spiegare perché un individuo abbia agito in un determinato modo. Quale è lo stato dell’arte?

Si tratta di questioni estremamente sensibili per l’intero sistema giuridico penale, che proprio sull’attribuzione della responsabilità e della colpa fonda una parte importante della sua architettura. L’adozione sempre più diffusa delle tecniche di neurovisualizzazione sta sollevando domande pressanti sull’affidabilità di tali metodiche nel processo penale. Possono davvero queste metodiche darci le risposte che cerchiamo? La maggior parte dei neuroscienziati sembra scettica. Ad esempio, Michael Gazzaniga, uno dei protagonisti del dibattito nelle neuroscienze contemporanee, ha più volte fatto osservare che il risultato di una scansione di una determinata area cerebrale non è specifico per una singola persona, ma il risultato di una media statistica tra evidenze riportate dopo aver studiato le reazioni di molti cervelli: evidenze che riguardano microeventi contemporanei che indicano semplici correlazioni, non relazioni di causa/effetto. La confusione tra ‘correlazione’ e ‘causalità’ è tra gli errori più deplorevoli e diffusi tra coloro che, a diverso titolo, si occupano di neuroscienze. Ascolti cosa dice proprio Gazzaniga:

Al momento la tesi contro l’utilizzo delle scansioni nelle aule di giustizia è piuttosto chiara, per svariate ragioni: a) tutti i cervelli sono diversi l’uno dall’altro. Diventa impossibile determinare se un pattern di attività in un individuo sia normale o anormale; b) la mente, le emozioni e il modo in cui pensiamo cambiano di continuo. Ciò che viene misurato nel cervello nel momento della scansione non riflette ciò che è successo nel momento in cui il crimine veniva commesso; c) il cervello è sensibile a molti fattori che possono alterare le scansioni: caffeina, tabacco, alcol, droghe, affaticamento, ciclo mestruale, malattie concomitanti, alimentazione e così via; d) la performance non è costante. Le persone riescono meglio o peggio in qualunque compito a seconda della giornata; e) le immagini del cervello sono pregiudizievoli: un’immagine crea una distorsione della certezza clinica, quando invece non c’è nessuna certezza reale (Gazzaniga, 2013).

Se le cose stanno così, perché tali metodiche vengono considerate nel processo penale con tale importanza, anzi vi si assegna addirittura un ruolo dirimente? Non si dà così limpressione di attribuire alle neuroimmagini più rilievo di quanto non facciano gli stessi neuroscienziati? Che ne pensa?

Credo che il massiccio ricorso a queste metodiche sia dovuto in parte al sensazionalismo mediatico che miete molte ignare vittime. Ma la scienza è un’impresa faticosa, difficile. Non ha a che fare con il clamore giornalistico. È semplicemente fuorviante far credere che la comprensione del cervello sia semplice e che coloro che avanzano dubbi e obiezioni siano dei pericolosi irrazionalisti, nemici della scienza e del progresso. Se la ricerca scientifica consiste nello studio sistematico, controllato e riproducibile di ipotesi sulle relazioni intercorrenti tra vari fenomeni, cosa hanno a che fare con essa estrapolazioni improprie, che mettono insieme fraintendimenti ed estremizzazioni? Tutto questo non ha a che fare con la scienza. Si tratta di un’ideologia sostenuta dal vento della moda, insofferente ai vincoli posti dalle faticose procedure sperimentali: un’insidia sia per la razionalità scientifica che per l’etica della responsabilità. Come fanno giudici, avvocati e operatori del diritto a non chiedersi se, e fino a che punto, metodiche del genere siano davvero in grado di descrivere quanto accade nel cervello; o se, invece, il loro uso in giudizio non porti a conclusioni fuorvianti o addirittura erronee? In che modo, giudici o giurie potrebbero comprendere la validità e i limiti di metodiche così complesse e giungere a conclusioni così decisive? Com’è evidente, non si tratta di obiezioni di principio.

Pochi anni fa, con una brillante ricerca, Weisberg ha mostrato come, per gli individui adulti, la spiegazione di un fenomeno psicologico diventi più convincente se agli atti processuali è allegata una scansione cerebrale, anche se questa non ha niente a che fare con il caso in questione.

Proprio così! Una tesi processuale (anche erronea), corredata da una scansione cerebrale, viene considerata di gran lunga più veritiera di altre. Il rischio di condizionamento non potrebbe essere più evidente. Se una scansione cerebrale è, di fatto, un calcolo probabilistico di quel che avviene in una determinata area cerebrale, chi può prevedere con certezza cosa accadrà in una data circostanza? L’unica previsione possibile è che accadano eventi diversi, retti da un principio di indeterminazione: principio centrale della fisica che vale anche per il cervello umano. Insomma, siamo di fronte a un gap esplicativo non da poco rispetto all’ideale astratto di comprensione della natura del cervello. Il timore è che questo problema resti un’enigma irrisolvibile per sempre. Forse è un modo della natura di irridere alle nostre pretese e, a volte, alla nostra presunzione. Far dire a una scansione quel che una scansione non può dire non è solo mancanza di rigore metodologico: è anche una violazione delle regole e delle procedure della ricerca scientifica.

Nel discutere di imputabilità occorre far attenzione a un altro problema: un individuo al quale siano state rilevate tramite brain imaging anomalie cerebrali non è per questo incapace di responsabilità.

L’idea che nel cervello vi siano aree deputate a determinate funzioni è sepolta da tempo. Nondimeno, questo falso assunto ha agito a lungo e profondamente nella creazione delle narrazioni discriminatorie del razzismo, della fisiognomica criminale, dello stigma per i pazienti psichiatrici con disturbi come la schizofrenia e altre patologie neurologiche. Nessuno ne ha più nostalgia. In ogni caso, la responsabilità non ha una sua corrispondente area cerebrale. Questa emerge sempre da complesse interazioni sociali, da relazioni tra individui chiamati a demarcare i confini di un contratto sociale, implicito o esplicito, che regola le nostre azioni e quelle degli altri.

Secondo lei può la scienza penale affidarsi a saperi extragiuridici?

Se lei mi chiede se vi siano ragioni che sconsigliano l’uso del brain imaging, come mezzo dirimente nel giudizio di imputabilità e nell’accertamento della responsabilità, la risposta è no. Un giudizio di imputabilità (cioè l’attribuzione dell’azione penale a un individuo, con tutte le sue conseguenze giuridiche) non è una procedura scientifica, ma la ricerca della massima compatibilità possibile tra gli avvenimenti da valutare e le emergenze processuali. La conquista di una verità processuale è un compito faticoso e problematico.

Verrebbe da dire che ogni sapere che si autoproclama oggettivoha il dovere di fornire prove inconfutabili e riproducibili delle proprie asserzioni, ancor più quando è in gioco la libertà individuale.

Vero. Si fa davvero fatica a comprendere, sul piano scientifico, in che modo la capacità di intendere e di volere, il vizio di mente, la colpa, possano essere spiegate da pratiche che sono certo utilissime sul piano probabilistico, ma del tutto inadeguate nell’accertamento di verità processuali. Se si osserva il dibattito degli ultimi anni – si pensi alle discusse (e discutibili) sentenze della Corte d’Assise d’Appello di Trieste (1/10/2009) e a quella del Tribunale di Como (20/5/2011) – sembra che le neuroscienze anziché semplificare, stiano rendendo più difficile l’accertamento della verità. Nel tortuoso cammino di tre secoli il concetto di infermità di mente ha subito diverse trasformazioni, transitando da una visione organicistica a un’altra classificatoria. Oggi che i modelli nosografici sono sottoposti a un processo di revisione, che va oltre il mero dibattito empirico-statistico e investe (come nell’attuale vicenda del DSM 5) la stessa concezione di disordine psichiatrico, occorre porre grande attenzione al rischio di semplificazione della enorme complessità dell’esperienza psichica. Tale rischio imporrebbe prezzi altissimi. In primo luogo, alla verità. La posta in gioco non è solo la questione centrale delle scienze della mente, cioè come fare asserzioni sugli stati emozionali e di consapevolezza di una persona in base a un dato qui e ora di una scansione cerebrale. È che il mondo fisico è troppo complesso per la nostra razionalità, e lo è smisuratamente di più per la comprensione del’universo del pensiero, delle emozioni e del desiderio umani. Come disse un giorno suggestivamente Gazzaniga: siamo persone, non cervelli! Siamo quell’astrazione che si manifesta quando una coscienza, che emerge da un cervello, interagisce con il cervello stesso. Viviamo sospesi in questa pura astrazione. E anche se ci raccontiamo favole, come si fa con i bambini, per trovare ragioni alla pura insignificanza e all’angoscia di vivere gettati in un universo indifferente, siamo alla disperata ricerca di parole per raccontare cosa siamo davvero.

Mi pare non si possa eludere il confronto con tali questioni e il loro carico di interrogativi. I luoghi comuni della doxa e dellideologia evaporano. Qui, riemergono le domande sulla libertà e la responsabilità, sul libero arbitrio, sulla decisione morale: che sono poi le domande sulla natura e il destino delluomo. Chi è chiamato a rispondere: la comunità scientifica, i singoli ricercatori, gli specialisti’ di etica o le istituzioni politiche?

Sono questioni drammaticamente indecise. Anche se non mancano personalità nel mondo della scienza che, con passione e senso della misura, fanno da argine a un conformismo di massa, la luce che ha guidato il cammino della nostra civiltà sembra delineare una razionalità dal cuore di tenebra. Mentre la cultura scientifica si allontana vertiginosamente dalle istituzioni scolastiche, sfuma ogni riferimento ai concetti di bene e di male. Si dice, bisogna rifuggire da temi e visioni universali e che conta solo l’analisi delle conseguenze dell’adozione delle norme morali e delle decisioni.

Certo, se la scelta tra un ordine morale e un altro è solo questione di efficienza, allora la matematica è la leva ideale. Nessuna disciplina, più della matematica, consente l’uso di tecniche di ottimizzazione: proprio come nelle analisi degli equilibri di mercato e nei giochi strategici.

Vede, affinché la scienza produca il suo salutare effeto, non bastano formalizzazioni coerenti: occorre anche un suo saldo ancoraggio ai motivi dell’umano. Se la scienza pretendesse di costituirsi come conoscenza assoluta, scambiando la sua inevitabile tendenza all’oggettività con un sapere perfettamente adeguato al reale come molti vorrebbero, diverrebbe una parodia di se stessa. E, pur continuando a dare a questo o quel suo cultore un arricchimento personale, cancellerebbe i legami con l’uomo, senza i quali il sapere si isterilisce. Gli scienziati seri sanno che la consapevolezza dei limiti è una componente essenziale della ricerca scientifica. Se la scienza ammettesse che l’uomo non è onnipotente, che egli può determinare solo il possibile, mettendo continuamente alla prova ciò che è possibile fare, avrebbe un valore culturale enorme. Ecco, se rinunciasse alla propria immodestia (e non di rado alla propria presunzione), ricostruendo il rapporto con altre dimensioni che rendono un poco più autentica la descrizione dell’uomo, la scienza potrebbe offrire alla cultura quella universalità a cui saperi prescientifici nemmeno lontanamente potevano aspirare. Certo, un’universalità problematica, ma sempre aperta a nuove relazioni fra le idee.

Si potrebbe obiettare: non è detto che la scienza debba avere una funzione culturale!

Dubbio legittimo. Ma è concepibile una mera scienza dei fatti? Sarebbe solo un tremendo fraintendimento. Il tentativo di ricondurre l’intera complessità del reale alla materia e alle sue proprietà fisico-naturali è angusto e illusorio. E il comportamento dell’uomo, le sue scelte, la sua libertà, che fine farebbero? Se le neuroscienze non vogliono degenerare in una fisica o in una chimica del tessuto vivente, sono chiamate a elaborare una teoria del cervello. E se tale teoria deve essere scritta da un cervello, allora questa teoria dovrà, per così dire, essere scritta da se stessa. Come potremmo estraniarci dal mondo o liberarci del mondo? Certo, la scienza porta al limite la distanza tra noi e gli oggetti. Sopprime l’illusione che le cose ci siano a portata di mano. Ma ci mostra anche meravigliosamente che costruiamo disegni, spesso talmente distanti da noi, che si perdono nell’empireo dell’astrazione. È anche così che essa affronta il demone dei propri limiti. Proprio perché imperfetta, in quanto aggregato di congetture, pregiudizi, anticipazioni premature e ipotesi azzardate (per fortuna sempre controllabili dalla comunità scientifica), è suscettibile di continuo perfezionamento. La scienza non deve inseguire gli idola della conoscenza oggettiva, assoluta, perché la venerazione che le tributiamo è d’impedimento non solo all’arditezza delle nostre questioni, ma anche al rigore dei nostri controlli. Una visione sbagliata della scienza deriva dal desiderio smisurato di essere quella giusta, ma non è il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, che fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica persistente e inquieta della verità.

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