Verso una scienza della decisione.

Conversazione con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Sergio Petrosino

L’idea che abbiamo oggi della decisione è molto diversa da quella che se ne aveva nella prima metà del Novecento. Fino ad allora non erano molti quelli disposti a riconoscere ai fattori extrarazionali e ambientali la dignità e il ruolo che oggi, invece, viene loro riconosciuto.

È probabile che questo sia dipeso dalla scarsa attenzione alla storia naturale della mente umana, dalla difficoltà di individuare criteri per stabilire il ruolo della soggettività nella decisione, dall’artificiosa contrapposizione tra le dinamiche consapevoli e inconsapevoli, dalla inadeguatezza degli apparati logico-concettuali e altro ancora. Sia come sia, sul piano storico questo ha rappresentato un forte impedimento allo sviluppo di una scienza della decisione. I tentativi di spiegazione mediante modelli di razionalità normativa si sono mostrati fallaci di fronte alla dimostrazione sperimentale che le persone reali tendono per lo più a risultati soddisfacenti, tutt’altro che a risultati massimi.

La teoria della razionalità neoclassica aveva tentato di riprodurre, senza averne il rigore, gli schemi logici della fisica classica. Unica legge della natura era la marcia inarrestabile verso l’equilibrio. E, nell’eventualità vi fossero deviazioni dalla norma o eventi inattesi, l’intervento salvifico del caso avrebbe messo al riparo e, comunque, confermato la fondatezza della teoria. Per così dire, concedere all’uomo qualche chance per un’ora di ricreazione fuori dall’ordine deterministico della natura, non revoca in dubbio la marginalità e, per molti versi, l’irrilevanza del suo posto nell’universo.

Purtroppo, il prezzo a lungo pagato per la rigida adesione al metodo della fisica con la formulazione di modelli spesso più complicati delle cose che si intendono spiegare, è stato molto alto. Il riconoscimento sempre più ampio della natura complessa del cervello esige oggi un cambiamento di prospettiva. Il cervello umano viene sempre meno descritto come un calcolatore fatto di circuiti prefabbricati dai geni. Il suo progressivo costituirsi attraverso sofisticati processi di selezione neuronale ne fa qualcosa di molto diverso da un tutto genetico cerebrale. Le molteplici competizioni selettive e creative al suo interno – successivamente trasfigurate epigeneticamente e iscritte nel frame caratteristico della specie – hanno creato, nel corso dell’evoluzione biologica, legami organici con l’ambiente fisico, sociale, culturale. A differenza di qualche decennio fa, il cervello umano appare oggi come un sistema aperto che fluttua entro dinamiche sempre distanti dall’equilibrio: un sistema continuamente esposto a vincoli interni e dinamiche esterne che generano livelli crescenti di instabilità, creando nuove strutture d’ordine.

Fin dalle prime fasi della storia dell’uomo, la decisione ha rappresentato il più potente fattore di selezione e adattamento, di trasformazione e creatività. Facendosi largo tra vincoli e possibilità, essa dà luogo a una nuova forma della realtà. Lei ha più volte ribadito che una decisione emerge nell’incognito, da processi inconsapevoli profondi che sfidano il pensiero razionale. Sollecitata e agìta da potenti istanze di individuazione, nasce e si sviluppa proprio in forza dei suoi limiti. Da dove attingerebbe l’energia per superare gli innumerevoli vincoli interni ed esterni, se non a quella ‘dimensione nascosta’ che precede la razionalità, a quella profonda vitalità che sollecita la creatività e l’immaginazione?

L’azione umana non è mai puramente ripetitiva. Oscilla tra insufficienza e ridondanza, e quando questa oscillazione smette di autoregolarsi dà luogo a processi caotici. Lo scontro tra istanze profonde inconsapevoli e istanze di superficie consapevoli spinge non di rado il pensiero alla deriva, oltre le frontiere del dicibile, del logico, dello spiegabile. Il nostro pensiero non è mai al riparo dai rischi di errore, di regressione. Sempre, non solo quando tenta di affermarsi contro veti e divieti. Eppure l’incertezza non è solo un fattore destabilizzante, ma anche un forte stimolo all’azione. Infatti, se da un lato l’azione si confronta con costrizioni e limitazioni, dall’altro inaugura nuovi paesaggi psichici. Credo che per capire meglio la decisione sarebbe essenziale un nuovo punto di vista sulla percezione. Decidere vuol dire permettere al nostro occhio inconsapevole di cogliere le inevidenti evidenze che rendono possibile la realtà. Ogni scoperta è del resto un’acquisizione che comporta invenzione e creazione. Come un’avanguardia della mente, la decisione precede la consapevolezza e, al tempo stesso, la insegue per attingere all’immenso repertorio di conoscenze accumulato dall’evoluzione biologica.

Pare evidente che quel che sappiamo è solo una minima parte di quel che potremmo sapere se si andasse oltre le frontiere attuali delle discipline che, a diverso titolo, se ne occupano: in breve, se si desse vita a una ‘scienza della decisione’. Oggi, le condizioni sono più favorevoli di un tempo.

Oggi si cominciano ad intravedere nuovi scenari, in cui i fisici collaborano stabilmente con i neurofisiologi, gli psicologi con gli informatici, i matematici con i biologi e così via. Occorre riaprire il cantiere. Non mancano gli esempi. Si pensi agli anni formidabili, nella metà del Novecento, quando personalità di estrazione disciplinare diversa – matematici, biologi, informatici, logici, neurofisiologi e psichiatri, solo per citarne alcuni – diedero vita alle elaborazioni teoriche e alle ricerche empiriche sintetizzate in una Teoria Generale dei Sistemi che tanta importanza ha per il mondo in cui viviamo. I problemi che abbiamo davanti possono essere affrontati solo su linee di frontiera. E non è affatto improbabile che l’immagine dello scienziato eclettico, ancora oggi considerato una figura isolata, ai confini dell’eccentricità, diventi presto un’esigenza fondamentale. Il mondo che desideriamo ardentemente esplorare è in gran parte sconosciuto. Per questo occorre mantenere aperte le nostre scelte, senza fissare limiti in anticipo. Chi può garantire che i metodi che oggi ci appaiono più affidabili rispetto ad altri, non ci stiano mostrando solo fatti isolati, lasciandoci all’oscuro di segreti fondamentali della natura?

Sembra di capire che occorre un cambio di prospettiva. Insomma, un programma di ricerca che abbia a proprio fondamento la relazione tra il cervello e i livelli multipli della costituzione del sé potrebbe aprire la strada alla nascita di una scienza della decisione.

Per fondare una scienza della decisione occorre partire dall’idea che essa non è espressione di processi neuronali indifferenziati. Né è questione di unicità. Si tratta di una coesione di circuiti cortico-sottocorticali proiettati all’interno di un campo consapevole. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che l’unità istantanea della decisione deve essere tenuta distinta dalla unificazione organizzata di sequenze consapevoli, come accade in alcune forme di memoria. Senza considerare le forti implicazioni che la decisione ha con le nostre strutture nervose arcaiche più profonde, si resterà impantanati nella formulazione di modelli, tanto esteticamente brillanti quanto lontani dai processi reali. L’origine della decisione è per lo più inconsapevole. La consapevolezza se ne fa carico in seguito, e solo parzialmente. Questo continuo lavoro di scultura del nostro comportamento è inseparabile da un lavoro inconsapevole, profondo, che tende verso la luce. La decisione umana sorge in quelle zone di interferenza tra sfere consapevoli e inconsapevoli, dall’incontro tra pensiero razionale e fonti arcaiche della mente: in un al di qua della consapevolezza, che la illumina e che non smette mai di dipendere dai processi da cui emerge.

Ma perché è stato sin qui così difficile formulare una teoria condivisa della decisione umana?

Credo che sin quando non avremo una buona teoria brancoleremo nel buio. In fondo è stato così per tanti fenomeni della natura. Non accadde questo, per dirne una, con la scoperta delle leggi del moto, delle sue regolarità o di qualsiasi altro elemento necessario per il movimento? Oggi, che conosciamo i principi che lo regolano, appare tutto più semplice. Per comprendere la decisione, invece, è tutto più complicato. Sarebbe necessaria una strumentazione molto più potente di quella consegnataci dall’evoluzione. Ma questo è solo un aspetto del dilemma. L’altro è che le nostre spiegazioni fanno fatica a spiegare i nostri principi di spiegazione. Certo, possono cogliere ciò che in esse è incompiuto. Quello sì. Ma il prezzo che paghiamo alla mancanza di una buona teoria al riguardo, dipende da fattori, spesso indistinguibili tra loro, appartenenti alla nostra storia individuale, alla personalità, al temperamento. Dopotutto, ciò che su di noi ha un impatto causale lo ha anche per come siamo fatti. L’evoluzione ci ha plasmato in modo che su di noi abbiano effetto svariati fattori, che spesso resistono alla nostra conoscenza. Quale che sia la nostra decisione migliore dipende spesso da differenze e distinzioni sottili, talvolta impercettibili.

Dunque, se è vero che la complessità del nostro comportamento è necessaria per corrispondere alle domande di un ambiente complesso, è altrettanto vero che molti fattori che determinano il comportamento non sembra abbiano a che fare con l’ottimalità dei risultati. Tanto più per l’intervento di fattori aleatori, esterni o interni. È evidente che le spiegazioni delle imprevedibilità del comportamento umano vanno oltre la nostra sfera cognitiva.

È probabile che all’origine dello sviluppo della corteccia cerebrale umana vi sia stato il bisogno dei nostri progenitori di anticipare e contrastare le azioni dei consimili nella competizione per la conquista di risorse essenziali. Ora se, per certi versi, tale interazione ha condotto all’affermazione del più adatto, per altri versi ha promosso forme di cooperazione per il vantaggio reciproco. L’allargamento delle opportunità che ne sono derivate è stato un fattore decisivo nello sviluppo di norme di comportamento vincolanti per gruppi numerosi di persone. Certo, non tutte le interazioni sono cooperative. Non lo sono nemmeno tra individui dello stesso gruppo. Ieri come oggi, sono innumerevoli i motivi di conflitto tra le persone: risorse territoriali, successo riproduttivo, relazioni di dominanza. Ma non è implausibile che per raggiungere il proprio vantaggio i nostri progenitori dovessero fare qualcosa di imprevisto: ad esempio, sorprendere gli altri con i propri stratagemmi. Tuttavia l’imprevedibilità non sempre crea vantaggio, perché rende gli altri più diffidenti. Soprattutto, mina la fiducia nella cooperazione per il vantaggio reciproco. Nonostante il possesso di schemi innati per spiegare e prevedere il comportamento altrui, l’imprevedibilità rende tutto estremamente complesso.

Non è improbabile che si tratti, da un lato, di un compromesso tra il bisogno di rendersi prevedibili e, dunque, affidabili per azioni condivise; dall’altro, della necessità di essere imprevedibili in situazioni di conflitto.

Non è una tesi implausibile. La faticosa e, per tanti versi, fulgida costruzione del diritto, che in una società prescrive comportamenti cooperativi, colma in qualche misura i vuoti lasciati dalla razionalità. Entro certi limiti, infatti, le norme, possono rinforzare la razionalità e rendere meno inquietante l’imprevedibilità. Anche se comprendo che non si tratta di un argomento inconfutabile, in fondo la prescrizione di una norma può rendere più probabili i comportamenti futuri. All’alba della storia umana deve essere stato precipuo interesse dei nostri progenitori cooperare con i consimili e, di conseguenza, rendere prevedibile il proprio comportamento. Chissà, forse questo ha selezionato in noi una tendenza a condotte normative. Ma, appunto, si tratta solo di un’ipotesi. Un concetto, nella scienza, deve sempre fare i conti con i fatti. In fondo, sulle ipotesi che formuliamo in tema di decisione umana, aleggia sempre il sospetto di una perfida congiura della natura: cioè che le sue leggi interne siano congegnate per portarci sistematicamente fuori pista. Questo, però, non scalfisce la nostra sete di conoscenza. Incoraggia, semmai, a chiedersi se non sia necessario inaugurare nuovi metodi di esplorazione. A osare di più. Che senso avrebbe restringere la ricerca, una volta verificato che le nostre conoscenze attuali sono solo parziali? È da queste tracce che occorre partire per altre esplorazioni. L’identificazione delle forze motrici della mente è ancora lontana dall’esser conclusa. Del resto, penso sia necessaria una nozione più efficace di inconscio per dare un nome a quel qualcosa che agisce in noi e che, a torto, ci illudiamo di possedere: quel qualcosa che crediamo Io.

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