Le maschere scorticate della coscienza

Dialogo con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Benedetta Muzii

C’è una domanda che cattura ed affanna la mente di chiunque rifletta su cosa significa scoprire. Cosa è infatti una scoperta? Una congettura: una presa d’atto di un’esperienza? Come mai nonostante le stupefacenti evidenze riportate dalla scienza, questa ci appare come una terra incognita e il suo livello ultimo ci sembra sempre oltre i confini della nostra comprensione razionale? E poi, cos’è l’ispirazione che, almeno nell’arte, è strettamente legata alla scoperta?

Partirei da questa ultima domanda. Il termine latino inspiratio rinvia all’esperienza religiosa del soffio di Dio che attraversa l’uomo impossessandosi del suo respiro vitale. In questa rappresentazione, successiva all’esperienza originaria del sacro (quella cioè del superamento del totalmente altro per la relazione con il divino) è Dio stesso a istituire tale relazione, rendendo partecipe l’uomo del proprio soffio con oltreumane ‘parole’. Attraverso l’inspiratio l’uomo può rivolgersi a Dio e riverberarne l’eco nel mondo. Presso gli antichi si tratta di una prerogativa di colui che media tra umano e divino (il profeta, il vate, il folle), istituendo un duplice livello di risonanza e comunicazione: del divino verso l’uomo e dell’uomo verso il divino. Tuttavia, ancorché complementari, le due esperienze non sono sovrapponibili: infatti, da un lato vi è il sentimento del sacro; dall’altro, il karisma da cui promana il sentimento artistico.

A scuola si impara che il primo artista è l’aedo. Nell’Odissea, canta per i numi e per gli uomini.

Già, se Omero (poeta cieco) e Tiresia (vate cieco) rappresentano le icone classiche dell’ispirazione, Esiodo attribuisce direttamente la propria opera alle Muse, mentre Pindaro le supplica affinché facciano involare la sua creatività su alati cavalli. Senza il loro intervento la mente degli uomini sarebbe cieca. Vi sono uomini, dice Platone, la cui voce è ispirazione divina. Ma se è vero che sono le Muse a influenzare il poeta, i beni più grandi giungono all’uomo attraverso la follia divina. La filosofia incarna la forma più compiuta di conoscenza. Il pensiero filosofico si distanzia criticamente dalla comprensione di sé che l’ispirazione dona al poeta, anche se è solo il kalós a trascendere il sensibile.

Nel Rinascimento prevale l’idea che è l’ispirazione a permettere all’uomo l’accesso alle cose divine, al punto di fargli riprodurre l’immagine della bellezza e dell’armonia del cosmo.

L’idea del poeta illuminato da un soffio divino attraversa tanto la cultura rinascimentale quanto la poesia francese della Plèiade. Ma la sua diffusione non è generale. A frenarla è una concezione della poesia per così dire ‘tecnica’, che commisura la qualità di un poeta al talento, alla cultura, alla coerenza con la tradizione, alla capacità sistematica di lavoro. Se Winckelmann e i neoclassici avvalorano l’idea che la poesia debba corrispondere alla tradizione classica e alla riflessione platonica, Goethe considera fonte primaria dell’ispirazione artistica le grandi opere classiche. Egli sostiene: non sono io che creo le mie poesie, sono loro che creano me. Ad ispirare la poesia è un principio d’ordine, una forza contraria ad ogni arbitrio. Anche se il genio non è immune da rischi. Hegel dice che l’artista deve essere sì ispirato, ma questa ispirazione deve essere pienamente presente alla ‘cosa’, soprattutto se non concede pace prima che la forma artistica sia conclusa. Anche quando è intrisa di talento e genialità naturali, la creazione artistica richiede riflessione e razionalità. L’artista deve fare appello al senso della misura e alla più piena concentrazione della mente. Per questo sarebbe assurdo credere che egli operi come in una condizione onirica.

Il tema dell’ispirazione artistica ha il massimo sviluppo nella cultura romantica. Il genio, uomo rapito da forze sovraumane, è colui che riesce ad infrangere le regole ordinarie e a generare un entusiasmo straordinario. Nel romanticismo, l’ispirazione è energia interiore che attinge alle forze della natura e spinge l’artista ai vertici della grandezza umana.

C’è da dire che se per i pensatori rinascimentali il concetto di ispirazione conserva ancora un nucleo religioso (la scintilla divina), per i romantici alle sue radici vi sono potenze misteriose e ineffabili, generate dal grembo stesso della natura. È questa la luce che illumina l’artista, il genio dai tratti anarchici, che diviene centro del dibattito estetico dell’età romantica. Schelling sostiene che l’arte è continuazione della creazione della natura: una sorta di seconda natura che si realizza come superamento della forma, liberazione della forma tramite la forma stessa.

Si può forse dire che l’ispirazione è inconscio unito alla tecnica artistica in forma di un’intuizione, ponte tra finito e infinito, tra utilizzo e superamento della forma?

Certo! A tale concezione si oppone Schopenhauer, che considera ragione e riflessione sistole e diastole della filosofia. L’arte è intuizione, per sua stessa natura indipendente dalla ragione. Vi è nell’uomo una naturale, potente forza creativa che aspira continuamente alla luce, anima la fantasia, confonde sentimenti e passioni, accende pensieri travolgenti. Sarebbe, tuttavia, pura superstizione pensare che si tratti di possessione divina, sentenzierà Nietzsche. Non è una grazia del cielo, ma l’improvviso straripare di una energia imprigionata. I grandi artisti sono instancabili nell’inventare, ma anche nel respingere, vagliare, trasformare, ordinare. Alla fantasia che produce di continuo fa da contrappunto il giudizio che decide e connette. Il rifiuto dell’idea classica di ispirazione estetica trovò larghi consensi in Francia e diventò una caratteristica della moderna teoria poetica. Baudelaire ne sintetizzò i tratti nelle sue considerazioni su Edgar Allan Poe, cui riconobbe non solo un eccezionale talento naturale e un’attitudine quasi divina di percepire istintivamente i rapporti intimi e segreti delle cose, ma anche una straordinaria capacità nel sottomettere alla volontà il demone sfuggente dei momenti felici, di attenersi al metodo e all’analisi più severa. Vanno nella stessa direzione le considerazioni di Mallarmé, Flaubert e Valéry. Quest’ultimo, sottolineando la struttura matematica dei quadri di Degas, asseriva che l’artista è un puro “animale razionale”, un matematico coordinatore della propria attività costruttiva. Proprio come Taine che, alla fine del secolo precedente, aveva sostenuto che la scienza con il suo metodo rigoroso rappresentasse un esempio per l’arte; o come Adorno, che sosteneva che quello dell’artista è un accurato lavoro teoretico guidato da una logica e una concentrazione estreme, la medesima richiesta al fruitore; o, infine, come Stravinsky, che svincola del tutto l’atto creativo dall’ispirazione, ritenendo che la vera forma di ispirazione sia il progresso del lavoro artistico. C’è da dire che anche se è su questa strada che l’ispirazione verrà progressivamente relativizzata, pensatori come Luigi Pareyson hanno fortemente valorizzato l’ispirazione considerandola sorgente autentica del lavoro artistico. In questo senso, anche se non si tratta di un inebriante possesso miracoloso, essa chiama a un “senso di responsabilità, un dovere di fedeltà, un impegno di dedizione”.

Tutti i motivi della fantasia, della potenza figurativa sulla creazione, delle oscillazioni tra ispirazione e rigore metodologico, confluiscono nell’originalissima narrazione di Marcel Proust, di cui lei ha scritto in diverse sue ricerche. Può parlarcene?

La domanda che da anni mi affascina ed estenua è: cosa è Alla ricerca del tempo perduto, quest’opera che, dal 1909 al 1922 (l’anno della morte), tutti i giorni e le notti (soprattutto le notti) ossessiona la mente di Proust? In apparenza, è un’autobiografia. In realtà, è un libro che stravolge d’un colpo il romanzo tradizionale. Ne vìola le leggi e l’architettura, inventando qualcosa di nuovo, di unico e irripetibile. Sul filo della memoria involontaria, nelle zone di interferenza tra veglia e sonno, il flusso del racconto si approfondisce e si dilata a dismisura. Quasi senza accorgercene, dalla vicenda di un giovane borghese sensibile e nevrotico, possiamo contemplare non solo il destino di una società a cavallo di due secoli, ma dell’umanità intera.

Lei ha scritto che l’architettura narrativa della Recherche somiglia a una struttura musicale. Di più: la musica è protagonista centrale della narrazione.

Si pensi alla scena dell’ascolto del septuor di Vinteuil, la più affascinante e misteriosa tra le opere d’arte immaginarie presenti nella Recherche. Proust era solito invitare a casa propria gli strumentisti del quartetto Poulet, che eseguivano per lui musiche di Franck, Fauré, Mozart, Schumann e di certo concorsero all’ideazione del septour. Nella Prigioniera – l’opera postuma di Vinteuil che il Narratore ascolta con spasmodica concentrazione durante un ricevimento dai Verdurin – il septour diviene architrave del romanzo e consente a Proust di anticipare, come ipotesi, alcuni elementi dell’estetica conclusiva del Tempo ritrovato. Nella trama della Recherche, la sera dell’esecuzione del settimino è decisiva per diversi personaggi. Al ricevimento dai Verdurin, il protagonista ha il cuore ricolmo di presagi di sofferenza per la rottura con l’amata. Ma ad essi si oppone la stupefacente musica di Vinteuil, con le sue promesse di una felicità sovrannaturale intravista dal protagonista in alcune ore privilegiate: impressioni estremamente vive rincorrevano resurrezioni della memoria involontaria, in un fragile e luminoso presentimento di tempo ritrovato. Il septour si carica di premonizioni metafisiche che riscattano l’oscurità della sofferenza e della colpa, dischiudendo, oltre il desiderio e la crudeltà, una realtà di pace infinita e redenzione. Proust considera lo stile una struttura imposta da una ‘società segreta’, indipendente dalla volontà e dall’intelligenza, dove ogni scelta è riconducibile alla visione che ogni artista ha della realtà.

Straordinaria idea della creazione artistica! L’artista si congeda dalla propria soggettività con la singolarità della propria visione. Senza decidere nulla. Assecondando solo la verità interiore che si impone sulle pretese del proprio ‘Io’.

Alla ‘sua’ verità il Narratore perviene quando ormai tutti i tentativi di scegliere il tema del libro che avrebbe voluto scrivere gli sembravano votati al fallimento. Le improvvise resurrezioni della memoria involontaria, le impressioni eccezionalmente vive, le folgoranti epifanie sono i segni di una verità nascosta dall’abitudine, irretita dagli schemi dozzinali dell’esistenza quotidiana. Ma la creazione, come un fiume carsico, affiora inesorabilmente. Si rivela come la sola riconquista possibile del “tempo perduto”. Se per Sainte-Beuve è la vita ad illuminare la letteratura, per Proust è la letteratura ad illuminare la vita, manifestandosi nella singolarità irripetibile dello stile. Senta cosa scrive Proust:

La grandezza dell’arte vera, quella che il signor Norpois avrebbe definita “un passatempo da dilettanti”, consiste nel ritrovare, nel riafferrare, nel farci conoscere quella realtà da cui viviamo lontani, da cui ci scostiamo sempre più via via che acquista maggiore spessore e impermeabilità la conoscenza convenzionale che le sostituiamo: quella realtà che noi rischieremmo di morire senza aver conosciuto, e che è semplicemente la nostra vita. La vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta è la letteratura; vita che, in un certo senso, dimora in ogni momento in tutti gli uomini altrettanto che nell’artista. Ma essi non la vedono, perché non cercano di chiarirla. E così il loro passato è ingombro di innumerevoli lastre fotografiche, che rimangono inutili perché l’intelligenza non le ha sviluppate. Riafferrare la nostra vita, e anche la vita altrui: giacché lo stile, per lo scrittore, come il colore per il pittore, è un problema non di tecnica, bensì di visione. Esso è la rivelazione, impossibile con mezzi diretti e coscienti della differenza qualitativa che esiste nel modo come ci appare il mondo: differenza che, se non ci fosse l’arte, resterebbe l’eterno segreto di ognuno.

Per essere lettori sensibili, sembra dire Proust, occorre attraversare le distanze, congedarsi dal gioco del linguaggio referenziale, emanciparsi dalla pigrizia della mente e del cuore. Occorre lasciarsi irradiare da parole rinnovate, incamminarsi sul territorio sottile e implacabile della verità, rischiarare la superficie della vita: quella stessa vita che, senza l’arte, resterebbe a noi ignota e oscura.

Sì, dove la nostra logica naufraga, emergono i segreti inconfessati, mai detti a noi stessi. Non vi è, del resto, alcun accesso al cuore per vie dirette. Solo lungo intermittenze ed epifanie, consonanze e dissonanze, identificazioni e distanze. Nell’intensità policroma della parola, nel senso molteplice e sovrasensibile della verità e della sua bellezza. Dimora lì, il senso delle nostre vite. Le parole create gettano luce iridescente sulle nostre consunte, disilluse, estenuate parole ordinarie. Ce ne rivelano i segreti dimenticati, facendoci desiderare di trasmettere ad altri sentimenti ed emozioni che mai avremmo raccontato a noi stessi. Al tremebondo segreto racchiuso entro i confini del nostro evanescente Io sopravviene la felicità segreta della scoperta, la gioia intensa e serena di un’epifania, di un’inattesa rivelazione. Quella radicale vitalità, quel di più della vita che è l’arte, ci sospinge su territori incogniti e sorprendenti, in un viaggio avventuroso che sovverte le abitudini, restituendo nuovo senso alle cose. È come se, attraverso il suo potere creatore, l’autore rendesse a noi chiare le emozioni che avevamo provato, le parole che avevamo balbettato senza saperle pronunciare.

Forse si può dire che il creatore della parola ci introduce a nuova vita, ce ne rivela realtà inaspettate, prima irreali o addirittura inesistenti. Quasi che, da semplici lettori, rapiti dalla sensualità di una scoperta, da parole non dette, divenissimo noi stessi creatori e, inevitabilmente, altro da ciò che eravamo. Interpreto bene?

Vede, mentre le nostre parole, misere, impacciate, indigenti, con una metamorfosi ci trasportano nella terra del linguaggio, alla sorgiva della creazione. Con la sua sola presenza, l’autore riannoda i fili del nostro dire interrotto, infiamma la nostra volontà di dialogo in noi e tra noi. Ora, sulla superficie di ogni parola riluce una profondità oscura, intricata, segreta, un sovrasenso che si compie nella perfezione formale del suo segno. Ogni degno autore crea il suo universo semantico, peculiare, in-definito, tanto peculiare quanto infinitamente aperto e in cammino verso altre nuove realtà.

Torniamo per un momento al luogo privilegiato, all’estatico ascolto del Settimino di Vinteuil, narrazione stupefacente della creazione e dell’esperienza artistica.

Si potrebbe parlare a lungo sull’influenza della musica nell’opera di Proust, in particolare quella di Vinteuil. Nella celebre serata dell’ascolto del Settimino, Proust stesso ammette di pensare, a proposito della piccola frase del brano, al Venerdì Santo del Parsifal di Wagner. Le opere di Vinteuil accompagnano la complessa evoluzione psicologica dei personaggi: soprattutto la relazione amorosa tra Swann e Odette, e tra Albertine e il Narratore. Attraverso queste opere il Narratore scopre la sua vocazione per la scrittura, riportando nella sua vita il tempo perduto attraverso l’opera letteraria. Secondo alcuni, proprio la riflessione sulla natura della musica avrebbe rivelato al Narratore il modello ideale della letteratura, spingendolo a consacrare la propria vita alla letteratura e ad esplorare la realtà oltre le frontiere delle apparenze. Wagner, Debussy, Beethoven e Schopenhauer hanno avuto grande importanza nella sua opera. La strada che lo conduce da Beethoven a Debussy gli rivela l’incarnazione dell’arte che, come diceva Schopenhauer, ha il potere di fermare il tempo e di portare alla vocazione letteraria, alla vera vita. Nella Prigioniera il Narratore che attende il ritorno di Albertine, riflette sull’unità “retrospettiva” dell’opera di Balzac e di Wagner, giungendo a conclusioni che si possono applicare anche alla Recherche.

L’arte, e la musica in particolare, ci approssima al nostro essere, forse più dell’amore stesso.

Nulla, come la Recherche, ci fa cogliere le sfumature e l’insieme, il sovrasenso spirituale e la perfezione formale di un’opera. Se la comprensione razionale delle cose ci eleva spiritualmente, l’opera d’arte segue il verso contrario: discende nei nostri sensi, arricchisce il nostro animo, sollecita il cambiamento non solo in senso estetico, rendendoci migliori, invitandoci al viaggio per vie che da soli non avremmo saputo intraprendere. L’arte autentica ci fa riafferrare la vita che spesso guardiamo da lontano e che potremmo non conoscere mai. Ma se ci riapprossima ad essa e a quella degli altri, l’arte ci permette anche di congedarci da noi stessi. Ci fa guardare con gli occhi di un altro, che altrimenti ci resterebbe sconosciuto, come quei pianeti la cui luce giunge a noi dopo essersi consumata negli spazi siderali. Non vediamo più un solo mondo: il nostro. Ora, quel mondo si moltiplica, si dilata sensorialmente, a dismisura. Ci sembra addirittura che quell’opera sia stata scritta per noi, che corrisponde alle nostre attese e alle nostre domande più segrete che disperavamo di rivolgere a qualcuno.

Vorrei affidare la parola a Proust e le chiederei di commentarla.

Ero ormai giunto a questa conclusione: che non siamo affatto liberi di fronte all’opera d’arte, che non la componiamo a nostro piacimento, ma che, resistente a noi, dobbiamo, dacché è a un tempo necessario e nascosto, e come faremmo per una legge della natura, scoprirla (…). Un’opera che contenga teoria è come un oggetto su cui ci sia lasciato il cartellino del prezzo. Infatti, tutti coloro che mancano di senso artistico, cioè di sottomissione alla realtà interiore, sono non di meno dotati della facoltà di ragionare all’infinito sull’arte” (Proust, 2005: 212-213)

Si tratta della celebre “battuta” di Proust contro l’introduzione di ogni ideologia nell’arte. Ogni propaganda è per sua stessa natura antiartistica. Soprattutto nemica dell’Io, questo piccolo universo che sa aprirsi alla polisemia di un’opera d’arte. Sì, perché l’universo è vero per tutti e differente per ognuno. Non un solo universo, dunque, ma milioni di universi, quante sono le pupille e le intelligenze umane, che si destano ogni mattina. I personaggi della Recherche sono esseri in fuga: indecisi, ondivaghi, contradittori. Nel trascorrere inesorabile del tempo, cambiano, si trasformano, diventano quasi irriconoscibili. Il lettore ne riconosce l’identità solo dopo l’assenza, le avventure, gli imprevisti. Finanche dopo errori del racconto stesso, che è poi la vita che rivela i lati più insospettati di un uomo. E se il Narratore, in terza persona, resta sempre se stesso, statico, lontano dagli affanni di una realtà in continuo mutamento, l’io narrante si muove, vive in una sorta di “ricostruzione” permanente. È grazie a questo Io mobile e incerto che la narrazione può attraversare la frontiera invisibile del tempo, viaggiare sulle chiare superfici della mente o immergersi nelle opacità dell’inconscio.Proust mette di fronte una realtà e un Io che mutano di continuo e che, proprio nella confusione delle forme di un passato che affiora, perviene solo in parte a una sua consapevolezza, a una sua verità. La scoperta della sua vocazione di scrittore si svolge attraverso un viaggio che si realizza passo dopo passo, nella convinzione iniziale di esserne incapace, di non farcela, fino quasi a nutrire un rifiuto della letteratura. E tuttavia, proprio il senso acuto del fallimento lo spinge a continuare a scrivere, tra il tormento e l’estasi, l’originalissimo romanzo di una coscienza scissa, aperta, dolorante.

La mirabolante costruzione proustiana è come se avesse in sé l’arte del frammento e l’arte dell’architettura delle cattedrali. Qualcosa, insomma, che lo accomuna ai più grandi creatori di tutti i tempi per l’audacia della concezione, l’umiltà al servizio del rigore artistico e delle leggi della bellezza.

Ha ragione. Come Dante, Shakespeare, Wagner, unisce, nella creazione, tormento ed estasi, inaudita sofferenza per il dolore del mondo e la faticosa consapevolezza della propria grandezza, l’estasi di una sublime verità cercata (e trovata) con la gioia di comunicarla alle generazioni future. Dante, che non fa mistero della visionaria immensità della propria opera: “non vi si pensa quanto sangue costa”. Dichiara, estenuato, che ai suoi versi hanno posto mano il cielo e la terra; che realizza, come viaggio di un’anima verso il Creatore, l’unitas multiplex del Poema mediante atmosfere, personaggi, linguaggi, corrispondenze simmetriche tra terzine a rime alternate, canti, cantiche; che raggiunge l’estasi di una perfezione formale dopo il dolore dell’esilio e della condanna a morte, ma che ci dice quanta pena costi la bellezza della parola creata. La sua invenzione poetica cresce nel viaggio verso la sorgiva della creazione, nel drammatico e tormentato senso del peccato, il più tremendo: credersi Dio, una volta giunto all’apice della consapevolezza della propria opera. Proprio qui, al vertice della consapevolezza di creatore occorre la più profonda umiltà, il più profondo atto di fede, la più rigorosa presa d’atto: quella della indicibile differenza tra la creazione umana, fondata su materiali preesistenti (la Bibbia, Virgilio e l’intera sapienza del suo tempo) e la creazione divina che, in principio e per principio, è creazione ex nihilo, pura volontà divina.

Il modernissimo tormento di Proust, lo ammetterà, è molto distante dall’esperienza dantesca.

Vero! Ma come non vedere la sua prossimità con Dante nella oscillazione tra l’umiltà e la paura di non farcela, tra il senso di indegnità verso una missione profetica data da Dio e la faticosa conquista nel corso stesso della creazione. Due scissioni abissalmente diverse tra loro, ma su cui si stagliano grandezze raggiunte attraverso paradisi e abissi infernali. Come non pensare a Der Ring des Nibelungen (il poema musicale wagneriano), che intende realizzare il progetto audace e folle di dare un suono al mondo? Wagner crea una musica nuova, un teatro musicale del tutto diverso dall’intera tradizione del teatro d’opera soprattutto italiano: un teatro musicale con un altro ordine; un teatro sinfonico e metafisico; una fusione ineguagliata tra parola poetica e musica orchestrale di inaudita potenza; un’opera, infine, che unisce un nuovo universo semantico con la potenza a-semantica della musica strumentale. L’infinito di senso espresso nelle note, musica e canto declamato, che dà vita alle psicologie del profondo di personaggi semplici (il giovane Siegfried, Parsifal, Kundry) e complessi (Wotan, Brunilde, Lohengrin).

Lei ha scritto che tutte le grandi creazioni artistiche hanno leggi proprie: ricerca e realizzazione, passione e misura, architettura e bellezza. Il narratore proustiano è inseguito nel lungo e tortuoso cammino della Recherche da diverse visioni ineffabili e indistinte di gioia che anelano ad una rivelazione. Ha visto cose che gli occhi di un mortale non potrebbero vedere. Il mondo gli si rivela attraverso la sublime architettura della sua opera. Vi sono scene del romanzo ― la rievocazione della madeleine, i campanili di Martinville, le sonate di Vinteuil, il pavimento del battistero di San Marco ― che redimono il narratore dalla sua prostrazione e gli ridanno fiducia nella possibilità della creazione.

La stupefacente rivelazione evocata dalla rievocazione delle madeleines provoca in Marcel l’eco di sensazioni lontane. Frammenti d’esperienza, depositate negli archivi polverosi della sua memoria, vengono riportati a nuova vita. Ma la memoria non redime Marcel solo dalla colpa, dalle inquietudini e dalla contingenza del presente. La sua estatica rimemorazione sovverte la lotta estrema tra la vita e la morte. Infrange il diaframma tra passato e presente. Spezza la freccia del tempo. Gli dona l’immortalità. Gli uomini muoiono quando non sono più capaci di riannodare l’inizio alla fine. La sua velata malinconia iniziale è redenta dal suo stupefacente viaggio nel mistero del ricordo. Quel piccolo dolce a forma di conchiglia all’aroma di limone, pur restando un pezzetto di materia, ci introduce nello spirito dello scrittore.

A cosa è dovuta questa variazione di livelli di realtà? In che modo Marcel fu condotto in quell’arcipelago di memorie che fecero del suo spirito uno straordinario teatro di sperimentazione? Come spiegare l’episodio, ne Il Tempo ritrovato, quando Marcel inciampando nel selciato sconnesso del cortile del palazzo dei Principi di Guermantes, è colto da un’estatica epifania extratemporale? Quando ogni cosa sembrava perduta, gli appare d’improvviso un nuovo cammino. Senza averlo nemmeno deciso si sente pronto ad intraprendere l’opera d’arte per la quale credeva di non avere alcun talento. Cos’è quella irragionevole e sorprendente felicità? Da cosa ha origine quella gioia e quella forza così intense da rendergli addirittura indifferente l’idea della morte? Quale sottile enigma si cela dietro tutto ciò?

Quella felicità lo libera all’istante dalla necessità del tempo. E non ha nessuna importanza che Marcel fosse abilissimo a costruire e plasmare. Quel che conta è come la sua memoria abbia disegnato architetture sottili e inspiegabili che inaugurarono una nuova forma di vita. Questo riconoscimento del ricordo cercato e trovato, questa paradossale presentificazione dell’assente, mostra tutta la profondità del tempo. Come l’età dell’albero impressa nei cerchi concentrici del tronco, la memoria conserva la traccia di un evento non più soltanto materiale.

È noto che Proust leggeva Dostoevskij con ammirazione e commozione. Conosceva a memoria pagine intere de L’idiota. Proust comprende in pieno la moderna concezione dostoevskiana del tragico, come il valore degli elementi comici, buffoneschi, carnevaleschi presenti nella sua opera.

In uno dei suoi ultimi appunti annota che i libri sono opera della solitudine e i figli del silenzio. Forse pensava alla solitudine del grande russo incarcerato in Siberia che il potere dell’immaginazione aveva salvato da una sorte tremenda. Si spinse addirittura a dire che i lavori forzati furono, per Dostoevskij, una mossa del destino, una straordinaria occasione per andare più a fondo della propria vita interiore. Non è fantasioso cogliere simmetrie tra l’animo sereno di Dostoevskij prigioniero e la volontaria segregazione di Proust, che lo obbliga a una totale dedizione alla creazione letteraria. Li accomunava anche la condizione di malati: uno epilettico, l’altro asmatico. Questa sofferente fraternità diviene segno di affinità. Lo stesso Proust, assediato dai sintomi dell’asma, si paragona a un epilettico dostoevskiano che sente l’approssimarsi delle crisi.

Si fa fatica a pensare che nel momento della creazione, nel divenire dell’opera, la malattia possa essere una grazia.

Eppure, Dostoevskij indica a Proust la possibilità di un buon uso della malattia: far nascere da queste sorprendenti creazioni quando, come avrebbe detto Virginia Woolf, si sono spente le luci della salute. Nel suo ritratto sul grande russo, Stefan Zweig mostra come lo scrittore russo riuscisse a vivere fino in fondo le sofferenze più atroci, quelle da cui un uomo esce devastato, traendone invece ragioni di vita e di creazione. La povertà, l’epilessia, il trauma di una salvezza un istante prima della fucilazione, la deportazione in Siberia, sono per Dostoevskij un abbrivio per gli abissi dell’animo e, al tempo stesso, lo slancio verso l’assoluto. Ecco perché racconta il crimine e il vizio come caduta e come missione. Il martirio e il peccato diventano linfa di un’arte che eccede ogni limite, lacerata da ambiguità atroci e insanabili: aneliti di fratellanza e nichilismo, materialismo sarcastico e bisogno assoluto di Dio.

Dostoevskij fu uno scrittore e pensatore problematico e fecondo, antidogmatico, sensibile ai movimenti sotterranei del tempo, visionario nel cogliere i mutamenti del mondo a venire. Anche la religiosità del suo pensiero è profondamente moderna: cioè, radicalmente problematica.

Dostoevskij ha dentro di sé contrasti vulcanici che alimenteranno in lui il tormento della creazione sino ai limiti estremi. Nei suoi romanzi ogni personaggio agisce in totale autonomia e tutti i molteplici punti di vista dei (e nei) personaggi mutano carattere e posizione. L’angolo visuale dell’autore è assente. Guarda, infatti, da nessun luogo e da tutti i luoghi e la verità trascende ogni singola coscienza: non può (né vuole) chiudersi in una singola enunciazione. Anche per questo, forse, l’opera di Dostoevskij ha trovato interpretazioni feconde non tanto tra i critici letterari, quanto nella lettura libera e intensa di altri scrittori, che hanno avvertito la radicale alterità della sua ricerca. Tutto il pensiero del nostro tempo ― da Nietzsche a Mann, da Gide a Camus, da Lawrence a Faulkner, da Proust a Levinas ― è attraversato dalla presenza magnetica di Dostoevskij. Forgiato dallo spirito europeo più autentico, l’universo ideale e immaginario di Dostoevskij getta luce penetrante sulla cultura occidentale da una prospettiva altra, quella russa, gravida di sconvolgimenti epocali. Di quell’ordine intuisce le fratture inapparenti e le rovine latenti: il declino del cristianesimo, lo scatenamento di forze del male portatrici intrinseche del nulla, dall’enorme potenziale distruttivo. Non che altri grandi spiriti europei non abbiano avuto piena coscienza del nichilismo incipiente. Nessuno, tuttavia, ebbe la capacità analitica di Dostoevskij nell’illuminare lo sdoppiamento dell’essere e dei valori, l’instabilità permanente della ragione, le allucinazioni della morale, lo smarrimento e il vuoto generato da un passaggio traumatico dal vecchio al nuovo mondo. Nessuno, come Dostoevskij, colse quanto ampia fosse l’azione distruttiva dei rivoluzionari nichilisti, intellettuali astratti, nemici di una nuova gerarchia di valori.

È interessante soffermarsi un attimo sul (non) metodo creativo di Dostoevskij. Scrive febbrilmente, senza pianificare e programmare nulla. Nella febbre pensa e nella febbre vive.

Estasi e annientamento, tortura e piacere acuito fino al dolore, dolore acuito fino alla voluttà, eterno spasimo: ecco cosa è per lui creare. Scrive la prima opera, Povera gente, piangendo. Da allora in poi ogni opera è una malattia. La scrittura convulsa, magmatica, eccezionalmente veloce. Diari ed altre testimonianze raccontano che dettasse i suoi capolavori ad Anna Grigorevna Snitkina (collaboratrice devota e poi futura moglie), ad una velocità vertiginosa. Mentre dettava una frase, era già a quella successiva, con i prevedibili ingorghi di trascrizione. Nacquero così quei grandi capolavori della letteratura russa e mondiale che nel tempo hanno conosciuto solo rarissime correzioni. Nondimeno questo singolare modo di procedere non ci aiuta nemmeno un poco a comprendere la misteriosa relazione tra ispirazione e rigore metodico.

Il caso di Dostoevskij sembrerebbe un paradigma della potenza dell’ispirazione.

Senza dubbio. Non possiamo, però, non considerare l’intensità della meditazione che precede il lavoro creativo e la grande progressiva maturazione stilistica. Se è vero che, ne L’idiota, fa dire a Nastasja Filippovna “tu giungi in ogni cosa fino alla passione”, questo potrebbe riguardare tutti i personaggi del suo universo e, innanzitutto, egli stesso. Ogni suo libro nasce da una deflagrazione, effetto di furibondi sconvolgimenti. Dostoevskij non sa creare senza partecipare o finanche identificarsi con la sua creazione. Alla genialità creativa, alla potenza ideativa aggiunge l’amore per l’architettura del progetto. Non riesce a vivere in una condizione di serenità creativa. Il suo è un permanente conflitto tra cuore e spirito, tra precisione e passione. Tenta di tenersi fuori della scena, di narrare gli avvenimenti, vivisezionare i sentimenti. Ma non ci riesce. Primordiali passioni lo trascinano irresistibilmente nella sofferenza e nel compatimento. Sempre, ogni volta, nuovamente nel proprio mondo. Non vi è mai armonia. “Odio l’armonia”, farà dire a Ivan Karamazov, il personaggio che meglio rivela i suoi più intimi pensieri. Non vi è pace. Non vi è accordo tra forma e volontà.

 Come ha osservato Zweig, qui è in gioco un’epica lotta tra architettura e passione, tra interno ed esterno.

È il limite, la frontiera, il bilico smottante dell’umano tra il valore supremo e il nulla totale ad accendere la passione creatrice di Dostoevskij. “Oh, non credete all’unità dell’uomo!”, scrive anticipando Pirandello e Pessoa mentre con il bisturi della sua intelligenza mette a nudo il dramma concettuale dell’occidente. In tutti i suoi grandi momenti, negli snodi narrativi delle sue opere, Dostoevskij produce l’effetto del ‘tragico’. I suoi romanzi appaiono drammi velati e trasformati. Per molti versi I fratelli Karamazov richiamano la tragedia greca, il teatro shakespeariano.

Tutta la sua opera è un movimento tellurico.

L’universo narrativo dei suoi personaggi esprime una radicale polifonia di voci e azioni contrastanti. Se tra i canoni del romanzo precedente vi era il viaggio come spostamento avventuroso del protagonista nello spazio, in Dostoevskij il viaggio assume i lineamenti di un movimento psicologico temporale. L’orizzonte entro cui esso si dispiega è il tempo breve di un’esperienza di vita, come pure il tempo lungo della storia umana, entrambi sottesi da un bisogno metafisico di Dio, da sfide etiche radicali, da fonti di energia che si incontrano, si confrontano, si scontrano di continuo, compenetrandosi al tal punto che non si sa dove finisca la personalità di un personaggio e dove inizi quella di un altro. Per tutta la vita si torturò rendendo più acuti i propri dissidi fino all’eccesso più doloroso. Si dilaniò saggiando le profondità più oscure della natura, per incontrare Dio e il senso della vita. Allora gettò via tutta la sapienza accumulata per una nuova umanità, intimandoci di amare la vita più che il senso della vita. Ma, soprattutto, di attraversare il nichilismo e trovare nella speranza una via per superarlo.

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