La disumana potenza del sublime

Dialogo con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Benedetta Muzii

Nel suo viaggio di ricerca nell’arcipelago della scoperta, dell’ispirazione e della creazione, si è imbattuto, tra altre, in personalità del mondo letterario come Kafka e Rilke. Nel suo corpo a corpo con questi autori lei ha parlato di paesaggi poetici decisivi per la coscienza dell’uomo contemporaneo. Ce ne parla?

Inizierei con Kafka che, con il suo inesorabile scavo della verità, l’inquietante essenzialità, l’allusività aforismatica, la misteriosa chiarezza della scrittura, fa di lui il più contemporaneo di tutti gli altri autori. Genio tenero, indifeso, dalla straordinaria libertà letteraria estratta dai tormenti dello spirito, dal rifiuto della funzione tradizionale della letteratura. L’eco della sapienza haggadica e talmudica risuona in ogni sua parola, come distillati di senso, ricerca della verità, invito al viaggio lungo sentieri enigmatici, là dove a una domanda si risponde con un’altra domanda.

Kafka sorprende, inquieta, sconvolge e, tuttavia, non è un autore che si legge con piacere immediato.

In realtà, ciò che si perde in immediatezza si acquista in profondità. Come ogni grande scrittore, ha un proprio universo, una semantica che svela aspetti inediti e occulti del mondo in cui siamo immersi o rende problematico ciò che ci appariva usuale. Dopo di lui, nulla è più come prima. Con la sua radicale enigmaticità, Kafka rende ancora più illeggibili i labirinti, i formalismi, i rovesciamenti di senso, le angosce del mondo moderno, le nostre stesse biografie. Con la sua straordinaria capacità di dare un nome all’angoscia di tante vite mortificate da Leggi forgiate nell’Olimpo dell’astrazione impersonale, aveva previsto e raccontato il nostro destino. Il senso critico della verità, l’amore per la libertà di noi contemporanei non possono prescindere da Kafka.

In un suo libro fortunato, il critico letterario Pietro Citati parla finanche con tenerezza di quest’uomo, ne dà una descrizione delicata. Senta cosa dice del grande scrittore di Praga: “Tutte le persone che incontrarono Franz Kafka nella giovinezza o nella maturità ebbero l’impressione che lo circondasse una “parete di vetro”. Stava là, dietro il vetro trasparentissimo, camminava con grazia, gestiva, parlava: sorrideva come un angelo meticoloso e leggero; e il suo sorriso era l’ultimo fiore nato da una gentilezza che si donava e si tirava subito indietro, si spendeva e si chiudeva gelosamente in sé stesso. Sembrava dire: “sono come voi. Sono uno come voi, soffro e gioisco come voi fate”. Ma, quanto più partecipava al destino e alle sofferenze degli altri, tanto più si escludeva dal gioco, e quell’ombra sottile di invito e di esclusione sul margine delle labbra assicurava che egli non avrebbe mai potuto essere presente, che abitava lontano, molto lontano, in un mondo che non apparteneva nemmeno a lui. Cosa vedevano gli altri, dietro la delicata parete di vetro? Era un uomo alto, magro, esile, che portava in giro il suo lungo corpo come se l’avesse ricevuto in dono. Aveva l’impressione che non sarebbe mai cresciuto; e non avrebbe mai conosciuto il peso, la stabilità, l’orrore di quella che gli altri chiamano con gioia incomprensibile l’“età matura”.

Sì, diverse testimonianze lo descrivono gentile con gli amici, raffinato, pieno di ironica grazia. Una sorta di Alice nel paese delle meraviglie, un santo ebreo hassidico, un folletto romantico. Leggeva febbrilmente di notte pagine di letteratura con rapimento e commozione. Poi, puntuale, ogni mattina alle otto in punto, arrivava nel suo ufficio di assicurazioni, dove svolgeva con ineccepibile sollecitudine le sue mansioni di impiegato. Questo perché temeva di smarrirsi negli sconfinati territori della letteratura. Gli occorreva una costrizione, qualcosa che limitasse la sua libertà. Occupando le proprie giornate con un lavoro estraneo, avrebbe potuto dedicare le sue preziose ore notturne a portare in luce il mondo ignoto di cui intuiva i lineamenti. Proprio come Fernando Pessoa, il dozzinale impegno diurno gli restituiva un sottile gusto di libertà e, insieme, di irresponsabilità. Nessuna decisione da assumere. Ma quanta energia doveva richiedere questa contabilità parallela! Insomma, da un lato, la monotona attività diurna, dall’altra le ombre sinistre della notte. Solo poche ore per riposare. Nessuna comodità. Più volte temette di uscirne a pezzi. Forse, l’ultimo riparo avrebbe potuto essere la follia.

Lei riprende in proposito un episodio molto intenso della vita di Kafka, che le chiederei di raccontare.

Nella notte di una domenica del 1912, dopo la disperante noia di una visita di familiari, Kafka si siede alla scrivania e inizia a scrivere Il verdetto: una storia di padri e figli, di crudeltà e sacrificio. Per la prima volta, ha la sensazione che la scrittura gli abbia tolto tutte le energie. D’improvviso, le forze del suo inconscio emergono alla luce, spezzando barriere e ostacoli. Scrive d’un fiato, per tutta la notte. Senza dormire. La penna scivola via, portando alla luce mondi rimossi. Se si fosse fermato, anche solo un istante, se si fosse distratto o avesse rivolto attenzione a qualsiasi altra cosa, avrebbe sepolto quelle verità taciute. Avvinghiato alla scrivania, come all’albero maestro di una nave nel cuore di una tempesta, scriveva senza perdere slancio. Bisognava scrivere tutto di un fiato. Tutto. Non solo i racconti o i grandi romanzi. “Solo così posso scrivere”, diceva a se stesso. Un flusso di coscienza che era piena apertura del corpo e dell’anima.

Per Kafka l’ispirazione poetica era un potere supremo al quale doveva obbedire a qualsiasi costo. È una caratteristica che ricorre di frequente nella creazione artistica.

 Forse nemmeno questo sarebbe servito. Doveva cancellare molte cose dentro e fuori di sé. Dimenticare ogni radice, anche la più tenue, per trasfigurare tutto in sostanza letteraria. Se non lo avesse fatto, gli sarebbe stato impossibile vivere. L’ispirazione era forza liberatrice, impeto lacerante, sconvolgimento risalente dai recessi più oscuri dell’anima, dagli angoli più remoti dello spirito. Aveva la sensazione che, dentro di sé, vi fosse fragore, non armonia. Avvertiva l’ostilità delle parole. Tutto il corpo lo metteva in guardia dalle parole. Immagino che ogni parola, prima di lasciarsi scrivere, si guardasse intorno, circospetta, in ogni direzione. Nonostante tutto, estraeva le parole dal magma indistinto della vita e del linguaggio, ricominciando ogni volta daccapo, componendo incastri laboriosi, trovando posto ad ogni parola già scritta in fuga in direzioni opposte. Proprio questa esigenza assoluta di rigore stilistico e di senso, spinsero Kafka, a cominciare da quella notte febbrile, a cercare la sua strada. Rifiutò ogni narrazione dilatata, ogni realismo naturalistico. Con parole essenziali fece passare le folle della sua prodigiosa fantasia per “strette vie”. Imparò l’essenzialità. Rinunciò ad ogni volontà di espansione e di variazione. Voleva giungere all’essenza delle cose. Forse nessuno come lui ha conosciuto un così potente desiderio di misura, di controllo, quasi temesse di eccedere il confine che un Dio sconosciuto gli aveva assegnato. Non avrebbe potuto fare altro.

La naturalissima vocazione alla scrittura non gli impediva di cogliere tutta la fragilità di quel dono. Infatti, diffidava della propria ispirazione e conosceva la vertigine che si prova nel guardare il mondo da lassù.

In realtà, trovò la fiducia nella propria capacità di scrivere quando cominciò a comporre Il processo. La scrittura diede consistenza, pienezza, libertà al suo destino di uomo. Per quasi sei mesi, teso, in una lucidità febbrile, pienamente padrone di sé, non si fermò. Non poteva fermarsi. Scriveva, interamente rapito, ispirato (e disperato) dalla potenza della scrittura.

Lei in un suo libro si sofferma sugli Aforismi di Zürau e dell’idea di Dio che ha Kafka (naturalmente non lo nomina) e sulla strada, ammesso che esista, per giungervi.

Alla domanda se esista un modo di giungere a Dio, la risposta di Kafka è sconvolgente: non c’è alcuna via. Nemmeno un viottolo di montagna. La vera via passa su una corda. Occorre la destrezza di un equilibrista per percorrerla. La corda è tesa al suolo, non verso l’alto. Bisogna camminarvi su senza poggiare il piede sulla terra. Il vecchio equilibrista che camminava sul filo, nel vuoto, con un’asta tra le braccia distese, appare quasi una figura patetica, senza più nemmeno il suo vecchio prestigio da buon nichilista. La corda non unisce più due punti sul vuoto: sembra più un inciampo che un tratto da attraversare.

Ma che cos’è la via, fuor di metafora?

Per Kafka è la nostra esitazione, la nostra incertezza, la nostra inquietudine. Se mai esiste, è un piano inclinato, un pendio ripido. Si può solo scendere, non salire. La via può dissolversi nel deserto, come quella che portò alla Terra Promessa. Si tratta comunque di una via labirintica, che va avanti e indietro, di lato e di traverso. Kafka giunge sino in fondo il cammino alle domande e alle risposte. Per lui, tuttavia, la domanda ha il volto enigmatico e inaccessibile della sfinge. La domanda non viene mai raggiunta dalla risposta. È la risposta a interrogarci, a introdurci per sentieri distanti e paradossali, strisciando come un serpente intorno alla domanda. Kafka ci intima di guardarci dalle nostre illusioni. Di solito crediamo che la domanda sia in movimento e la risposta immobile. Invece, la domanda è immobile e la risposta in movimento. Tra queste vi è un abisso, senza ponte.

Questo vuol forse dire che la via non esiste?

No, la via esiste. Esiste nonostante le incertezze, i labirinti, gli abissi. Da qualche parte ci attende. E vi saremo condotti. Non è forse vero che chi cerca non trova e chi non cerca viene trovato? Con il segno inconfondibile e indecifrabile della dialettica talmudica, Kafka sembra dirci che la via passa sopra la corda tesa a terra, una strada labirintica attraverso il deserto che ci conduce al nostro punto di arrivo. Ma cosa troveremo nel punto di arrivo? La ricerca stessa. La ricerca di un Tutto fatto di frammenti: liberazione e speranza, ardimento e dolcezza, azzardo e speculazione, pensando tutto e il contrario di tutto.

Se Kafka è proiettato in una drammatica esperienza di scrittura e in un singolare itinerario esistenziale e poetico, un altro grande figlio di Praga, Rainer Maria Rilke, mette mano a un altro grande esperimento letterario.

Forse è possibile individuare una caratteristica, una cifra comune della loro ricerca: al di là della assenza di ogni sperimentalismo formale, della distanza da ogni pratica avanguardistica, vi è in entrambi una nuova intuizione della possibilità di essere nel tempo, che apre un nuovo sguardo nella coscienza dell’uomo contemporaneo attraverso la scrittura e la creazione artistica. Nel Castello di Duino, sullo sfondo di aspre rocce carsiche, Rainer Maria Rilke prende definitivamente congedo dai lirismi compiaciuti della sua opera. Una nuova, rarefatta essenzialità irrompe nel suo spirito e nel suo stile. Nell’accettazione della sfida dell’angelo, nasce l’appello della creatività inesauribile. Rilke, prima poeta dei fiori e degli animali, dei giardini e dei quadri, delle statue e delle cattedrali, si converte ad un’esperienza di spazi senza cose, senza corpi, senza natura. Il Lied vom Mer, il “vento di mare a notte”, spira, quasi non esistessero, la natura, l’uomo e la sua storia. Quel vento trascina con sé lo spazio, da infinite distanze. Lo spazio. Nient’altro che spazio. È questa l’energia dell’inizio, l’energia dell’angelo o, se si vuole, la disumana potenza del sublime. L’uomo può solo accettare la sfida. Questa energia, che nega l’umano, la terra e le cose prossime, inaugura un doloroso processo di astrazione che rompe ogni indugio sui corpi e sui colori, per gettarsi verso l’alto, al di là dell’umano e di ogni forma visibile. Rilke vuol scavalcare gli uomini, passare direttamente dalla parte degli angeli.

Lei si sofferma sulle sue lettere di Rilke dalla Spagna, dove egli “chiarisce il senso di un linguaggio degli angeli, proiettato fuori da sé, verso uno spazio astrale, oltremisura, che è insieme ordine, legge, necessità”.

A Toledo, il poeta si congeda anche dalla musica, come fascino dell’indistinto, tempo inessenziale, pura perdita. La musica diviene seduzione, invito all’ordine e alla legge. Solo la musica risponde all’inaudito di una legge che ci interroga quasi implorandoci. Dietro questa cortina di suono si avvicina il tutto. Da una parte noi e, dall’altra, divisa da noi solo da un po’ d’aria, trema la declinazione delle stelle. La musica che vibra dalle stelle è distanza angolare che separa gli astri dall’equatore celeste: legge e ordine geometrico. In una lettera del 17 novembre 1912 a Marie von Thurn und Taxis, Rilke scrive che la musica vive nel silenzio: come mistero e iniziazione che si divide e di nuovo si ricompone, e da infiniti numeri ricade nell’unità. In questo spazio della pura relazione, ogni forma visibile possiede l’astrazione sublime e geometrica delle stelle. Il silenzio diviene solo l’altra faccia della musica, così come la morte lo è della vita.

Continui pure …

La sua poesia diverrà pura linea geometrica e, insieme parabola musicale, proprio come il canto di Orfeo sarà trascendenza o puro silenzio che si fa musica. Nell’attimo esatto in cui comprende che la musica è la legge geometrico-matematica, Rilke vince sulla “violenza immediata” della musica. Così, se prima di allora la musica era puro perdersi, sentirsi morire (come quando, per strada, ascoltava per caso il suono di un violino), adesso è l’esperienza del morire e del rinascere: tutto nella musica. Così, da poeta impressionista e sensitivo, diviene poeta orfico quando scopre l’elemento matematico della musica; infine, poeta sublime quando riconosce in Beethoven, come scrive alla pianista Magda von Hattingberg, colui “che apre gli abissi del pericolo per gettare sopra di loro ponti di radiose salvezze”.   

In Elegie duinesi e Sonetti a Orfeo si manifesta il nucleo generativo della produzione rilkiana. Cosa indicano queste due opere nella sua poetica?

L’uomo deve liberarsi di ogni dolore, vivere “nello sgomento delle sue stelle”, partecipare della bellezza e dell’ordine dei cieli “prodighi d’astri” che “risplendono al di sopra del suo affanno”. In Narziss, poesia tra le più significative, si colgono in trasparenza affinità spinoziane. Rilke è esplicito: pretendere di essere riamati da Dio vuol dire ridurre Dio a una funzione dei nostri desideri. E quando dice che i luoghi, i paesaggi, gli animali e le cose non sanno nulla di noi, beh … sembra risuoni Goethe che scriveva “la natura è insensibile”. Noi ci passiamo attraverso, come un’immagine attraverso uno specchio. E tuttavia − proprio perché l’accesso ci è impedito come un quadro impenetrabile − il mondo è “la nostra salvezza”.

Pur con tutta l’autonomia della creazione poetica, che non viene mai meno, l’intera opera rilkiana è densamente filosofica.

Gli inizi erano stati da grande lirico estetizzante, padrone di una tecnica sofisticata, ai limiti dell’artificio. In realtà, i riflettori sul valore filosofico della sua poesia furono accesi soprattutto da Heidegger, che vide in Rilke un equivalente poetico di Nietzsche, sostenendo che in Elegie Duinesi era presente il germe di tutta la sua filosofia. Ora, è fuor di dubbio che in Rilke il senso metafisico dell’esser per la morte è vivissimo, ma questa dimensione ha un significato molto diverso da quello di Heidegger. In Rilke, questo sentimento è una contemplazione filosofica della caducità. La morte come semplice trapasso fisiologico è solo una piccola morte, non impegna la nostra personalità. Invece, la grande morte è l’eredità più autentica della vita ed essa cresce con la nostra disposizione a lasciare che si cancellino i nostri limiti individuali, per ricongiungersi in Dio. Con la “grande morte”, Dio, eredita tutta la nostra vera sostanza, in una forma che supera la finitezza e la temporalità. Per questo non dobbiamo cercare di innalzarci verso la luce, ma accettare e proseguire quella stessa caduta che porta da Dio a noi e che, continuando, porta noi stessi verso la notte e il nulla: il crepuscolo del tempo che corrisponde all’aurora di Dio. Per questo, intima Rilke: “non ritornare”. Non ritornare in cerchio. Non chiuderti nel finito. Guarda la linea infinita che ci unisce e ci distingue, come la vita e la morte. Gli angeli stessi a volte non sanno se stanno tra i vivi o tra i morti.

Se nel primo Rilke in Il libro d’ore, ad esempio, la sua poesia è musicalità impalpabile, nella maturità si riapprossima al corpo delle cose nella loro quiete.

Congedandosi da ogni compiaciuto adornamento formalistico, Rilke dichiara che occorre “dire umilmente e semplicemente le cose”, “nel modo in cui nemmeno le cose stesse sapevano d’essere”, rivelandole a loro stesse. I due momenti precedenti − quello “divino” e quello “cosale” − si fondono in un linguaggio concettualmente affannato e di pathos intenso. Tremenda è la figura dell’angelo, perché tremendo è il bello. La sua “più forte esistenza” è estranea al destino del poeta e dell’uomo mortale. L’angelo sa di abitare un regno terzo tra la vita angelica (di cui nulla sappiamo) e la morte assoluta (a noi altrettanto sconosciuta). Per questo incidere il senso inafferrabile del tempo nella parola, per consegnarla ad una fugace eternità, è una lotta estrema. Ma il senso dell’unicità dell’esistenza umana, nei limiti della sua transitorietà, giunge nella VII e IX Elegia all’inaudito “dire le cose” all’Angelo che, dalla sua dimora eterna, non ne può conoscere l’abilità. Il poeta canta l’universo all’Angelo, stupito dal fatto che “noi così siamo”, che viviamo prendendo sempre congedo, che abitiamo il tempo del “dicibile”, la gloria della fugacità. Consapevole di tale fugacità, Rilke cerca di sfuggirvi e raggiungere un’immanenza radicale, oltre la separazione tra interno ed esterno, soggetto e oggetto.

Quale è il compito dell’arte per Rilke?

Salvare le cose. Ma salvarle vuol dire sostituire la superba “opera dello sguardo” con “un’opera del cuore”; realizzare la metamorfosi che fa rinascere in noi le cose e ci fa smettere di esser soggetto di fronte all’oggetto; fondere, infine, lo spazio del mondo e lo spazio interiore in uno spazio terzo, in cui ogni essere è compenetrato da “una luce serale” che abbraccia ed è abbracciata al tempo stesso, che trasforma l’amante nell’amato. Alla separazione e alla contrapposizione subentra una metamorfosi incessante. Orfeo può donare, anche tra le ombre, un canto che non è più brama soggettiva, volontaristica, di una meta, ma respiro che sfiora il nulla e la divinità, il cui nome è esistenza. Le sue ultime ermetiche liriche si stagliano “sull’irto rogo del soffrire”, sulla frontiera tra il dicibile e l’indicibile, verso lo spazio del silenzio. È un Rilke finalmente sconfitto, ma forse anche il Rilke che ha vinto il proprio talento, perché lo ha condotto in uno spazio testuale “senza desinenze”; un Rilke che sogna il silenzio, l’essenza, il seme, l’altra faccia della musica, l’altra faccia della vita.

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