Sul Genere e dintorni: il punto di vista della Psicologia Clinica alla Scuola di Medicina e Chirurgia Federico II

Intervista a Paolo Valerio

a cura di Cristiano Scandurra

Da qualche mese si è aperto, a livello nazionale, un dibattito pubblico su una questione molto delicata che potrebbe essere racchiusa nella domanda “il transgenderismo è un disturbo mentale?”. Si tratta di un tema di grande interesse scientifico, soprattutto a seguito della recentissima decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di derubricare la “disforia di genere” dall’elenco delle malattie mentali. Ne parliamo con Paolo Valerio, già professore di Psicologia Clinica alla Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università di Napoli Federico II e Presidente dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere.

La questione “transgender” è diventata appannaggio della scienza medica diversi decenni fa e, nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia recentemente depatologizzato questa condizione identitaria, sembra che l’associazione “transgenderismo = disturbo mentale” sia dura a morire. Prova ne è, quale prerequisito per accedere ai trattamenti ormonali o chirurgici, così come alla modifica anagrafica del nome, la richiesta da parte delle istituzioni statali di una “diagnosi” che attesti la presenza di una “disforia di genere”. Ci aiuti a sbrigliare questa situazione così complessa?

Si, è vero. La situazione è complessa perché si intrecciano livelli differenti: individuale, istituzionale, scientifico… Partirei da alcune nozioni di base prima di provare a rispondere alla domanda. La psichiatria utilizza la dizione “disforia di genere” per riferirsi ad una condizione identitaria in cui la persona non si riconosce nel genere che le è stato assegnato alla nascita. Come è noto, la psichiatria tende a categorizzare nomoteticamente ciò che, nella realtà, è sempre dimensionale e mai monolitico. Io penso fermamente che sia molto più corretto ed etico parlare di varianze di genere, assecondando così la recente visione depatologizzante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In ogni caso, e qualunque scelta terminologica si decida di utilizzare – scelta che contiene sempre un personale punto di vista, spesso impregnato ideologicamente –, il percorso delle persone transgender non è mai semplice, né sembra possibile tracciarne uno solo. Essendo le persone transgender molto diverse tra di loro, anche i percorsi che giungono fino alla richiesta dell’ottenimento di una diagnosi per fini legali e burocratici sono differenti. C’è chi già dalla tenerissima età sente di non appartenere al genere assegnato alla nascita, chi invece se ne rende conto molto più tardi, anche in età avanzata. Esistono molti modelli psicosociali che hanno tentato di costruire una teoria sullo sviluppo dell’“identità transgender”. Questi modelli sono molto utili per comprendere in quale fase della costruzione identitaria quella persona si trova quando si rivolge ad un servizio. Ciononostante, c’è sempre il rischio di inserire quella persona in una categoria prestabilita, mettendo a dura prova la possibilità di ascoltare la sua personale storia di vita che l’ha portata a identificarsi come transgender. Solitamente, prima di giungere alla richiesta di Riassegnazione Chirurgica del Genere (RCG), le persone transgender attraversano delle fasi caratterizzate da angosce, confusioni, esitazioni, fino a sviluppare lentamente una sempre maggiore accettazione della propria specifica identità. Anche il periodo post-operatorio può comportare delle ansie relative al cambiamento. Ma quale cambiamento non produce ansia? Inoltre, non è assolutamente scontato che tutte le persone transgender giungano a richiedere gli interventi di RCG. Ci sono molte persone che si ritengono soddisfatte dai soli cambiamenti corporei legati ai caratteri sessuali secondari (come ad es., il seno, la peluria, e così via) indotti dalle terapie ormonali. Molte altre, ancora, che necessitano solo del cambio del nome all’anagrafe. Come spero di aver mostrato, non è possibile parlare di “un’identità transgender”. Attualmente, infatti, l’intervento chirurgico ai genitali rappresenta solo una delle infinite possibilità identitarie. A livello scientifico, infatti, oggi si tende a guardare al termine “transgender” come ad un termine ombrello, da cui si ramificano due macro-identità: l’identità “binary” e l’identità “non-binary”. Se per “binary” va intesa un’identità per l’appunto binaria, che tende cioè a collocarsi nel continuum maschio-femmina (ad es., male-to-female o female-to-male, sulla base della direzione della propria identificazione), il termine “non-binary” si riferisce all’identità di genere di coloro che non si riconoscono nel binarismo di genere, percepito spesso come un dualismo normativamente e socialmente imposto. Più che parlare di un’unica identità, quindi, si dovrebbe pensare che esistano delle comunanze rispetto ad alcuni step evolutivi, quali la scoperta della propria identità di genere, il coming out, la scelta o meno di effettuare interventi chirurgici di adeguamento, ecc. Ma, in fondo, esiste “un’identità maschile” o “un’identità femminile” unica? Qualsiasi tentativo di chiusura ed incasellamento risulterebbe estremamente riduttivo.

Proprio di recente, su alcune testate giornalistiche nazionali, si è aperto un dibattito molto importante in tema di patologizzazione/depatologizzazione del transgenderismo che ha visto contrapporsi alcuni psicoanalisti italiani ad alcune attiviste transgender. Qual è la tua posizione e cosa ci dice la scienza?

Al di là delle mie personali credenze, che mi vedono in pieno accordo con i colleghi che sostengono che il transgenderismo non sia un disturbo mentale, è proprio la scienza che ci viene in soccorso. Sono moltissime le ricerche scientifiche che, da decenni, e grazie a metodi e modelli teorici solidi, hanno dimostrato che le persone transgender in sé non hanno alcun disturbo mentale. Quando si studia la salute mentale delle persone transgender, così come quella delle persone gay, lesbiche e bisessuali, è di fondamentale importanza che si utilizzino dei modelli teorici in grado di leggere il fenomeno da una prospettiva scientifica, senza cioè pregiudizi di sorta. L’Institute of Medicine degli Stati Uniti d’America raccomanda fortemente di utilizzare in ambito di ricerca almeno una delle seguenti prospettive teoriche: il minority stress, l’intersezionalità, l’ecologia sociale oppure il ciclo di vita. Grazie a questi modelli teorici, è stato possibile comprendere, già da tempo, che la questione “disturbo – non disturbo” non rappresenta una valida prospettiva scientifica, poiché finisce per schiacciare la questione sul solo individuo. Al contrario, come accennavo all’inizio, la questione è molto più complessa poiché abbraccia differenti livelli che si intersecano tra loro e che meritano, tutti, uno sguardo scientifico attento. Semplificando molto la questione, è ormai possibile sostenere che una notevole percentuale di problematiche psicologiche e psicopatologiche che alcune persone transgender esperiscono siano dovute all’intreccio tra fattori contestuali-istituzionali e fattori individuali, e che non siano in alcun modo il prodotto di un’identità patologica in sé. In altre parole, e utilizzando ad esempio la prospettiva del minority stress, la catena che porta ad esiti patologici, sia fisici che psichici, ha inizio dal contesto sociale fortemente stigmatizzante, perché non preparato ad accogliere le “diversità”. Spesso, purtroppo, la visione negativa prodotta dallo stigma sociale viene interiorizzata dalle stesse persone transgender, giungendo quindi a provare vergogna per essere quello che sono, finanche ad odiare la propria stessa identità. È in particolare questo passaggio a causare problematiche psicologiche, che variano dall’ansia alla depressione, fino ad arrivare, in casi estremi, a suicidio o automutilazioni. Nella mia carriera universitaria, ho avuto la possibilità di seguire centinaia di persone transgender, grazie ad un servizio che riuscii ad istituire nel lontano 1997 presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Napoli, servizio fortunatamente ancora attivo. Ho avuto, quindi, la possibilità di entrare in contatto con le persone in carne ed ossa, ascoltare le loro storie di vita, creare relazioni umane e cliniche. Proprio di recente, insieme ad alcuni miei collaboratori, tra cui te, Roberto Vitelli, Mario Bottone, Alessandro Chiodi ed altri, abbiamo provato a creare una stima, seppur approssimativa, delle persone transgender che hanno avuto accesso al Servizio dall’anno della sua fondazione e la prevalenza arriva a circa 1000 persone tra bambini, adolescenti e adulti, con un trend in aumento costante, in particolare durante l’ultimo decennio. Con queste persone, ho sempre cercato di andare oltre il ruolo burocratico di gate-keeper che si limita a rilasciare una certificazione che attesti la presenza di una disforia di genere, cosa che ho sempre cercato di insegnare ai miei collaboratori che, fortunatamente, sembrano seguire questa strada. Andare al di là del ruolo assegnatomi dall’istituzione pubblica, mi ha permesso di allargare lo sguardo alle “vere” problematiche che molte di queste persone portavano… storie di stigma, violenza e rifiuti hanno rappresentato uno sfondo costante dei dialoghi clinici che solo recentemente (e fortunatamente!) sta cessando di esistere, soprattutto nelle fasce più giovani. I genitori dei ragazzi e delle ragazze transgender sono sempre più aperti e sensibili, disposti a comprendere la situazione e a mettersi in gioco, ma ciò non significa che quella che, scientificamente, è stata nominata “transfobia” non esista più. A titolo d’esempio, insieme a Stefano Oliviero e Luigi Maria Sicca, ho pubblicato nel 2015 per l’Editoriale Scientifica un libro intitolato “Transformare le pratiche nelle organizzazioni di lavoro”. In questo testo abbiamo messo in luce le serie problematiche che alcune persone transgender esperiscono nell’ambito lavorativo per questioni legate ai processi di stigmatizzazione.

Dovremmo quindi guardare al contesto sociale o, meglio, all’interazione tra contesto e individuo per comprendere la questione che stiamo trattando…

Io penso fermamente che sia così. Il controllo sui corpi ha caratterizzato la nostra società intera fino al secolo scorso. Basti pensare agli studi di Foucault per riflettere su quanto il corpo non diventi un corpo sessuato prima che sia iscritto in un codice normativo di stampo socio-culturale, prima cioè che sia iscritto nel discorso. Ciononostante, a causa dei dispositivi di controllo che regolano le società e, quindi, ogni tipo di relazione, la società considera il corpo come già iscritto nel discorso, rendendolo sessuato ancor prima che possa autonomamente “sessuarsi”. Purtroppo, il controllo dei corpi continua ad esistere anche oggi. Certo, si è trasformato, a volte si è indebolito e altre si è nascosto sempre meglio, ma continua ad agire creando grosse quote di angosce nei singoli individui che, per qualche ragione, non rientrano nei canoni desiderati. E, allora, ecco che sorgono una serie di manovre atte a conformarsi il più possibile ai canoni, pena il sentimento di esclusione e di isolamento sociale. In quest’ottica, le persone transgender sono, come le definisce Bornstein, degli “outlaws”, dei fuorilegge, individui che “contrastano” – e lo dico in senso positivo – per propria stessa natura le regole ed i modelli precostituiti. Questo vuol dire che il timore che molti provano di fronte alle infinite possibilità identitarie, altro non è che un segnale quasi filogenetico di questo controllo che, ripeto, in maniera sotterranea, continua ad essere attivo. Un attivatore di angosce legate all’imprevedibile o, direbbe Freud, al perturbante, cioè a tutto ciò che un tempo ci è appartenuto e che è stato poi rimosso per influenza dei tabù sociali o delle resistenze personali. Chi siamo noi per definire come sano ed equilibrato un desiderio, un comportamento, o un’identità che si discosta da ciò a cui siamo abituati da millenni? Certo, in quanto studiosi, non possiamo lasciarsi sfuggire il fascino dei cambiamenti repentini dovuti all’avanzamento tecnologico e ad una sempre maggiore libertà di espressione. È quest’avanzamento che modifica il desiderio, che aumenta le sfide e modifica le relazioni. E, come dicevo all’inizio dell’intervista, ogni cambiamento genera ansia. Pensiamo all’intelligenza artificiale. Un tempo era addirittura impensabile che un robot potesse apprendere da solo, grazie a tentativi ed errori. Eppure, oggi tutto ciò è possibile. Nessuno si turba più di fronte a questo. Ecco, io sono certo che l’essere umano possiede delle straordinarie doti di adattamento al contesto. Ed il contesto, probabilmente, cambia prima dell’individuo. È questa la vera rivoluzione… una rivoluzione che, appunto, aprirà le gabbie e, sicuramente, aumenterà il benessere percepito.

Da un punto di vista clinico, come bisogna porsi, quindi, nei confronti della popolazione transgender? Qual è, cioè, l’approccio ritenuto più corretto?

Proprio di recente, abbiamo tradotto le più recenti linee-guida pubblicate dall’American Psychological Association nel 2015 relative al lavoro psicologico e psicoterapeutico rivolto alle persone transgender. L’adattamento del testo al contesto italiano è stato recepito dall’Ordine degli Psicologi della Campania, insieme alle “Linee Guida per il lavoro psicologico con persone omosessuali: questioni etiche e deontologiche”. Il testo è gratuito ed è possibile scaricarlo andando sul sito dell’Ordine degli Psicologi della Campania e cercando Adattamento italiano delle “Linee-guida per la pratica psicologica con persone transgender e gender nonconforming” dell’American Psychological Association”. Ciò che ci ha spinto a tradurre quest’importante lavoro, è stato il bisogno di far sentire le persone transgender sempre più riconosciute ma, soprattutto, aiutare i professionisti della salute che si occupano di questo campo a fornire cure adeguate, competenti e scientificamente informate. L’approccio clinico che raccomanda fortemente l’American Psychological Association e che dovrebbero, a mio avviso, adottare tutti i professionisti della salute, è il cosiddetto “approccio affermativo”, al di là del modello teorico di riferimento che utilizza il singolo clinico nella propria pratica. Per pratica clinica affermativa va intesa, in un’ottica depatologizzante, un’offerta di cura rispettosa, consapevole e supportiva delle identità e delle esperienze di vita delle persone transgender. Questo tipo di pratica si fonda sulla consapevolezza del clinico che quasi tutti i contesti in cui le persone transgender vivono sono oppressivi e che quello sanitario ne rappresenta un esempio. Solo per fare un esempio pratico, il clinico che utilizza un approccio affermativo dovrebbe utilizzare un linguaggio neutro dal punto di vista di genere, così come una terminologia che sia percepita dalla persona come appropriata per sé stessa. Consideriamo, ad esempio, l’utilizzo del pronome femminile o maschile. Chi siamo noi per decidere se l’altro si identifica più nel genere femminile o maschile? Una prassi affermativa consiste nel chiedere semplicemente ai nostri pazienti come preferiscono essere appellati. Questa pratica viene ormai utilizzata dalla maggior parte dei centri europei ed extra-europei (ma non da tutti!) che si occupano di seguire le persone transgender clinicamente. In qualità di professore universitario, ma anche di Presidente dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere, un’associazione nazionale che raccoglie differenti figure professionali (psicologi, avvocati, medici, rappresentanti delle associazioni) a diverso titolo interessate ai temi del transgenderismo, ho avuto modo di entrare in contatto con differenti realtà sociali e costruire reti scientifiche internazionali, lavorando ad esempio con Mariela Castro del Cenesex di Cuba, con Alain Giami dell’Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale francese, con lo psicoanalista newyorkese Jack Drescher. Oltre ad un rapporto di stabile amicizia, ciò che mi ha da sempre avvicinato a questi colleghi di grande rilievo è una visione scientifica comune, che trova le sue fondamenta in un radicale bisogno di depatologizzare queste declinazioni identitarie.

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