Dialogo con Nelson Mauro Maldonato

a cura di Benedetta Muzii

Professore, nella sua ricerca l’idea del coraggio ritorna, più volte, come un passaggio inevitabile del pensiero. Lei ha sostenuto che per analizzarlo è necessario attraversare i più diversi territori dell’umano. Uno dei suoi maestri, il compianto Bruno Callieri, considerava il coraggio una cifra cruciale dell’umano.

Vorrei iniziare la nostra conversazione con una considerazione di carattere generale. Nella storia del pensiero umano, in particolare presso gli antichi, il coraggio è considerato come il presupposto di ogni qualità intellettuale e morale, non una virtù particolare o una qualità che accompagna azioni e comportamenti. Il coraggio è considerato un sentimento opposto alla paura, che ha radice nell’affermazione di sé e nell’assunzione del rischio ad essa connesso. Il termine greco andrós e quello latino fortitudo (virilità e la forza d’animo) rappresentano figure del coraggio circoscritto alla vita militare. In un celebre dialogo platonico, il generale ateniese Nicia chiama coraggio la conoscenza di ciò che deve essere temuto e che deve essere fatto: affermazione che, in realtà, appare inadeguata per i filosofi greci a causa dell’assenza di una chiara distinzione sulla natura del bene e del male. In quanto tensione spontanea verso ciò che è nobile – poiché tiene insieme ragione e desiderio – il coraggio è strettamente connesso all’anima. Dal canto suo, Aristotele considerava coraggioso chi tenta di affermare la propria natura differendo il piacere e la felicità o sacrificando finanche la propria vita per un’istanza superiore. Nel tempo il concetto di coraggio diverrà oggetto di riflessione profonda in personalità di differente provenienza filosofica e teologica: da Seneca a Lucilio, da Sant’Ambrogio a Marco Aurelio, da Hobbes a Spinoza, da Kant a Hegel, da Kierkegaard ad altri pensatori.

Per venire alla contemporaneità, Wittgenstein considerava il coraggio come contrassegno della grandezza, della purezza e della genialità di un uomo. Il filosofo austriaco sosteneva che un uomo deve avere il coraggio di scendere in se stesso, anche a costo di sofferenze e tormenti. Solo scendendo in se stessi è possibile intraprendere il percorso necessario a raggiungere il proprio luogo etico.

A questo rarefatto spazio interiore, in realtà, Wittgenstein si approssimerà soltanto, senza mai raggiungerlo. Si sporgerà solo nei dintorni, restandone tuttavia al di qua. Dopo averlo cercato in ogni modo, per vie tortuose, si accorgerà solo tardi che la porta si apre verso l’interno, non verso l’esterno. La nebbia delle volontà distorte e delle mistificazioni su ciò che dovrebbe esser còlto e accettato per quello che è (e non per quello che si vorrebbe che fosse) ostacolano il riconoscimento delle cose. Occorre, dunque, fare i conti con se stessi, decidere coraggiosamente a partire da se stessi, rompere con le illusioni e le finzioni del voler essere, per diventare quel che si è. Ma questo non ha a che fare con la ricerca intellettuale. È necessario trovare il coraggio per concentrarsi, superare i limiti della razionalità e delle convenzioni morali.

Per Wittgenstein un forte ostacolo è rappresentato dal fatto che la gente si identifica con quel che possiede ed è quasi per niente interessata ad ‘essere’ (tema peraltro affrontato più tardi da Erich Fromm). Tra l’avere e l’essere passano tutte le illusioni e gli autoinganni che spingono l’uomo a rappresentarsi per quello che ha e che desidera avere. Il possesso delle cose ci allontana da quel che siamo. Non c’è un avere, ma solo un essere. Inaggirabilmente, il pensiero deve concentrarsi su ciò che si è.

Per giungere in prossimità della verità, aggiungeva Wittgenstein, bisogna distruggere le false immagini e le credenze su se stessi, sovvertire le convenzioni che ci opprimono. Rivoluzionario è colui che rivoluziona se stesso in profondità. Si tratta di un tema cruciale, che Albert Camus in “L’uomo in rivolta” affronterà in modo vertiginoso, distinguendo la rivoluzione dalla rivolta. Ma questa è un’altra storia. Sia come sia, in superficie i problemi della vita sono insolubili: possono essere risolti solo in profondità. Superficie e profondità sono livelli distinti di vita, anche se occorre pensare fuori da ogni retorica della profondità. È comunque il coraggio a separare la prima dalla seconda. Occorre scendere in profondità senza farsi influenzare dagli altri. Farsi guidare solo dalla propria natura, riconoscere e valorizzare la propria singolarità, evitando di considerare il proprio carattere dall’esterno. In questo senso, il coraggio è sempre originalità.

È evidente che senza la sua dimensione metafisica e morale, il coraggio resta del tutto inaccessibile. Tuttavia sono altrettanto evidenti le forti connessioni con il carattere, il temperamento e la personalità. Ma anche così sembra difficile ricondurre il suo polimorfismo concettuale ad un’unica matrice: affettiva, pulsionale, istintuale, cognitiva che sia. Non crede?

La complessità di tali tendenze (e gli effetti del loro reciproco influenzamento) si accentuano se si considera l’intreccio tra queste sfere e l’ordine normativo individuale e sociale. Si tratta di difficoltà, che riguardano la definizione lessicale del coraggio, ma spiegano anche perché nella letteratura psicologica vi siano sul coraggio solo brevi annotazioni.

Forse si può affermare che la psicologia e, più in generale, le scienze umane hanno trascurato una così rilevante categoria dei sentimenti e del comportamento umano, mentre diversamente filosofie e concezioni della mente del passato hanno ampiamente trattato.

Difficile spiegarne la ragione, anche se ad onor del vero la ricerca sul coraggio eccede di gran lunga i confini della psicologia. È probabile che questo sia imputabile all’espandersi di discipline psicologiche sempre meno interessate all’esistenza, alla morale e così via. Nondimeno, è da qui che bisogna ripartire, raccogliendo in pieno la sfida posta da altre forme di conoscenza, che hanno la stessa importanza della psicologia. Il coraggio è una sfera della vita umana, e operare distinzioni artificiose tra mondo interno e mondo esterno comporta un rischio di errore rilevante. Certo, i modelli sociali influenzano la vita individuale: si pensi al coraggio dell’eroe classico, del martire cristiano, del monaco buddista. Tuttavia, il coraggio può manifestarsi come un atteggiamento privato, sostenuto da ciò che sentiamo più profondamente vero (aspetto certo difficile da cogliere, ma di sicuro il più qualificante). In questo senso, non basta entrare in relazione con l’altro, è necessaria l’intenzione dell’altro, la sua disponibilità a rivelare qualcosa della sua interiorità, non solo come dimensione psicologica, ma anche come giudizio di valore esistenziale.

Come si manifesta il coraggio sul piano esteriore e interiore nella contemporaneità?

Non è raro incontrarlo nella vita quotidiana, come pure in ambito clinico. Può manifestarsi come scelta di valore o urgenza psicologica. Generalmente, provoca in noi reazioni emotive dirette indipendenti da movimenti interiori profondi: ha, cioè, il carattere di una spinta fortemente motivata, con l’esposizione a rischi sempre commisurati a valori individuali ed extraindividuali. Si tratta, in altre parole, di un’esperienza umana dai caratteri intenzionali inconfondibili che, insieme al rischio e al pericolo, comporta anche la possibilità della maturazione, della realizzazione di sé. Un atto di coraggio è un sentimento, una tendenza verso qualcosa di cui si è sempre consapevoli.

Il coraggio assume qualità e significato a seconda della relazione con la personalità individuale: si va da un’esperienza superficiale a un’altra consapevole, in cui ogni cosa acquista una direzione nuova così che il passato e l’avvenire possano emanciparsi da una lunga mediocrità quotidiana.

Anche quando di piccolo momento o di esclusivo rilievo individuale, i contenuti del coraggio assumono sempre un significato che inevitabilmente li oltrepassa. Questa complessità, già di per sé sconcertante, diviene più forte se si considerano i sentimenti suscitati da gesti o comportamenti coraggiosi. In realtà tra l’attore di un gesto coraggioso e chi ne è investito si può registrare una reazione a volte paradossale: di stima, meraviglia, stupore, commozione, come pure di invidia, odio, compassione, risentimento.

Si può dire che nel comportamento coraggioso va distinto un aspetto pulsionale e un altro legato alla volontà, alla razionalità?

La profondità del coraggio impregna la vita psichica, introducendo cambiamenti nell’ambiente umano circostante. Il coraggio nasce e muore nella pura interiorità, mediante atti e comportamenti in cui predomina il coinvolgimento dell’altro. Come ho detto, in un atto di coraggio si è sempre esposti al rischio. Se ne può uscire indenni o soccombere. Non ha molta importanza. Che si tratti un gesto critico, di ribellione o volto a superare situazioni date, non conta tanto l’esito, ma la responsabilità del proprio atteggiamento. La capacità di criticare, ribellarsi e andare oltre mette a soqquadro ogni equilibro, ogni apparente stabilità psicologica.

C’è un altro aspetto decisivo del coraggio: la capacità di tollerare la sofferenza fisica e morale. Dolori, anche atroci, vengono sopportati per un bene superiore e trascendente o per il raggiungimento della saggezza e del dominio di sé.

Il coraggio si rivela anche nel modo di affrontare situazioni ineluttabili. Ad esempio, si possono osservare comportamenti sostenuti dalla ‘forza d’animo’, comportamenti lucidi, consapevoli, colmi di dignità riguardo le conseguenze della propria azione. Si pensi a quelle persone – nella mia vita professionale ne ho incontrate tantissime – che, pur sapendo di avere i giorni contati, evitano ogni atteggiamento di rabbia, di sconforto; anzi restano in piedi, senza smarrimenti o esitazioni, sull’abisso della propria condizione, sovente infondendo addirittura coraggio e serenità in chi gli è accanto.

La vita umana è, di per sé, lastricata di momenti difficili, talora di vero e proprio fallimento per ciò che uno immagina d’essere o di poter essere. Non tanto per il ritiro in se stessi dinanzi all’insuccesso personale, quanto per il compito di affrontare con le proprie sole forze, gli ostacoli di determinate situazioni. Qui, il coraggio costituisce ancora di più una dimensione di chiarificazione della propria individualità e del proprio spirito.

Penso che la vita di un uomo si riempia di senso quando è ispirata a una motivazione etica ed esistenziale. Nessuno può esprimersi fuori da quel che effettivamente è. L’originalità nasce dal vertice interiore (sempre singolarissimo) dal quale si guarda la vita. È quest’esigenza che ci sollecita a discendere in noi stessi senza pretesti o alibi, senza scusare nulla, senza nascondere nulla, senza concedere nulla. Chi non è disposto, a causa del dolore, a discendere in se stesso non potrà rispondere alle domande centrali della vita. Resterà esitante su una linea d’ombra, in una zona opaca, grigia. In superficie, le domande fondamentali restano prive di risposte. Certo, un uomo spinto dalle proprie vicissitudini può provare ad eludere le questioni fondamentali dell’esistenza. E non di rado, pur consapevole della necessità di una svolta esistenziale e dell’urgenza di un mutamento, potrebbe essere indotto a forme di sublimazione. Ma questo sarebbe ancora un gesto esteriore, non un ripensamento della propria presenza-al-mondo fondata su una intransigente disciplina interiore.

Lei ha sostenuto in passato che, al netto delle contingenze personali e sociali, il coraggio ci apre alla dimensione della libertà. Che a caratterizzarlo, sopra ogni cosa, sono le disposizioni psicologiche individuali: la maturità dell’Io, la capacità (e l’autonomia) della decisione.

Questi due ultimi aspetti intrattengono stretti rapporti con l’Io e, dunque, è più facile cogliere il coraggio in chi ha uno spiccato sentimento di sé. Spesso, in persone del genere, più che coraggio si manifesta audacia, spregiudicatezza, caparbietà. Del coraggio, invece, bisogna cercare le motivazioni, che peraltro cambiano con le diverse stagioni della vita. Da giovani il tentativo di autoaffermazione, implicito nell’atto coraggioso, è spesso indipendente dal bisogno di farsi valere e di sentirsi rassicurati. Con il passare del tempo, poi, il coraggio perde le sue motivazioni, si colora di una più forte capacità di tollerare le avversità e di accettare il proprio destino. In tarda età, come ha ancora una volta chiarito Callieri, il progressivo svanire dell’energia vitale incide (spesso inconsapevolmente) sulla propria capacità di ‘infuturarsi’. Così, ogni aspetto della senilità modifica il coraggio in senso regressivo. Il grande psichiatra romano evidenziava l’emergere di una ‘patologia del coraggio’ che, con le sue illusorie dissimulazioni, espone ai rischi di una progressiva regressione verso livelli istintivo-pulsionali che indeboliscono fortemente le categorie morali. Nel vecchio, è questa la fuga più radicale dal coraggio, comprensibile sul piano umano, ancorché poco decifrabile. Ma vi sono tante altre manifestazioni del coraggio. Si consideri il coraggio istintivo della madre che sacrifica se stessa per proteggere il proprio piccolo dal pericolo: un esempio che si potrebbe definire di coraggio biologico. Oppure il coraggio che contrassegna il gesto del dono che non chiede nulla in cambio. Forse potremmo sintetizzare, come sosteneva Callieri, che si è nel coraggio, e non di fronte al coraggio.

L’analisi del coraggio qui delineata sollecita considerazioni che chiamano in causa anche le condizioni sociali in cui è inscritta la vita di ogni singolo uomo: in primo luogo, la complessità del mondo attuale.

Non c’è dubbio. L’influenza della massificazione anonima, le tendenze de-responsabilizzanti della società, la limitazione delle libertà individuali che provocano effetti conformistici e anonimizzanti sono dinamiche che disincentivano il coraggio, che per sua stessa natura è azione individuale, libera scelta innervata di volontà e motivazioni etiche. Va detto che non sempre l’uomo è in grado di regolare le proprie relazioni sociali, e questo implica molte rinunce alla propria individualità. Tuttavia, la capacità di affermarsi nella società esige un’evoluzione ulteriore, un cammino necessario a cui ognuno è chiamato.

Non è raro osservare il coraggio trasformarsi in una protesta contro gli aspetti disumanizzanti e alienanti del sistema sociale. Questa chiave di lettura ci aiuta a comprendere come si possa giungere, in una perversa progressione, allo scetticismo più disperato, alla violenza più esasperata, perfino alla negazione estrema di sé e dell’altro.

Per liberare il proprio potenziale costruttivo, la rivolta deve nascere dalla tensione tra il singolo e la società massificata, in un movimento di individuazione che recuperi l’umano non come una mera accettazione o partecipazione al già costituito, ma come faticoso cammino di avvicinamento a un mondo a misura umana. In una società dalle aspettative crescenti, il coraggio più autentico è nella rinuncia alle pur accattivanti suggestioni derivanti dal conformismo, dai meccanismi (peraltro illusori) di tutela e difesa di sistemi politici e sociali. Attenzione, però! Questa consapevolezza non deve tradursi in un ripiego su se stessi, nel ritiro in un mondo falsamente rassicurante o impermeabile alle inquietudini proprie delle responsabilità private e pubbliche. Si può prender parte al mondo anche senza identificarsi con esso, senza lasciarvisi irretire dalle sue trame. Penso sia questo “principio di individuazione” la forma più autentica del coraggio.

Qui sembra ritorni in pieno valore del “faccia a faccia”, contrapposto a quel ‘si’ impersonale che dà forma alle relazioni anonime, di cui lei ha parlato in alcuni suoi libri pubblicati per il suo editore brasiliano Edições Sesc?

Direi proprio di sì. Il ripresentarsi alla riflessione psicologica e filosofica di tali assunti ci spinge a credere che il carattere generale umano del coraggio – nei suoi aspetti più autentici ed essenziali – si esprima nel retrocedere, di volta in volta, dall’istituito verso la potenza liberatrice dell’istituente: che è poi, ogni volta, il corso più autentico dell’incontro umano. Questo dato, riscontrabile in ogni fase della cultura e della civiltà, indica che la connotazione intima del coraggio resta sempre identica ogni qual volta l’uomo si sforzi di essere autenticamente tale.

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