Sull’Improvvisazione. L’anima commossa nell’intuizione dell’istante.

Conversazione con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Sergio Petrosino

Professore, tema dell’ultima edizione della Settimana Internazionale della Ricerca è stato l’improvvisazione. Ora che l’evento è alle spalle, sarebbe interessante provare a riflettervi su liberamente e senza urgenze, provando a comprendere l’importanza di questo tema nel contesto più generale dell’evoluzione della specie uomo. Magari provando a guardare dal lato in ombra di una storia e di una narrazione che hanno da sempre assegnato un ruolo centrale alla corticalizzazione del cervello umano (e dunque alla razionalità) e un ruolo marginale a sfere come l’improvvisazione, l’intuito, la predittività, l’anticipazione che rappresentano invece la decisiva ‘cassetta degli attrezzi’ che ha consentito un formidabile adattamento dell’uomo ad un ambiente complesso.

Per rispondere alla sua domanda credo occorra provare a immaginare, verosimile o meno che sia, la scena che caratterizzò i primi passi dell’uomo all’alba dell’umanità. Cosa voleva dire vivere in quell’epoca di sconvolgimenti formidabili, di cambiamenti che mutarono il volto del pianeta e ogni forma di vita? Proviamo a immaginare cosa avvenne, ad esempio, lungo la Rift Valley, la striscia di terra che vide la fitta foresta tropicale migrare lungo i grandi fiumi ad est e deserti e savane ad ovest. In quello spazio dove iniziò il racconto dell’uomo, alcuni tra i nostri antenati scelsero di restare. Altri, spinti da una irrequietezza sconosciuta ad ogni altra specie vivente, diedero inizio a una diaspora che li spinse sino agli angoli più remoti del pianeta: dagli aridi altopiani dell’Asia alle tundre gelate del Nord. I primi uomini ignoravano l’agricoltura, la scrittura, la politica. Pronunciavano suoni semplici più che parole: grida, versi, sillabe, sottolineate da gesti e toni diversi. Non parole. Quelle arrivarono più tardi. Certo, dialogavano con se stessi. Ma si trattava di un linguaggio interiore troppo lento per quel mondo imprevedibile e insidioso. Quegli uomini dovevano essere veloci: veloci nel reagire alle potenziali minacce di un predatore o nel guadagnare la via di fuga; veloci nel decidere se e come inseguire una preda; veloci nel trarre profitto da un territorio; veloci nella scelta della propria dimora. Le risorse naturali limitate imponevano a quegli uomini in cerca di cibo per i propri piccoli di anticipare gli altri sul tempo. Solo decisioni rapide avrebbero garantito loro la sopravvivenza. E, tuttavia, sarebbero bastate quelle decisioni per il successo evolutivo della specie uomo? Penso sia questo la questione, forse il più rilevante, in quella lontana stagione e forse ancora oggi.

In che senso? Perché la velocità delle decisioni sarebbe stata insufficiente?

Intanto perché la velocità da sola non sarebbe bastata. Era necessaria un’attività ulteriore, più sofisticata e complessa sul piano neurofisiologico, fatta di sequenze di movimenti e azioni in tempo reale: qualcosa, insomma che superasse il problema dei vincoli temporali, la simultaneità di codifica senso-percettiva, il monitoraggio delle prestazioni, il reclutamento di risorse attentive per la generazione di nuove sequenze motorie, con il controllo critico sullo sviluppo della prestazione e altro ancora. Il fine di questa interazione tra processi percettivo-emotivi e conoscenze specifiche – tracce e schemi depositati in un archivio mnestico di programmi motori reclutabili nel corso delle decisioni – era minimizzare i processi di elaborazione, favorendo la generazione di idee e soluzione originali a problemi di ogni tipo. Si sottovaluta spesso l’importanza dell’improvvisazione nell’evoluzione della specie e nella costruzione della nostra civiltà. Non è paradossale pensare che tale attitudine si sia sviluppata proprio a partire dalle drastiche limitazioni cognitive dell’uomo, rivelandosi uno strumento creativo e flessibile di fronte a situazioni impreviste e, soprattutto, ecologiche per l’uso delle risorse ambientali.

I modelli teorici prevalenti hanno sin qui concentrato l’attenzione soprattutto sui correlati tra aree corticali e processi cognitivi corrispondenti. Non adeguato rilievo è stato dato alla grande varietà di attività sottocorticali che stanno all’origine di tale attività.

Si tratta di un punto cruciale. Basti pensare al ruolo dei gangli della base, una struttura sottocorticale che, attraverso le sue procedure implicite e il ruolo nei processi di memoria, genera continue novità che consentono alla corteccia prefrontale di trasformare un’enorme e disordinata quantità di informazioni in comportamenti originali espliciti. I gangli della base, come Alberto Oliverio ed io abbiamo provato a mostrare in un recente paper, sono fortemente coinvolti nell’attivazione dei segnali chimici generati da dissonanze o asimmetrie tra percezioni e aspettative, modulando a seconda delle circostanze anche le risposte alle evenienze ambientali. Interagendo con la corteccia frontale e il sistema limbico, questi esercitano una funzione chiave nella pianificazione, nella selezione delle decisioni e delle azioni motorie appropriate. Anche in questo senso, l’improvvisazione è connessa ai processi di controllo esecutivo, alla creatività e all’attività integrata di aree cortico-sottocorticali che presiedono al libero fluire dell’azione motoria e alla spontaneità espressiva.

Nel corso dell’edizione appena conclusa della Settimana Internazionale della Ricerca vi è stata una sessione che ha avuto al centro l’improvvisazione declinata non solo in senso motorio, ma anche in senso musicale e con riferimento alla danza e all’improvvisazione intima rappresentata dal tango.

Sì, si è trattato di un pomeriggio appassionante, sul filo delle emozioni. Nell’universo della creazione musicale, l’improvvisazione occupa un posto peculiare. Come espressione vitale e prodigiosa della creazione, l’improvvisazione è accompagnata dalla duplice cifra della sua possibile esistenza e della sua scomparsa. Si tratta di una forma espressiva che porta in sé lo scandalo della propria casualità, di una natura enigmatica, di un’immediatezza insoddisfatta e inesplicabile. L’improvvisazione rinuncia ad ogni sintassi logico-razionale e rifiuta le similitudini. Non somiglia a niente. Anche per questo, comprenderne le connessioni metaforiche, le intuizioni, le trame profonde, è tra i misteri più affascinanti della conoscenza. Tutti dovrebbero tenerla nella massima considerazione. Ad ogni livello.

L’improvvisazione contempla visioni ed esperienze spesso molto diverse tra loro. Ad improvvisare può essere un musicista di tradizione orale, che crea musica a partire da schemi noti; un jazzista che esegue standards con originali variazioni sul tema; o, ancora, un cultore di musica classica, come un allievo di conservatorio tenuto a saper esplorare liberamente il linguaggio armonico e contrappuntistico appreso nei suoi studi.

Si tratta di esperienze musicali molto diverse tra loro, anche se con elementi in comune: non riproducono musica scritta o già completamente concepita e, soprattutto, creano espressioni e stilemi inattesi, nell’atto stesso dell’esecuzione. Un performer alle prese con l’improvvisazione tesse di continuo trame imprevedibili, con prefigurazioni e anticipazioni mentali che guidano un’esecuzione mai del tutto aleatoria, che ha regole proprie e si alimenta della realtà cui si riferisce, ad eccezione del free jazz dove l’aleatorietà e il rischio dell’invenzione sono più presenti. A sollecitare un musicista ad improvvisare è l’inatteso della creazione e, inevitabilmente, la creazione dell’inatteso. Più che materiale formato o formalizzato, si tratta di materiale in grado di formarsi e formalizzarsi: cioè, di emergere da un numero potenzialmente infinito di nuove espressioni musicali, a partire da un numero finito di elementi formali, oltre che da regole e grammatiche combinatorie. Per essere còlte, tali variazioni devono comprendere elementi del medesimo tema, ognuno dei quali deve essere alimentato da materiale in parte precostituito. Come ogni esperienza creatrice, anche quella musicale è regolata quasi sempre da un rapporto di generatività e improvvisazione, anche quando in presenza della musica scritta le funzioni dei due termini sono diverse. Infatti, se nella musica classica occidentale la scrittura è fondata su regole, modelli e stili di riferimento (e sull’immaginazione) che si materializzano in una partitura, nell’improvvisazione non vi sono riferimenti stabili, tranne che in casi straordinari. A darle forza è un intreccio di regole implicite, riferimenti e spontaneità inventiva. In questo senso, l’improvvisazione ha una sua peculiare dimensione: inventare e realizzare la musica in una sola azione e nello stesso momento. Una realtà non riproducibile, che nasce dal suo stesso svolgersi e in cui l’eccezione rappresenta la regola.

Lei ha scritto che, al di là di una tecnica perfettamente padroneggiata (è noto che può improvvisare solo chi è davvero padrone della tecnica e degli stili musicali), in un’improvvisazione il flusso delle illuminazioni è del tutto imprevedibile, indissociabile dalle fluttuazioni della memoria di creazioni precedenti. In altre parole, è l’ispirazione ad essere decisiva nell’immediatezza espressiva, perché riduce ogni mediazione formale, mettendo a nudo il proprio Sé attraverso il corpo, generando così veri e propri miracoli evocativi, autentici terremoti emozionali. Può spiegare meglio?

L’ispirazione è forza liberatrice, vibrazione, impeto, spasimo dello spirito che emerge dai recessi più remoti e oscuri, incrina la sintassi delle cose, trasfigurandole in metafore e allusioni troncate, sospensioni estatiche. Ha origine dalle zone di interferenza tra soggetto e oggetto, fluttua nel fondo della materia, dove le radici del vitale e del razionale si intrecciano misteriosamente. Un fondo roccioso, primordiale, in cui risiede e si nasconde il nostro profilo più misterioso e notturno, che ha origine nelle strutture sottocorticali e, solo in parte, in quelle corticali che presiedono alle nostre funzioni analitico-discorsive.

Continui …

Vede, nell’improvvisazione è il corpo a dar scacco alla (presunta) supremazia dell’Io sulle cose, alla tirannia della forma. Come se ogni nota, prima di lasciarsi trascrivere, si guardasse intorno, circospetta, in ogni direzione, per affiorare poi dal fondo indistinto della vita; ricominciando ogni volta daccapo, componendo incastri inediti, fuggendo in direzioni opposte, tra l’esigenza di rigore stilistico e la febbrile ricerca di una propria espressività. É in questo passaggio stretto, nel rifiuto di ogni dilatazione narrativa, che un performer impara l’essenzialità e la rinuncia ad ogni volontà di espansione e di variazione. In breve, a giungere all’essenza delle cose. Forse nessuno come un jazz performer conosce il richiamo ad esplorare l’ignoto e, insieme, il desiderio di misura e di controllo. Nessuno, come lui, sperimenta la vertigine derivante dal muoversi dalla terra del suono, sul limen tra dicibile e indicibile, rapito, ispirato e disperato.

D’accordo. Ma un’improvvisazione è anche, inevitabilmente, un mix di elementi previsti e imprevisti, di invenzioni spontanee e riemersione di materiali sommersi, di melodie udite e formule sperimentate, di timbri immaginati ed emozioni provate. Il nostro stesso modo di intendere il tempo, la durata e il ritmo, influenza ogni nostro comportamento e, con esso, la creazione musicale. Inoltre, siamo plasmati da habitat, valori culturali, ambienti ed esperienze sonori.

Le nostre voci sono naturalmente impregnate della lingua che parliamo e delle sue peculiari sonorità. Gli stessi strumenti che suoniamo, si potrebbe dire, sono imbevuti di sistemi musicali, scale, timbri. La nostra immaginazione è un crogiuolo di relazioni e citazioni, di narrazioni e connessioni: inestricabili intrecci che sono sempre alla base di un’improvvisazione, anche se alcune improvvisazioni sono più complesse e imprevedibili di altre. Basta confrontare registrazioni diverse di uno stesso brano: mentre alcuni performer si ripetono, citandosi e rendendosi riconoscibili, altri elaborano continuamente nuove sonorità. Naturalmente, non si tratta di misurare quanto di inatteso e imprevisto vi sia rispetto a quanto vi è di preordinato, ma di riconoscere in tale processo l’incidenza di forze vitali e slanci creativi.

Ma un’improvvisazione si avvale più di variazioni incessanti, immaginarie e sorprendenti o di linee armoniche e melodiche imprevedibili, mobili, erratiche?

Come arte dell’incompiuto e dell’imperfezione, l’improvvisazione è un’estetica della sorpresa. Un performer oscilla continuamente tra evidenza e rottura dell’evidenza, tra ripetizione e produzione di novità. Se, in alcuni momenti, esplora con audacia le regioni dell’ignoto, in altri dialoga con la tradizione, cercando l’ispirazione e l’energia per nuove creazioni nelle proprie radici.

D’accordo, ma anche nell’esecuzione e nell’interpretazione della musica scritta sono presenti elementi di oralità/auralità.

Infatti, una stessa partitura è interpretata in modo diverso, a seconda dello stile interpretativo, del gusto e delle epoche storiche. É l’inatteso, presente in ogni interpretazione, ad esaltare la qualità, a scongiurare la routine, a restituire originalità al compositore. Un interprete di talento introduce, di continuo, elementi di sorpresa che arricchiscono anche la più filologica esecuzione di una partitura classica, lasciando emergere inflessioni inattese, illuminazioni piccole o grandi, slanci poetici che donano vitalità all’interpretazione. Il leggendario André Previn, direttore di famose orchestre sinfoniche e scrittore di musica classica, di musica jazz e tanto altro ancora diceva: “La differenza fondamentale tra la musica classica e il jazz è che nella prima la musica è sempre più grande della sua esecuzione, laddove il modo in cui il jazz viene eseguito è sempre più importante di ciò che viene suonato”.

Già, slanci poetici … Ecco, cosa vuol dire improvvisare in poesia?

Pur essendo solo un appassionato di poesia, direi che l’improvvisazione poetica presenta un duplice volto: da una parte, l’immediatezza, l’estemporaneità, la ripetizione, l’adozione di convenzioni; dall’altra, lo slancio creativo, l’ispirazione, l’impeto, la sfida al già detto, l’invenzione del ‘non ancora’, l’apertura di una nuova strada, il cammino sorprendente, il fascino della scoperta, l’audacia di una nuova creazione. Attenzione, si tratta di contraddizioni feconde! In generale, chi improvvisa nell’arte forza questa duplicità con il coraggio dell’avventura, eliminando i rischi ad ogni passo di un cammino accidentato e imprevedibile.

Sull’improvvisazione poetica permane ancora, ineliminabile, l’aura del mito.

Certo, quella dell’immediatezza romantica. Il romanticismo ha provato ad emarginare la mediazione formale della classicità a favore dell’immediatezza, credendo in un Io permanentemente creativo e poietico. L’idea romantica che un corpo abbia molte anime – e, per converso, un’anima abiti ‘infiniti’ corpi – spezza il principio classico di identità e scompone l’essere in un’infinita, sorprendente e meravigliosa relazione poetica di enti. L’anima viene còlta non più indirettamente attraverso l’intenzionalità della forma, ma lasciando semplicemente trasparire il corpo della forma, più che indicarla. È una tendenza alla creazione spirituale che, indipendentemente dalla mediazione del corpo, si offre direttamente come un’anima. Il corpo sensibile rimane, mentre la sua funzione rispetto al significato cambia di segno. In questo senso, mentre nella classicità, alla stregua di un organismo, il corpo espressivo indicava positivamente il proprio significato, ora tende a farsi velo sottile che lo lascia semplicemente trasparire.

Forse si potrebbe dire che il significato non si esprime più in virtù della parola, ma anche attraverso e nonostante la parola: cioè nonostante il corpo.

Sì, pensi alla danza. Qui, il corpo espressivo non ha più una funzione chiaramente identificabile. Perché il significato possa emergere deve farsi il più possibile sottile, diafano, evanescente. Per così dire, non deve trattenere su di sé l’attenzione, ma deve lasciarla passare affinché il significato si riveli immediatamente, senza restare avvolto nella forma. In questo senso, l’anima non va cercata realizzando il corpo nella sua solidità, ma attraversandolo, trasfigurandolo in quella sorta di magia che l’armonia del movimento riesce a realizzare. È qui la strada romantica dell’improvvisazione e dell’ispirazione. L’anima passa alle immagini attraverso le parole e queste, attraverso le immagini, all’anima che si sente nella sua immediatezza, tanto più quanto meno aderisce alla fattualità dell’espressione.


L’ispirazione-improvvisazione romantica raggiunge l’intimità del cuore. Il prodigio evocativo è nell’aver saputo condurre l’anima a offrirsi immediatamente attraverso un corpo diafano che non trattiene più l’attenzione. Un autentico sconvolgimento mentale.

Senza uscire troppo dal seminato, in quel che dice mi pare di poter cogliere un riferimento a Schelling e alla sua filosofia dell’arte romantica. Se sono nel giusto, allora è evidente che se ogni cosa della natura è vivente, se noi stessi siamo semplicemente sue espressioni consapevoli, allora il ruolo dell’artista è di indagare nelle forze oscure e inconsapevoli che si muovono dentro di lui, di condurle alla coscienza attraverso la più dolorosa e acuta lotta interna. La natura fa lo stesso. Come è stato detto, le eruzioni vulcaniche, il magnetismo e l’elettricità, costituiscono una lotta per la vittoria di forze cieche, misteriose. In questo senso, le opere d’arte di valore si richiamano alla natura, trasmettendo le pulsazioni di una vita inconsapevole. All’opposto, un’opera d’arte consapevole di se stessa, espressione di un’osservazione metodica o di un’attenta registrazione precisa di quanto osservato è solo una mera riproduzione mimetica: cioè un oggetto morto. Nelle vere opere d’arte non si scorge solo la forma e la tecnica, ma anche (e forse soprattutto) le pulsioni inconsapevoli di uno spirito di cui è un agente espressivo e consapevole. L’opera d’arte ha sull’uomo che la guarda, la legge o l’ascolta, lo stesso effetto animatore di determinati fenomeni della natura. Quando questo manca, quando il tutto è interamente convenzionale, conforme alle regole, costruito nella luce rischiarante della coscienza, l’opera sarà certo elegante e armonica, ma morta.

Questa immediatezza espressiva che emerge dal fondo della materia – con le sue dinamiche inconsce o precoscienti – rappresenta una svolta fondamentale nella creazione poetica. La cultura e la spiritualità del romanticismo hanno cambiato per sempre il modo di concepire e agire degli artisti.

Vi è qualcosa di infinito e inesauribile che il finito, senza riuscirci, tenta di simbolizzare. Noi proviamo a comunicare qualcosa usando i mezzi di cui disponiamo, ma siamo consapevoli che dire quel che stiamo cercando di dire è uno sforzo inane, poiché questa totalità è infinita. Per questo esistono allegorie e simboli. L’allegoria rappresenta qualcosa che ha in sé il proprio significato e, tuttavia, allude ad altro da sé. Quando sta per qualcosa di altro da sé, ciò che tenta di rappresentare di per sé non è enunciabile. Per questo simboli e allegorie sono necessariamente il solo modo che abbiamo per comunicare. È paradossale: intendiamo comunicare qualcosa di immateriale utilizzando mezzi materiali; intendiamo dire qualcosa di inesprimibile e siamo costretti a usare le parole: intendiamo dar spazio a qualcosa di inconscio, ma siamo inchiodati ai mezzi della coscienza. É uno sforzo sovrumano. Possiamo solo accostarci, avvicinarci sempre di più, ma attraverso possibilità che si estendono all’infinito.

Questa ricerca all’infinito fa pensare alla “ricerca del fiore azzurro” di cui parlava Novalis: una ricerca che è il rischioso esperimento di assorbire l’infinito in se stessi, di mettersi all’unisono con esso oppure di annegare se stessi nell’infinito. Sembra essere all’azione una versione secolarizzata della tensione religiosa verso l’essere all’unisono con Dio.

Dobbiamo chiederci cosa sia vivere se non esprimere la nostra natura nel suo rapporto con l’universo. Certo, è un rapporto indicibile, ma questa è la nostra condizione. Al netto delle stragi delle illusioni e delle consolazioni metafisiche, è qui l’ininterrotto struggimento e la spinta che ci costringe a viaggiare per terre lontane, per altrove mitici, affidandoci a ogni sorta di fuga fantastica. Questo senso dell’irruzione dell’infinito nel finito, questo acuto senso della propria finitezza è il fondamento dell’ispirazione e delle ragioni dell’improvvisazione poetica. La fuga dalla vita è l’inizio di un viaggio verso l’assoluto che si confonde nel nulla. Questo richiede una dematerializzazione degli oggetti che, grazie alla forza del simbolo e della musica, sono sempre più distanti dal linguaggio dozzinale del villaggio, dalle parole della tribù. E, naturalmente, c’è qui la coscienza inquieta e dolorosa dell’uomo incapace di essere all’altezza delle grandi domande, dei grandi impegni che l’attendono sulla terra, delle grandi scelte della vita. Immerso nelle cose che dipendono dalle sue mani creatrici, l’uomo è chiamato a non ritornare in cerchio, a non chiudersi nel finito, a guardare avanti, all’orizzonte che unisce e distingue noi, come la vita e la morte. Noi non possiamo redimere la nostra esistenza dal dolore e dall’incertezza. Solo l’arte, con la sua enorme forza – come diceva Rilke – proietta nel nostro cuore oscuro e inesplicato, come specchi rovesciati, l’inconsapevolezza e l’imperturbabilità delle cose. L’arte ha il compito di salvare le cose. Ma salvarle vuol dire sostituire l’opera dello sguardo con un’opera del cuore: l’unica che apre orizzonti mentre altri tracciano confini.

A quale salvezza allude?

Salvezza vuol dire realizzare la metamorfosi che fa rinascere le cose in noi e ci fa smettere di esser soggetti di fronte agli oggetti; vuol dire fondere lo spazio del mondo e quello interiore in un luogo terzo, in cui ogni essere è compenetrato da una luce che abbraccia ed è abbracciata al tempo stesso. In questa oscillazione – di atmosfere fatte di intuizioni precoscienti, di esattezza e inesattezza, di razionalità e irrazionalità, di compiutezza e incompiutezza – l’espressività artistica fluttua tra arcipelaghi frastagliati, irregolari, privi di relazioni privilegiate. Nella musica, nella poesia e in tutte le forme d’arte.

Torniamo alla musica e, in particolare, alla musica jazz.

Un jazz performer esplora sino in fondo questa libertà, esplora ogni confine e insieme la pluridimensionalità dello spazio musicale. Quel che conta davvero è l’invenzione di gerarchie da utilizzare prima di cercare altre progressioni, rotture, contrasti, sviluppi e conclusioni, anche quando fanno parte di linguaggi non familiari. Nella dissoluzione di armonie e melodie si realizza un processo di essenzializzazione che acquista il suo fascino proprio dal complesso e fluttuante equilibrio formale che tiene insieme le varie componenti. Si potrebbe dire che là dove recide una struttura nervosa, spezza un pilastro o abbatte un contrafforte armonico o melodico, il performer edifica nuove strutture portanti, proporzioni, equilibri e dimensioni dinamico-spaziali. Li aggancia a una logica il cui centro è multiplo, perché immanente alla germinazione profonda della materia musicale e quindi non saldato ad alcuna cristallizzazione normativa. Su questa frontiera – interiore più che sonora – egli si spinge sino a latitudini sperimentali estreme, di volta in volta diverse, veri e propri passaggi dal verticalismo della tonalità a una orizzontalità che infrange gli schemi e le codificazioni passate.

Appare evidente anche dalle sue parole che l’improvvisazione spezza il cerchio che irretisce la mente razionale. Nell’incontro e nella percezione di un brano, la razionalità che ne ha presieduto la costruzione può convertirsi all’irrazionale o, almeno, tendere verso l’irrazionale. Anche quando è dissimulata, la razionalità può essere talmente indecifrabile da ricongiungersi all’irrazionale. Così, l’eccesso di ordine si ricongiunge al disordine.

Naturalmente, un performer sa bene di non avere una libertà assoluta. Egli riconosce vincoli alla propria espressività, che sono interni sia alla tecnica che alle sue regole implicite. La sapienza è nel realizzare un equilibrio tra decisioni motorie, schematizzazioni, funzioni inconsapevoli e reattività spontanea; saltare punti e strutture precostituite, per riunirli in un altro modo. Il suo linguaggio diviene una seconda natura, fatta di istanti privilegiati, in cui la padronanza si converte in inebriante inventiva, in una scoperta per sé e per gli altri. Come un sistema vivente che si rinnova in permanenza, un performer si identifica con un sistema aperto. Inventare, catturare la novità, appropriarsene, divengono necessità biologiche che si trasfigurano in rivelazioni, epifanie, immagini inedite che si inseguono nelle frange di interferenza tra coscienza e inconscio; in bagliori istantanei che appaiono e scompaiono tra rappresentazioni effimere e oscure; in intuizioni d’ordine, regolarità e bellezza che illuminano la mente e muovono verso il proprio compimento; infine, in sentimenti di meraviglia, sorpresa, esaltazione, anche quando dopo si chiede come sia accaduto o perché abbiano avuto una tale importanza. Così, annunciata da movimenti insoliti e ambigui che premono dalle estremità della coscienza, al confine tra magia e sogno, in quell’interregno tra soggetto e oggetto, dove le oscure radici del vitale e della ragione si intrecciano misteriosamente, l’improvvisazione diviene un viaggio tra assenze, asimmetrie, realtà nascoste. In questo gioco sublime ed enigmatico, che parte sempre da un’idea, un performer si affida alla spontaneità della composizione, all’invenzione di armonie, melodie e ritmi in tempo reale. Nel suo ordinario flusso di coscienza – un fluire rarefatto, sospeso, come in perenne attesa, in costante dialogo con spazi e silenzi – emerge qualcosa di improvviso e attuale che non si può comprendere a posteriori, ma solo sul momento. E sebbene sia consapevole di quel che si è fatto, non può tornare indietro, perché nell’infrangere le regole egli le ridefinisce all’interno di un flusso: come una necessità vitale, una natalità, un nuovo inizio.

A questo punto, sembra che l’improvvisazione rimetta in questione, più di ogni altra cosa, quell’astrazione che ancora chiamiamo Io, su cui crediamo di esercitare piena sovranità.

Dice bene. Nessuno ha mai dimostrato l’esistenza di questa astrazione, che pullula di sensazioni, pensieri e memorie, ed è continuamente potenziata da nuove esperienze e informazioni corporee; un’astrazione mai del tutto unificata, sostenuta dal gioco concorrenziale di diverse coscienze e fortificata da associazioni attorno a complessi di idee concatenate. Si tratta di dinamiche di assimilazione e rifiuto che definiscono la libertà espressiva dell’Io. Senza un lavoro di sgombero sarebbe impossibile dar voce a zone interiori invisibili e impensate. Ecco perché un musicista, nel corso di una performance, pur cominciando con motivi previsti, li abbandonerà presto. Perdendosi. Togliendosi di mezzo. Facendo vuoto, per diventare se stesso. Congedandosi dal pensiero razionale, vero intralcio all’emergere di forze e conoscenze autonome e disperse provenienti da memorie antiche e inconsapevoli.

Vi sono alcuni ultimi aspetti che vorrei discutere. Per scongiurare che eventi inattesi, sentimenti, preoccupazioni o pensieri mettano a repentaglio la fluidità dell’improvvisazione, un performer deve tendere a uno stato libero da vincoli, privo di intenzionalità, in cui non pensa, né persegue nulla. È così che la concentrazione (e, dunque, l’efficacia di un’esecuzione) può raggiungere livelli elevati. È chiaro, infatti, che se qualcosa facesse da ostacolo a questa immersione in se stessi, il controllo razionale prenderebbe nuovamente il sopravvento. E, prima ancora di accorgersene, la fluidità del movimento sarebbe compromessa. Qui bisogna, forse, considerare che la concentrazione, l’immedesimazione, l’abbandono, non si producono da sé. Né hanno a che fare col talento o altro. Concentrazione, automatismi e immaginario si fondono nell’esecuzione in corso, identificandosi perfettamente con quel che stanno facendo.

Concordo. Un’esecuzione rapida ed efficace richiede il passaggio dalla consapevolezza all’inconsapevolezza. Anche la minima esitazione riflessiva potrebbe interrompere gli automatismi e indebolire l’efficacia e la precisione dell’azione. L’abbandono di ogni intenzionalità permette al performer di diventare tutt’uno con l’azione, improvvisando secondo le necessità del momento. Niente come l’improvvisazione rende evidente quanto erronea sia ogni sostanzializzazione dell’Io. A pensare è l’organismo intero. Tutto il corpo prende parte al pensiero, al sentimento, alla volontà. Questa pluralità instabile, in permanente tensione, è composta da tante forme di consapevolezza quante sono le strutture che costituiscono il corpo. Dunque, se esiste in noi una forma di unità, questa non poggia sull’Io consapevole, sul sentimento, la volontà e il pensiero, ma sulla capacità del corpo di ricordare, decidere, anticipare, inventare. L’Io è solo uno strumento di tali processi, una sintesi concettuale di altre forme di vita, una rappresentazione di quel che accade nelle nostre strutture nervose. Anche se si continua ad attribuire alla mente il principio organizzatore unitario, la consapevolezza non svolge alcun ruolo nell’adattamento e nella sistematizzazione dell’unità dell’Io. In questo senso, unità ha senso solo se significa coordinazione e, dunque, se è vero che la consapevolezza è subordinata al corpo, nella sua forma ultima il problema dell’unità dell’Io è un problema biologico.

Andando verso le conclusioni di questo dialogo, forse possiamo affermare che l’improvvisazione non è solo un’obiezione all’idea gerarchica della creazione musicale, ma soprattutto l’incarnazione di un’idea non spaziale e vitalistica del tempo. È corretto affermarlo?

L’improvvisazione mette in forma una realtà inafferrabile e inapparente, una polvere di molecole istantanee, schegge luminose che risplendono qui e ora. Alla tradizionale rappresentazione cronologica del tempo musicale, l’improvvisazione oppone folgorazioni abbaglianti, epifanie precoscienti. I valori della musica precedente vengono in qualche modo rielaborati in nome di una nuova poetica della marginalità e del silenzio. Il suo linguaggio incoerente, equivoco e discontinuo, spezza la coerenza del meccanismo cadenzale, ne sgretola l’impianto ontologico alludendo ad uno completamente altro, privo di fondamento sostanziale.

Nell’improvvisazione non si va verso il nucleo solido e rassicurante delle cose, ma ci si affida a un divenire incerto, dubitativo. Non vi è un cammino, perché il cammino lo si fa andando. Armonie e melodie divengono così un catalogo di ipotesi, un dizionario del possibile. Più che demarcazioni stilistiche sono narrazioni frastagliate, tracce e sentieri; idee e impressioni che diventano disegni e colori che sfumano; tratti e ritratti di paesaggi, cose, persone. E ancora pensieri, mappe mentali che si fissano restando fluidi, privi di confini, come luoghi di transito attraversati dai venti dell’ispirazione, naturalmente obbligati a congiungere. Storie, racconti, inviti inquieti al viaggio, più che soste nella quiete di una dimora.

Nella nostra tradizione filosofica il pensiero (crono)logico è ordinato nel tempo, mentre il pensiero corporeo è simultaneo. Non sottomesso al tempo. Ignora il passato e il futuro.

Nella singolarissima forma di vita che è l’improvvisazione, il tempo ha rilievo assoluto. In quella forma di narrazione che è il jazz, narrare vuol dire mettere in scena il tempo, incarnare ritmi, dissonanze, sincopati, insight estetici, imprevisti e imprevedibili. Qui, l’urgenza performativa di gesti, voci e suoni, sebbene declinata in un medesimo orizzonte, rende irriducibile la differenza del tempo individuale. D’altra parte, se i tempi individuali coincidessero, i musicisti condividerebbero la stessa vita. Ma il tempo sorprende tutti, a tutti manifesta estraneità. Ognuno ne fa esperienza in se stesso, cogliendone i più sottili movimenti, come un sensibilissimo sismografo, negli istanti tra un non più e un non ancora.

Potremmo dire che ogni performer maturo, come un esploratore dell’ignoto, spera, più di tutto, che tra intuizione e suono si realizzi una reciproca conversione; che le sue intuizioni si trasfigurino in note, armonie e altre privilegiate narrazioni; che il fuoco sacro dell’ispirazione illumini le sue più intime profondità e gli faccia sperimentare le potenze rivelatrici dell’abisso.

Nel ritmo che nega la durata, azzera le pause e infutura vita e idee fino ai limiti dell’inesprimibile, si manifesta l’imprevedibilmente altro di ogni performer. Così, da verità ‘oggettiva’ il presente si trasforma in un personalissimo atto di libertà, in cui ogni accordo è sottoposto a una destabilizzante intemporalità. Anche per questo l’improvvisazione non è una proprietà del tempo, ma un movimento nel tempo. Nell’improvvisazione, kairos è il tempo opportuno. Pause, dissonanze, rallentamenti, perifrasi, citazioni e riprese della frase, cambi di accordi e di misura, testimoniano lo sforzo di conquista e riconquista di sé e del tempo, al termine del quale l’essenziale è ritrovarsi. In questa infinita conversazione, il rapimento fa da contrappunto al rischio. Perché improvvisare è un atto di pura audacia e, insieme, di profonda interiorità, in cui si leggono, spinte all’eccesso, le tensioni che l’artista deve affrontare, tra la pura ricerca artistica e la necessità di ridefinirsi sul piano individuale e pubblico. I nuclei sepolti nella sua interiorità sono materiali da liberare e trasformare. In questo sublime gioco a dadi con il suo cervello, più di ogni cosa egli spera che nulla interferisca con il movimento delle sue mani, con le molteplici rappresentazioni e suggestioni che fugaci attraversano la sua coscienza.

2 Responses
  1. Giuseppe Chiari ha dimostrato che può improvvisare chiunque. Pertanto non condivido l’affermazione per la quale possa improvvisare “solo” chi padroneggia le specialità tecniche dello strumento. Tant’è vero, che molti laboratori usano l’improvvisazione con esiti straordinari anche con allievi, ragazzi che ancora stanno costruendo la loro tecnica strumentale. Per tutto il resto, invece, l’articolo offre una riflessione estremamente interessante, per la quale ringrazio. Girolamo De Simone

    1. Gentile Girolamo,
      la ringrazio per le sue osservazioni. In realtà sono al tempo stesso d’accordo e in disaccordo. Naturalmente il mio intento era discutere l’improvvisazione quando realizzata dagli esperti.
      Fortunatamente la letteratura sta andando in una direzione davvero interessante.
      Grazie e cordiali saluti

Leave a Reply