Conversazione con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Benedetta Muzii

Professore, sembra che tra le cifre della contemporaneità vi sia la percezione acuta della dissonanza, della lacerante contraddizione tra il senso comune e la natura delle cose. Le scienze della mente, a diversi livelli, stanno mostrando come il senso comune appaia sempre più una costruzione sociale aleatoria; che parole come io e noi – nelle quali pure ci riconosciamo per effetto di narrazioni precocemente interiorizzate – divengono problematiche appena ci riflettiamo sopra criticamente. Quali sono le implicazioni e, in particolare, quale è il suo punto di vista in merito?

Sin dalla più tenera età, noi costruiamo, passo dopo passo, una forma di corrispondenza tra quel che pensiamo di essere e la versione sociale della nostra identità personale. Si tratta, per lo più, di una narrazione che ci si impone come un’evidenza, allo stesso modo di altre narrazioni passate e presenti. Alla sua origine c’è un flusso di informazioni, memorie e simboli che scorrono paralleli, privi di una coerenza interna, che tracciano lineamenti e immagini della nostra personalità. Se, però, ci teniamo alla larga dalle costruzioni illusorie ci appare evidente il carattere paradossale della nostra esistenza, carico di tensioni e incoerenze: cioè un vero e proprio conflitto tra la molteplicità della nostra natura e l’unità coesa e integrata che crediamo d’essere. Un vero e proprio contraccolpo tra ciò che siamo e ciò che non siamo.

Per tutto il Novecento si è cercato di venire a capo di tale questione attraverso epocali controversie artistiche, filosofiche e scientifiche. La psicoanalisi, in particolare, è stata attraversata da un lungo dibattito che ne ha deciso e segnato discorsi e percorsi, evoluzioni e acquisizioni, peraltro dividendosi fortemente al suo interno sul senso e sul fondamento della soggettività. Oggi cosa vuol dire soggettività, cosa designa questo nome?

Un nome è un enunciato di realtà rispetto a un altro, la mossa di un gioco complesso. Far di esso – qualunque sia – l’espressione della nostra personalità significa ridurlo a un’essenza metafisica, destoricizzata, sottratta alla mutevolezza del tempo e dello spazio. Eppure, proprio nel nome – quel singolare effetto fermo-immagine di noi stessi – risiede la fascinazione metafisico-simbolica della nostra identità personale. C’è da chiedersi cosa significhi e quale sia il valore semantico della parola io? A cosa alludo e a chi mi riferisco nel dire io? La linguistica ha mostrato bene fino a che punto ‘lingua’ e ‘discorso’ siano realtà divaricate, differenti, addirittura scisse. Pensi alla relazione paradossale tra pensiero e voce. Abbiamo un enunciato prodotto dal nostro pensiero. Ma come si installa nel nostro discorso? Come fanno queste sequenze logiche a dar fondamento alla soggettività? Ecco, il nostro primo problema è proprio il dire che promana dal pensiero: atto paradossale che implica fenomeni di soggettivazione e desoggettivazione.

Mi viene da pensare, a questo proposito, a Fernando Pessoa. La sua vita e la sua opera hanno rappresentato, forse, la testimonianza più alta di desoggettivazione.

Credo che su questo terreno non esista documento più radicale e impressionante della sua opera poetica e filosofica. Proviamo ad affidare la parola al poeta lusitano. Il 13 gennaio del 1935, in risposta all’amico Adolfo Casais Monteiro che gli domanda dell’origine dei suoi molti eteronimi (che il poeta stesso attribuisce a una propria tendenza organica alla depersonalizzazione), Pessoa annota:

(…) all’origine dei miei eteronomi sta il profondo tratto isterico che è in me. Non so se sono semplicemente isterico, ovvero più propriamente istero-nevrastenico. Propendo per la seconda ipotesi perché vi sono in me fenomeni di abulia che l’isteria in senso proprio non registra tra i suoi sintomi. Comunque sia, l’origine mentale dei miei eteronomi è la tendenza organica e costante alla depersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, per fortuna mia e degli altri, si mentalizzano in me, voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica esterna e nel contatto con gli altri, esplodono dentro di me e li vivo da solo con me stesso. (…) Mi viene un detto di spirito assolutamente alieno per un motivo o per l’altro da ciò che sono, o che suppongo di essere, lo proferisco immediatamente, spontaneamente, come se fosse di un qualche mio amico il cui nome invento, la cui storia prende forma, la cui figura, volto, statura, vestito, e gesto immediatamente mi vedo davanti. In questo modo ho modellato e propagato vari amici e conoscenti, che non sono mai esistiti, ma che ancora oggi a più di trent’anni di distanza, odo, sento, vedo – ripeto: odo sento vedo e provo nostalgia di essi.

Pessoa allude, qui, alle molteplici figure psichiche che abitano la sua mente, differenti dal narratore (ed in se stesse differenti) che si alternano e (si) raccontano, designando uno straordinario campo di sperimentazione.

Io mi apro agli altri come immediatamente il mio mondo si anima di figure fantasmatiche, ma al tempo stesso coerenti nella propria vita, sebbene sia una vita con una contabilità … come dire … non ordinaria.

In questo processo di desoggetivazione, Pessoa si congeda dalla contabilità formale della propria esistenza, divenendo Álvaro de Campos, Alberto Caeiro, Ricardo Reis, altri ancora. Alla desoggettivazione segue una soggettivazione. In una nota dell’8 marzo del 1914, egli scrive:

(…) mi avvicinai a un comò alto e dopo aver preso qualche foglio di carta cominciai a scrivere, di colpo, come scrivo ogni volta che mi riesce. Scrissi di seguito più di trenta poesie, in una specie di estasi la cui natura non riuscirei a definire. Fu il giorno trionfale della mia vita, e mai potrà esservene un altro uguale. Cominciai dal titolo, O Guardador de Rebanhos, ciò che seguì fu l’apparizione in me di qualcuno a cui diedi subito il nome di Alberto Caeiro, mi scusi l’assurdità della frase, apparve in me il mio maestro, fu questa la sensazione che ebbi immediatamente e nell’istante stesso in cui ebbi terminato di scrivere le trenta e più poesie, presi immediatamente altra carta e scrissi altrettanto di seguito le sei poesie che costituiscono la Chuva Oblíqua di Fernando Pessoa. Immediatamente e totalmente fu il ritorno da Fernando Pessoa ad Alberto Caeiro e a Fernando Pessoa.

Come potremmo definire questo movimento profondo che spinge Pessoa ad uscire da se stesso per tornare ad essere, poco dopo, colui che era prima?

Se proprio teniamo ai nomi – ma qui esplodono i drammi linguistici e concettuali in cui siamo tutti impigliati – potremmo definirla una fenomenologia della desoggettivazione o, meglio, una fenomenologia della depersonalizzazione eteronimica. Qui, non solo ogni soggettivazione implica una desoggettivazione, ma ogni desoggettivazione, per poter essere raccontata, esige una risoggettivazione. In questo andirivieni, come una instancabile marea, i confini dell’io sono messi a dura prova, perché sollecitati in direzioni diverse, forse opposte. Naturalmente, sarebbe sbagliato definire questi fenomeni, in quanto tali, psicopatologici. Eppure occorre chiedersi: chi è a prendere nota di questo vertiginoso viaggio al centro di se stesso? Chi traccia i sentieri e i pensieri di presenza e assenza? Il sé? L’inconscio? Altro ancora? Sia come sia, penso che il viaggio di Pessoa (e dei suoi eteronimi) dimostri che la vita, nel recinto della soggettività, non spiega nulla. Certo, vi sono funzioni (e vincoli) biologici che sorreggono il parlante. Ma è nell’equilibrio instabile tra biologia e flussi di coscienza, tra funzioni vitali e storia interiore, che si ha – come ha lucidamente osservato Giorgio Agamben – il costituirsi parlante del vivente e il sentirsi vivente del parlante. Non è forse vero che un poeta nasce nell’istante in cui si congeda dal proprio io?

Dunque, la poesia può essere considerata come un processo di soggettivazione e di desoggettivazione? Ma, se è così, cos’è l’io poetico? O meglio, chi è l’io poetico? Forse un io identico a se stesso, che dice poeticamente il mondo dai confini del proprio corpo? E, ancora, quest’io poetico è sempre in se stesso, nel proprio tempo e nel proprio spazio e, contemporaneamente, fuori di sé e all’interno della creazione?

Non c’è bellezza, sorpresa, meraviglia – e, dunque, invenzione poetica – senza estraniamento da sé: in breve, senza desoggettivazione. La creazione poetica, l’atto stesso di una parola, implica inevitabilmente una desoggettivazione. Ascolti cosa dice dell’io, la scrittrice Ingeborg Bachmann:

(…) un io senza garanzie. Cos’è l’io infatti, cosa potrebbe essere? Un astro di cui posizione, orbita, non sono mai state del tutto individuate e il cui nucleo è composto di sostanze ancora sconosciute. Potrebbe essere questo: miriadi di particelle che formano un io, ma al tempo stesso, l’io potrebbe essere un nulla, l’ipostasi di una forma pura, qualcosa di simile a una sostanza sognata.

Qui, la Bachmann fa un gesto eversivo che rimette in questione la certezza di un io sovrano che governa, osserva, legifera e decide del suo campo d’azione. Addirittura che questo io sarebbe simile a una sostanza sognata, al movimento di una miriade di particelle. La Bachmann guarda a un territorio estremo, al limite della coscienza, comune non solo alla creazione poetica, ma anche alla riflessione, alla meditazione mistica, finanche all’atto della parola in quanto tale.

Qualcosa al confine non solo dei limiti del dicibile, ma anche del pensabile.

La questione è se l’esperienza sia pensabile nei termini che noi immaginiamo quando assumiamo il pensiero come oggetto della nostra attività mentale. Siamo in un campo dubbio. Non basta dire “io penso” per essere presente a me stesso. Infatti, dicendo io penso, eccedo inevitabilmente i limiti del pensabile, per finire nell’impensabile. Sono trascinato al confine delle cose e del senso comune che condivido con gli altri. E, tuttavia, non sono nemmeno lì fuori, cioè fuori da me stesso, quasi fossi una cosa o un altro io. É quest’esperienza estraniante a dirmi che è così che mi mostro, che sono fatto, e a indurmi ad agire di conseguenza. Del resto, gli occhi dell’altro – gli stessi occhi che io sono quando eccedo questo confine – mi guardano. O, per essere più precisi, mi guardano attraverso lui. I suoi occhi rivelano un’anima appropriatasi di un volto, di una maschera. Cosa è un poeta se non il supremo creatore di maschere, di finzioni? Non era lo stesso Pessoa a dire che il poeta è un fingitore? Sua è la voce che fa parlare la superficie in luogo della profondità, dissimulandone il mistero e il pathos. Tutto guarda e parla. Tranne ciò che è dentro di lui. Resta un volto dalle false sembianze, un volto ex-statico (vale per tutti: poeti, eteronimi, lettori), che dà il via a una danza di ‘somiglianze esteriorizzate’.

Ma cosa ci spinge a cercare nel poeta una corrispondenza di anima e volto? L’io, lei dice, non vedrà mai il proprio volto. Dunque, noi non vedremo mai il nostro volto?

È così. Possiamo, al più, vederne parte in uno specchio. Mai la parte attraverso la quale il volto mi si rivela e la mia anima si manifesta. Certo, guardo me stesso. Ma è un vedere dis-locato rispetto al corpo: un corpo che resiste all’anima. Vale per gli occhi come per ciascun organo di senso. È come se lo sguardo fosse difficilmente riconducibile ai lineamenti esterni del mio volto. Del resto, ci appartiene davvero la fisionomia di questo volto, di questa immagine? E se fosse così, perché questa dissonanza (e questa distanza) tra la mia interiorità e il mio volto? Perché sento estraneità di fronte alla mia fotografia?

Lei ha scritto da qualche parte che anche qui ha origine l’esperienza poetica. Forse vuol dire che l’attività creatrice risiede nel fatto che l’artista si sente più libero e creatore perché aperto e disponibile a forze che suscitano l’azione?

Questo discorso ci porta davvero lontano. Posso dire, però, che insieme alle considerazioni appena fatte vi è la capacità dell’artista di rappresentare, tra molteplici possibilità, la via di una libertà che è anche la via di una imperiosa necessità che non elimini le contingenze, facendole brillare di una luce nuova e inattesa; facendo vivere al suo interno voci di viandanti amanti, esiliati, eroi; nominando il dolore e attingendone il grido, nella trasparenza di impercettibili intervalli, nel gesto silenzioso che fa spazio all’ascolto. È così che l’arte ci restituisce la sublime paradossalità della nostra condizione: condizione che nessun linguaggio può dire facendosi carico di una realtà non effabile che dice di sé attraverso i buchi, le lacune, e gli abissi nel testo che noi siamo.

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