Conversazione con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Sergio Petrosino e Benedetta Muzii

Un destino paradossale sembra abbia avvolto la psiche del nostro pianeta, se così possiamo definirla. Strappi e cuciture impossibili, utopie capovolte, fanno da cornice a un’esperienza individuale sospesa, priva di direzione. Abbiamo tutti l’impressione che le carte nautiche di questa strana modernità siano sbagliate. Il progresso, ormai di fatto identificato con la tecnica, ha fissato il filo del tempo attorno a un presente illeggibile. Lo sfinimento febbrile delle ‘leggi’ della storia ha lasciato campo libero a un meccanismo indifferente al destino umano. Come possiamo decifrare il senso psicologico di una storia che ci sovrasta e in cui siamo tuttavia inseriti? In giro, non sembra vi siano strumenti intellettuali per una diagnosi (men che meno di una prognosi) per tutto questo. Vi è un drammatico impoverimento dell’analisi dei fatti, che ormai sembrano abbandonati al loro accadere, irrappresentabili in una forma compiuta. Per dirla con André Neher, le chiavi della storia sono andate perdute e tutti noi viviamo una penosa sensazione interiore di smarrimento, di perdita di direzione delle nostre vite individuali e della nostra civiltà. Cosa ne pensa?

La trovo un’analisi lucida, finanche impietosa. Vorrei, però, provare ad articolarla e chissà che l’esito non ci sorprenda. Credo che in ogni tempo e ad ogni latitudine vi sia stato un disagio che riguarda le domande di senso sulla vita che ogni giorno ci si ripropongono e a cui è quasi impossibile rispondere. Oggi, però, siamo di fronte a una radicale discontinuità rappresentata da una inaudita potenza scientifica e tecnologica che fa da contrappunto a un senso insostenibile di infelicità: come fosse più acuta la consapevolezza che il desiderio di onnipotenza e onniscienza non possa essere soddisfatto; come se più drammatica fosse la consapevolezza della nostra fragilità, caducità, finitezza. In questo senso, la crisi è innanzitutto crisi di fiducia e di speranza in se stessi e negli altri: finanche nella stessa idea di uomo e nella possibilità di costruire forme migliori di convivenza. Freud aveva mostrato come il fine impostoci dal Principio di piacere non possa essere realizzato. Gli uomini tendono naturalmente al piacere e alla felicità, ma ogni volta i loro tentativi si infrangono contro ostacoli inaggirabili. Tutto sembra cospirare contro il soddisfacimento della pur naturale tensione alla felicità, biologica o psicologica che sia.

Proviamo a semplificare. Lei intende dire che anche se il Principio di piacere spinge continuamente per affermarsi, a prevalere è sempre il Principio di realtà? Inoltre, che qualsiasi lotta contro la sofferenza e le angustie della vita è una lotta senza speranza? Nemmeno l’arte con la sua funzione insostituibile, con quell’euforico stato di coscienza che provoca in noi riesce a lenire gli affanni della vita, a redimerci dalla sofferenza?

Temo che la bellezza, in tutte le sue forme, sia solo un tenue argine al dolore. La forza soverchiante della natura e la fragilità del nostro corpo restano ineluttabili. Nonostante il potente anelito alla felicità, gli uomini non riescono ad essere a lungo felici. Certo, possiamo lottare contro la caducità del nostro corpo, ma alla nostra condizione di sofferenza non è estranea l’influenza delle istituzioni sociali – la famiglia, lo stato, la società – un insieme di ordinamenti e istituzioni che regolano le relazioni degli uomini fra loro e storicamente mettono l’uomo al riparo dai pericoli della natura. L’onnipotenza e l’onniscienza, da sempre attribuite dagli uomini agli dei, nell’età della tecnoscienza sembrano, almeno in parte, nelle mani dell’uomo. Ma ritorna la domanda: perché l’uomo contemporaneo non si sente felice?

Nel 1921 Freud, in alcune ricerche fondamentali, stigmatizza la propensione delle masse alla sottomissione, una tendenza di cui parla Étienne de La Boétie in “Il discorso sulla servitù volontaria”, che è poi l’inclinazione all’obbedienza incondizionata ai capi, alla manipolazione, al conformismo, alla mancanza di autonomia e di spirito critico.

Si tratta di una tendenza che, come un fiume carsico, appare sulla superficie della storia per rientrare sotto la crosta sottile su cui si posa la cosiddetta civiltà. In fondo alla nostra anima, vi è questa condizione, che oscilla tra il salto acrobatico verso il futuro e il sangue e l’istinto. Noi portiamo popoli primitivi nella nostra anima e, quando la ragione si assopisce, essi insorgono con i loro riti sanguinari, predatori. Lottiamo strenuamente con l’elemento biologico per emanciparci da esso, ma ritorna nelle forme del dolore fisico e psichico. Lo psicoanalista viennese vede all’azione, nelle società massificate, pregiudizi, pulsioni gregarie, razzismo e altri simili dinamiche dalle radici profonde. Sostiene Freud nel 1923, che se la civiltà deve ad Eros le sue prodigiose realizzazioni e conquiste, deve a Thanatos la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno e, conseguentemente, gli orrori e i dolori, i lutti e le distruzioni, che hanno lastricato il cammino dell’umanità. Il gigantesco dissidio fra Eros e Thanatos trova in polemos la cifra essenziale dell’esistenza umana: l’evoluzione civile è la lotta per la vita della specie umana.

Per la spinta al possesso e il sentirsi in diritto a tutto, gli uomini tendono a nuocersi vicendevolmente. Vivono di istinti predatori, pulsioni e desideri che cercano continuamente di soddisfare con l’uso della forza e la ricerca della gloria per le proprie imprese. Lo psicoanalista viennese, in una singolare solidarietà con Thomas Hobbes, sostiene che la condizione naturale è la guerra di tutti contro tutti. Di questa tendenza, non sempre riconoscibile nelle sue manifestazioni, non siamo sempre avvertiti. Non è facile, infatti, liberarsi dei condizionamenti culturali e ideologici che ci spingono a negare un così potente ruolo di Thanatos. È in ragione di ciò che è più difficile cogliere le pulsioni di morte rispetto alle manifestazioni della pulsione erotica.

Tale questione ha interrogato molti pensatori. Come può la civiltà neutralizzare la spinta aggressiva che tende continuamente a rimettere essa stessa in questione? Hobbes aveva contrapposto la lex naturalis, cioè un sistema di regole razionali che limitano la propria libertà in nome e per conto della collettività, al diritto naturale, cioè il diritto di tutti su tutto per il proprio vantaggio: una tensione che sarebbe del tutto invivibile e irrazionale. Sostiene Hobbes che occorre una soluzione che riconosca l’uso legittimo della forza, perché ovunque vi sia civiltà vi è polemos. La soluzione è nel cedere i propri diritti naturali ad un soggetto terzo: il Leviatano. Hobbes era irrimediabilmente convinto che gli uomini non fossero in grado di autogovernarsi. Il prezzo? Altissimo! A partire dall’enorme perdita di felicità che diviene più acuta al crescere del timore del Super-Io della civiltà. Si tratta di un punto cruciale. Infatti, se è vero che i processi di civilizzazione e dell’evoluzione individuale sono di natura assai simile, nell’individuo la ricerca della felicità resta sempre centrale, mentre nel processo di civilizzazione questa resta sempre sullo sfondo: prioritario, infatti, è il conformarsi degli individui alla società. D’altra parte, ogni individuo è combattuto al proprio interno fra due tendenze: una che lo spinge alla ricerca della felicità individuale; l’altra che lo spinge a conformarsi alle esigenze della società: un dissidio che provoca disagio, infelicità, dolore e nevrosi. Peraltro, come diceva il fondatore della psicoanalisi, sovraordinato al Super-io individuale vi è anche un Super-io della civiltà, con le sue severe esigenze etiche, le sue sanzioni, i suoi imperativi, i suoi divieti. Questo Super-io della civiltà è indifferente alla reale condizione umana, in particolare al desiderio di felicità individuale. Esso emana ordini, non si chiede se sia possibile eseguirli. Dà per scontato che l’Io individuale sottostia a qualsiasi prescrizione e, soprattutto, che questi abbia un potere illimitato sul suo Es, quando invece la sovranità sull’Es è sempre limitata – ragione che dovrebbe far comprendere perché, esigendo di più, si produce rivolta, nevrosi o infelicità. Basta guardare al malessere (e all’enorme risentimento) che domina la civiltà contemporanea: per non dire delle guerre, del terrore, delle persecuzioni in ogni parte della terra, dell’antisemitismo, dei genocidi, fatica, malattie e miseria e del contrasto con ricchezze e conoscenze sempre più grandi.

Forse dopo l’analisi avviata da Freud sulla tensione tra la realtà desiderante e le esigenze di civilizzazione, occorre riflettere sulla forma attuale del Super-io della civiltà, sul processo di civilizzazione e sui suoi tremendi movimenti di faglia. A me pare che oggi il problema della civilizzazione non sia emancipare l’uomo dalle potenze arcaiche che lo assediano, ma come elaborare quel residuo pulsionale mai del tutto integrabile all’interno della civiltà. Se è vero che la lotta tra la pulsione di vita e la pulsione di morte è interminabile, oggi, la potenza distruttrice di Thanatos ha raggiunto livelli come mai prima. Ora, se non possiamo attenderci esiti positivi dal conflitto tra queste due istanze, possiamo almeno nutrire speranze – pur senza ignorare le forme crescenti e sempre più vicine di primitiva violenza e barbarie – l’affermazione di Eros sul suo potente avversario?

Vorrei ricordare cosa scrive Freud, il 28 dicembre del 1915, cioè diversi anni prima di “Perché la guerra?” (1932), in una ormai celebre lettera all’amico psichiatra olandese Frederik Van Eeden:

(…) Dallo studio dei sogni e delle azioni mancate delle persone sane, oltreché dei sintomi nevrotici, la psicoanalisi ha tratto la conclusione che gli impulsi primitivi, selvaggi e malvagi dell’umanità non sono affatto scomparsi, ma continuano a vivere, seppure rimossi, nell’inconscio d’ogni singolo individuo (così c’esprimiamo nel nostro gergo), aspettando l’occasione di potersi riattivare. La psicoanalisi ci ha inoltre insegnato che il nostro intelletto è qualche cosa di fragile e dipendente, gingillo e strumento delle nostre pulsioni e dei nostri affetti, e che siamo costretti ad agire ora con intelligenza ora con stoltezza a seconda del volere dei nostri intimi atteggiamenti e delle nostre intime resistenze. Ebbene, guardi cosa sta accadendo in questa guerra, guardi la crudeltà e le ingiustizie di cui si rendono responsabili le nazioni più civili, la malafede con cui si atteggiano di fronte alle proprie menzogne e iniquità a petto di quella dei nemici; e guardi infine come tutti hanno perso la capacità di giudicare con rettitudine: dovrà ammettere che entrambe le asserzioni della psicoanalisi erano esatte. È probabile che esse non fossero del tutto originali: molti pensatori e conoscitori del genere umano hanno detto cose analoghe. Tuttavia la nostra scienza ha portato entrambe queste tesi fino alle loro estreme conseguenze e le ha utilizzate per chiarire numerosi enigmi di natura psicologica.

Vede, l’aggressività è una caratteristica umana ‘naturale’ e, in quanto tale, è ineliminabile. Certo, si può provare a regolarne l’intensità, affinché non muti nelle forme della guerra. Ma non bisogna farsi illusioni. La guerra rivela l’uomo primitivo che è in noi: colui che trasforma lo straniero in nemico cui dovremo dare la morte, ci costringe ad essere eroi, ci impedisce di accettare serenamente l’idea della morte, ci impedisce persino di amare il nostro fratello di sangue. Nel mondo reale, anche il celebre precetto cristiano “ama il prossimo tuo come te stesso” appare puramente ideale: Caino uccide Abele, Esau odia Giacobbe che lo aveva ingannato, i fratelli vogliono uccidere Giuseppe e lo vendono come schiavo. Insomma, l’uomo non è una creatura gentile che desidera essere amata o che si difende solo se attaccata.

Mi pare che lei stia dicendo che l’aggressività è parte rilevante della natura umana e bisogna farci i conti; che lo stesso gigantesco sforzo di civilizzazione è incapace di neutralizzare le pulsioni di morte. In fondo, viene da pensare che una loro eccessiva interiorizzazione non è nemmeno auspicabile, poiché l’aggressività esploderebbe in forme tribali, etniche, ideologiche, belliche. Nessuna ideologia, nessuna filosofia, nessuna religione, nessuna teoria possono illudersi di sbarazzarsene facilmente.

In tutta sincerità, credo che alla base delle flebili critiche al potere che blocca e rinvia il cambiamento, vi sia la paura della libertà. L’uomo aspira naturalmente alla libertà e, tuttavia, ne ha paura. La libertà, infatti, lo obbliga a prendere decisioni, e le decisioni comportano rischi e assunzione di responsabilità. Dopo tutto su quali valori basare le proprie decisioni? L’uomo è abituato che gli si dica cosa deve pensare, anche se fin dalla più tenera età gli si ingiunge di dover realizzare le proprie idee. In realtà, da lui ci si aspetta solo che diventi un prevedibile burattino educato al consenso, poiché il limite entro cui pensare è stabilito dalla società. Le idee giudicate dannose dalla società sono intollerabili. D’altra parte, ed è questa la cosa rassicurante per tanti, sottomettendosi a una autorità può sempre sperare che questa gli dica cosa è giusto fare. Tanto più se è questa a decidere ciò che è utile e ciò che è dannoso. Ecco, credo che sia con questo che tutte le ipotesi di riforma e di trasformazione della società dovranno fare i conti.

Vorrei considerare con lei un ulteriore elemento: l’atteggiamento verso la morte della civiltà occidentale. A pensarci bene non è molto differente da quello dell’uomo primitivo, il quale da un lato persegue l’annientamento dell’altro (lo straniero, il nemico) e, dall’altro, allontana la morte da sé come qualcosa d’irreale. La terrificante potenza delle guerre contemporanee ha risospinto la ragione oltre i suoi stessi limiti e al pensiero non resta che constatare il proprio smarrimento. Eppure, la presenza della morte rappresenta una sfida cui è impossibile sottrarsi, in particolare per il nesso ontologico vita-morte. Scendendo a patti con l’onnipotenza dell’Io, l’inconscio volta le spalle alla morte. Più che alla propria, crede alla morte degli altri, degli estranei, dei nemici. In fondo, nel proprio inconscio ognuno aspira all’immortalità?

Non è così? É un tema cruciale nel pensiero freudiano. Lo sferragliare delle armi, il cieco furore che montava e che culmina nella “Notte dei Cristalli”, tra prima e seconda guerra mondiale, spinse Freud a riflessioni che preludono alle tesi sviluppate in seguito ne Il disagio della civiltà. Quale rapporto vi è, si domanda, tra la volontà di annientamento messa in atto dai governi e una coscienza individuale così disorientata? Più in alto giungevano i vessilli del patriottismo, più arduo era riconoscere per ognuno l’identità della propria nazione. Fin quando, d’improvviso, ciascuno si è ritrovato spaesato e ogni cosa gli è apparsa mutilata nella sua essenza, nella bellezza dei suoi paesaggi, sfigurata nel pensiero, nell’arte e in ogni altra forma di creazione dello spirito. Si compie la dissoluzione dei valori che erano stati a fondamento della convivenza sociale, delle relazioni tra gli uomini nella sfera pubblica: valori legittimati dalla condotta degli stessi Stati che, di quei principi, si facevano depositari e garanti tramite la legge.

Veniamo ad oggi. Dopo le tragedie del ‘900 nessuno immaginava di dover assistere al ritorno della barbarie più spietata nel cuore stesso della civiltà. Eppure sentimenti come la delusione sarebbero ingiustificati: si tratta piuttosto della fine di un’illusione. L’esplosione dei conflitti ha colto impreparati coloro che confidavano senza riserve nel cammino progressivo della civiltà, ma ancor più coloro che professavano certezze sulla naturale bontà dell’uomo.

Ancora una volta, merito indiscutibile della psicoanalisi è aver definitivamente mostrato la vanità e la fallacia di ogni ottimismo moralistico. La guerra ha messo a nudo la natura conflittuale e ambivalente dell’uomo. L’odio e l’amore, la crudeltà e la compassione, appartengono al gioco delle pulsioni che segnano l’esistenza di ogni individuo. È a questa verità psicologica che ci riporta la guerra: una verità impermeabile alle categorie e alle distinzioni etiche. Né, del resto, la guerra può essere interpretata come una sorta di regressione. Le pulsioni primitive interne alla civiltà mettono a nudo l’inanità di ogni pedagogia sociale. Come già osservò Nietzsche, la società è nata e si sostiene grazie a una serie di finzioni: l’educazione, la cultura, la moralità mascherano la condizione autentica degli uomini, l’essenza delle loro inclinazioni, le passioni che oscurano la razionalità. Il mascheramento esige (anzi impone) la rinuncia alla soddisfazione delle pulsioni, ma non è in grado di cancellarle. Non può sradicare l’ostilità primaria, l’aggressività che, quando costretta a nascondersi, aspetta solo l’occasione della sua rivincita. In determinate circostanze, quando i veti e i divieti smettono di agire, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo un nucleo violento, al quale è estraneo il rispetto per la propria specie.

In un bellissimo volume sulla guerra, il grande etologo Eibl-Eibesfeldt ha chiarito che la guerra, sia intraspecifica che interspecifica, rievoca la scena primaria. Del resto, già dal suo vocabolario, la guerra è costruita intorno alla ossessiva ripetizione di parole come nemico ed eroe: un ritorno dell’umanità alla sua preistoria, qualcosa che la doxa, la razionalità scientifica e l’ideologia non possono occultare.

Qui, ineludibilmente, il motivo della violenza rievoca il problema della morte. Dal bisogno di difendere la vita nasce il polemos e dalla volontà appassionata di allontanare da sé il momento della fine nasce il sentimento di ostilità diretto all’esterno. Qui si apre la lotta di ognuno contro i propri simili, attraverso l’appropriazione violenta e il desiderio di dominio che interrompe il circolo della natura, nel quale il vivere e il morire sono un tutt’uno. L’ordine naturale, nel cui perimetro Eros e Thanatos danzano uniti, assume i caratteri di una antinomia radicale: tra il destino dell’organismo che conosce la morte come sua unica meta e il tentativo del vivente di sopravvivere a se stesso si apre un contrasto lacerante.

Forse già all’uomo preistorico la morte si presentava in modo ambivalente: da un lato, il corpo senza vita dell’altro (animale o individuo della sua stessa specie) e, dall’altro, il proprio annientamento, non reale e dunque irrappresentabile. Ciò che è morto (la preda, il nemico) sta di fronte al sopravvissuto come entità estranea: nel trionfo il vincitore assapora la conferma della sua inviolabile superiorità. Solo in questa forma alienata l’uomo primitivo assumeva la morte sul serio, considerandola fine della vita, disconoscendone e annullandone al tempo stesso il significato. Fin dalla scena primaria il rifiuto della morte segna il cammino dell’umanità come ‘sentiero di guerra’: l’odio, il desiderio di uccidere, si sostituiscono alla tendenza verso la dissoluzione connaturata all’organismo, prevalgono sulla pulsione che tende allo stato inorganico.

Sul piano psichico l’atteggiamento dell’uomo primitivo di fronte alla morte vive in noi, pressoché immutato, nei moti inconsci del desiderio. Solo che ora le pulsioni distruttive si spostano dalla realtà fattuale alla realtà psichica, all’immaginario, alla fantasia, alla realtà virtuale. Questa segreta e costante propensione a uccidere dell’uomo contemporaneo è il rimosso della secolare costruzione della civiltà. Freud sostiene che noi accettiamo la morte per gli estranei e i nemici, e la decretiamo nei loro confronti con la stessa mancanza di scrupoli dell’uomo primitivo. Questo desiderio di morte, che rende necessario il divieto, viene legittimato dalla guerra che impone il dovere di distruggere lo straniero in quanto nemico.

Alcuni polemologi sostengono che, in quanto forma estrema della politica, la guerra oltrepassa le istanze etiche, giuridiche, religiose. Se alla base del conflitto politico vi è l’identità fondata sull’appartenenza, la differenza con l’altro o con gli altri gruppi, nella guerra ogni identità si costituisce sulla contrapposizione radicale. In molti casi, proprio questa definisce l’esistenza politica di individui e gruppi. Del resto, la separazione della propria esistenza dagli altri (che vivono e agiscono secondo regole, condotte e consuetudini differenti) non potrebbe avvenire se non attraverso il riconoscimento tra simili che prendono parte allo stesso gruppo. Il principium individuationis che definisce l’identità politica definisce anche l’identità individuale e l’appartenenza come processo di distinzione-differenziazione.

Ora però lei mi sta trascinando, per così dire, in partibus infidelium. Non so se questo sia il luogo appropriato per discutere di questo tema, ma accetto la sua provocazione. Del resto, trattai questo problema già 20 anni fa in un volume uscito per i tipi dell’editore Guida. Vede, è con la nascita dello Stato e dei conflitti tra Stati, che la guerra muta radicalmente di segno, trasformandosi in tecnica dell’annientamento, in teoria della disumanizzazione dell’avversario, in declassazione del nemico a razza inferiore. La guerra statale e interstatale cambia la ‘naturale’ aggressività interspecifica in conflitto civile e ideologico, in distruttività senza pietas. Prima della nascita dello Stato moderno, le guerre erano conflitti ritualizzati limitati nel tempo e nello spazio, che si concludevano con la pace tra vincitori e vinti. Omero e Virgilio raccontano mirabilmente la pietas che i greci e i romani avevano per i vinti. Le conquiste militari dei romani, in particolare, erano regolate dalla politica e dal diritto nelle forme di un foedus che lasciava alle città e ai popoli vinti l’autonomia ed una relativa libertà di usi e costumi. Anche le frequentissime guerre del mondo feudale erano guerre limitate. Al confronto con quelle contemporanee sembrano scaramucce, schermaglie tra gruppi armati, che coinvolgono solo le popolazioni prossime alla linea di combattimento. Nell’epopea napoleonica prende forma la guerra del mondo moderno, la guerra assoluta degli stati-nazione, con la coscrizione obbligatoria, la tecnologia industriale, la potenza economica. Certo, sul piano tattico-strategico, tra le guerre napoleoniche e le campagne di Alessandro il Grande, nonostante l’ovvia e profonda diversità degli scenari politico-sociali, non vi erano molte differenze. Ora, la guerra è diventata lotta assoluta, scontro mortale in cui sono coinvolti tutti i cittadini. La meraviglia di Goethe che, nel 1792, di fronte alla battaglia di Valmy esclama “è iniziata la nuova storia!”, più che all’ammirazione della genialità di Napoleone è suscitata dalla potenza di un inedito e grandioso evento storico: la moderna guerra nazionale.

Le guerre del Novecento costituirono, invece, il paradigma della guerra totale. Le ricerche di Rudolph J. Rummel e Daniel J. Goldhagen hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale i temi della violenza statale e del genocidio nella storia umana. Da instancabile studioso della violenza generata dalla concentrazione moderna del potere, Rummel ha documentato come, nel solo Novecento, le politiche degli Stati contemporanei abbiano eliminato quasi duecento milioni di persone, in pace e in guerra, a volte più in pace che in guerra: 174.000.000 di morti che, messi in fila, farebbero 4 volte il giro della terra. Il politologo americano scrive “(…) se tutta l’acqua e il sangue dei 174.000.000 di morti nel ‘900 scendesse dalle cascate del Niagara, assisteremmo ad una caduta d’acqua pari ad oltre 10 ore, o ad una caduta di sangue pari quasi a 43 minuti”. Quella di Rummel non è un’invettiva morale, ma il risultato rigoroso e dettagliato di una ricerca empirica ultraventennale.

Il ‘900 ha rappresentato l’apice della ferocia umana. Attraverso la militarizzazione dell’economia e della società e, soprattutto, la trasformazione di interi spazi geopolitici in una sconfinata linea del fronte, hanno rappresentato l’espressione più diretta e coerente dello Stato-nazione, con le sue caratteristiche di ‘corpo organico’, l’unificazione identitaria dei popoli, la sovranità esclusiva, il controllo su un territorio trincerato. Carlo Galli ha mostrato in modo mirabile questo processo. Il passo verso i regimi razziali e ideologici è stato breve. Il nazismo e il comunismo rappresentano, nella storia, il dispiegamento assoluto della combinazione di guerra regolare e guerra civile. Come ebbe a dire Carl Schmitt, ogni aggregazione politica nasce sempre contro un nemico. Il binomio amicus-hostis – il legame politico e l’inimicizia pubblica – è l’essenza di ogni atto politico: un’opposizione reale ed esistenziale, la più intensa ed estrema fra tutte. In questo senso, nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemmeno l’avversario privato che ci odia per qualche ragione particolare. Nemico è un insieme di uomini che combatte in base ad una possibilità reale e che si contrappone ad un altro gruppo umano dello stesso genere e ad un intero popolo. Il nemico è l’hostis non l’inimicus in senso ampio. Ma se nemico è l’aggregazione politica, il partito, la formazione partigiana tipica della guerra civile, amico è invece il partigiano, il soldato dello stato-nazione, colui che vive tutto in funzione del nemico. Non vi è spazio per terzietà o mediazioni. La coppia amico-nemico è essenza stessa della politica, dello Stato, del polemos, della guerra. Non vi sono spazi per il concorrente, l’avversario nella discussione, l’inimicus privato. Queste figure sono più adatte alla democrazia rappresentativa, all’economia, alla società civile. Il terreno dell’opposizione amico-nemico pubblico è la guerra. Per quanto apparentemente paradossale una guerra condotta per motivi religiosi, puramente morali, giuridici o economici è irrilevante. La guerra non ha bisogno di essere né religiosa, né etica. Quando i contrasti religiosi, morali e di altro tipo si trasformano in contrasti politici, in base alla distinzione amico-nemico, allora il contrasto decisivo non è più quello religioso, morale od economico, ma quello politico.

Il Novecento ha mostrato come i paradisi illusori si trasformano in inferni reali, come la pseudo-religione dell’umanità abbia aperto la strada al terrore disumano. Occorre giungere a una cognizione nuova, uscire dalla retorica intellettualistica e guardare nell’abisso della natura umana. L’uomo che filosofi e demagoghi hanno eletto a misura assoluta di tutte le cose non è affatto la colomba della pace: egli combatte attraverso il terrore e l’annientamento gli altri uomini che non gli si sottomettono. Il concetto di uomo racchiude in sé un concetto opposto, quello di non-uomo, dotato del più terribile potenziale distruttivo, e che spalanca un abisso di inimicizie. Ma è solo l’inizio. La distinzione tra uomo e non-uomo prelude a un’altra ancora più profonda fra super-uomo e sotto-uomo. L’uomo che tratta un altro uomo da non-uomo realizza già nella pratica la distinzione fra super-uomo e sotto-uomo. Ma per il sotto-uomo non esiste alcun tipo di pena: solo sterminio e annientamento.

  Anche se oggi lo spettro di un altro e più esteso Olocausto nucleare sembra più remoto, dalle macerie del vecchio ordine internazionale degli imperi ideologici e coloniali sembrano risorgere realtà etniche e nazionali che agitano valori culturali profondi, mitici e simbolici. L’effetto omologante delle ideologie ‘universaliste’ del Novecento, che aveva appiattito identità e storie, tradizioni e culture, ha riportato in superficie, insieme a sovranismi e nazionalismi, i fondamentalismi religiosi. Le religioni, che l’espansione del potere secolare dello stato nel XX secolo aveva confinato nell’ombra, ora arruolano Dio sotto le proprie bandiere. Con il rischio di conflitti e microconflitti regionali, subregionali e locali tornano le teorie sulla guerra limitata, finanche sulla guerra nucleare limitata.

L’eliminazione dei conflitti dalla scena del mondo è non più che un’illusione, un’astrattezza. L’idea di una ‘sicurezza comune’ è fallace non solo per l’ingenua visione della natura umana che la sottende, ma anche perché nessuna sicurezza effettiva può essere comune. La sua efficacia, infatti, dipende dalla volontà degli stati e dai loro divergenti e contingenti interessi politici. Invece, è evidente che ogni Stato agisce in base ai propri interessi nazionali, alla propria potenza e per accrescere il proprio peso, la propria ricchezza, la propria sicurezza. La speranza kantiana alla base dei paradigmi istituzionalisti – cioè l’idea di una concertazione intergovernativa per la regolazione dei conflitti – si scontra con i problemi posti dall’erosione della sovranità dello Stato-nazione da parte di attori sub-nazionali e transnazionali, dall’incapacità degli stati a mobilitare risorse in precedenza disponibili, dalla difficoltà ad individuare sempre l’aggressore, dalla criticità politico-strategica del controllo e della gestione degli interventi.

Sono d’accordo. Tutto questo rende difficile una prognosi sull’avvenire della pace e sui nuovi equilibri geopolitici. Ma se è vero che la guerra nasce da tensioni, conflitti ed esplosioni di violenza ineliminabili, è altrettanto vero che l’evoluzione degli scambi e del dialogo richiedono prevenzione dei conflitti, scenari di non belligeranza, limitazione delle guerre. Forse, per raggiungere un simile traguardo si dovranno attendere lunghe e dolorose transizioni, con ritorni di fiamma brevi e violenti. Questa strada la si dovrà percorrere senza più le rassicuranti griglie di protezione politico-psicologiche che, per buona parte del XX secolo, hanno garantito l’equilibrio basato sull’interazione conflittuale fra le tre ideologie (comunismo, fascismo, democrazia) e, dopo il 1945, sull’equilibrio bipolare fondato sulle residuali ideologie comunista e liberal-democratica. Quel che appare certo è che non saranno le utopie istituzionaliste o le retoriche normativiste a rendere la pace un’ipotesi politica praticabile. Potrà esserlo, invece, entro certi limiti, la consapevolezza che non basta rifiutare il nazionalismo, le culture etniche, le diversità. Nuove forme di coesistenza saranno possibili se si riconosceranno le differenze geostoriche e le dimensioni simboliche dei differenti ethos, le spazialità, i territori, le identità, i complessi mito-simbolici delle diverse comunità etniche e nazionali.

Possiamo concludere, dunque, che l’aggressività, la violenza e la distruttività sono parte della natura umana fin dalle origini.

Le loro radici sono rintracciabili in dinamiche inconsce, terrificanti e impensabili, senza né volto né parole, e da una elaborazione paranoica del lutto – come ha mostrato lucidamente il grande Franco Fornari – che usa la scissione per salvarsi dall’angoscia e dalla colpa, mettendo tutto il bene nel proprio oggetto d’amore e tutto il male e la morte in un nemico esterno: proprio come succede nell’angoscia dell’estraneo, considerato pericoloso e nemico, non perché lo sia davvero, ma perché in esso viene proiettato il nemico interno. Ha origine qui lo schema amico-nemico alla base delle guerre, per il quale l’uomo uccide senza riconoscere in sé il desiderio di far morire, e tratta la morte e l’odio come se non gli appartenessero, come se fossero sempre di qualcun altro, pervenendo alla grande illusione che siano i nemici a desiderare di farci morire. Accanto alla funzione (illusoria) di sicurezza rivolta verso un nemico esterno, la guerra ne esercita anche un’altra, inconscia e invisibile, che si nasconde al terrificante ‘nemico interno’. Questa rappresentazione della guerra come difesa dalle angosce psicotiche non autorizza pessimismo e disperazione. Deve, al contrario, indurre alla speranza di altre strade. Fornari vedeva nell’elaborazione di un’attitudine riparativa dell’umanità, la possibilità di convivere con il dolore per la morte, facendo crescere la responsabilità individuale. Questo potrà avvenire non a partire dalla disperazione e dal peso della colpa per la distruttività, ma dalla spinta al cambiamento derivante dal senso di colpa per l’idea di dare la morte. Una colpa, cioè, rivolta al futuro, affinché la morte e la distruzione non restino le ultime parole dell’umano.

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