Intervista a Nelson Mauro Maldonato

A cura di Benedetta Muzii

Professore, da qualche mese lei ha pubblicato un volume, nella forma di una breve antologia di saggi, dal titolo “Apocalisse e rivelazione. Sulla psicopatologia del limite”, che raccoglie segni e indizi di una stagione intensa e apparentemente asimmetrica della sua ricerca. Vuole parlarcene?

Intanto mi lasci dire che, almeno in via generale, un libro rappresenta un’opera inevitabilmente frammentaria, mai interamente leggibile, che nel tempo diviene uno spazio di condivisione e dialogo. In questa breve opera, che ha rappresentato momenti essenziali del mio viaggio professionale e intellettuale, dal valore direi tutt’altro che testimoniale, sembrano si siano riannodati, per vie imperscrutabili, segni ed indizi trasfigurati nelle immagini e nelle maschere di una metamorfosi culturale che in questi anni si è consumata sotto i nostri occhi.

Tra il 1980 e il 1990 lei entra in contatto con l’universo della psicopatologia clinica. In particolare, da giovane medico, incontra lo psichiatra romano Bruno Callieri, che l’aiuta a guardare senza pregiudizi alle confluenze naturali tra discipline, in apparenza distanti tra loro, come l’antropologia e la psicopatologia. Come lei stesso ha ricordato altrove, furono proprio i racconti dei dialoghi di Callieri con Ernesto de Martino (il grande etnologo napoletano) a spingerla a indagare le grammatiche di quei fenomeni corpi-cultura inscritti nella cifra del rito e restituiti alla storia nella cornice della comunità.

Un tempo indimenticabile e, ahimé, irripetibile! I suoi racconti mi aiutarono a risalire le correnti della mia memoria, riportandomi a immagini e narrazioni di culture contadine meridionali non ancora addomesticate dallo spirito di un tempo che piega corpi e idee ai propri fini; e che, ancora oggi, rappresentano una estrema, vitale linea di resistenza e, insieme, una bellissima possibilità per la riconquista di una presenza al mondo. Aver respirato, in anni giovanili, idee libere, raffinate e colte, entro atmosfere epistemologiche anarchiche e meticciati metodologici, rappresentò per me un formidabile strumento di confronto con saperi (l’antropologia e la psicopatologia) apparentemente distanti e, tuttavia, accomunati da profonde solidarietà. L’attraversamento di quei territori segnati da pathos e sofferenza mi mostrarono il singolare farsi della storia individuale come presenza-al-mondo, come essere-nel-mondo e, inevitabilmente, oltre-il mondo. Di più, mi dischiusero le dimensioni trascendenti del ‘religioso’: quegli spazi in interiore homine, che sono insieme sorgenti primarie di significato e spazi originari di relazione con l’altro, la cui riscoperta appare tanto più importante in un tempo come il nostro in cui, in tutta evidenza, il sentire dal di dentro si è esteriorizzato e il sentire dal di fuori si è estraniato dal mondo della vita.

In un altro libro dal titolo “Da mesma matéria que os sonhos”, uscito per ora solo in lingua portoghese, lei afferma che “lo spostamento del desiderio verso l’immateriale segna una radicale cesura storica. Si ha l’impressione che, più che luogo del vivere, il mondo sia diventato un territorio di esperienze slegate dal sentire”. Ci aiuti a capire.

Vede, in questo formidabile processo di rarefazione delle relazioni che stiamo vivendo, i corpi somigliano sempre più a inedite espressioni biopolitiche. Il linguaggio stesso sembra travolto da un convulso fluire di eventi e cose, ormai incapace di farsi carico di una realtà lacerata, smagliata, bucata; una realtà incapace di descrivere l’ombra che tutti noi siamo diventati e di raccontare la scena dove siamo tutti attori e spettatori di un dramma cui nemmeno la scienza è estranea. Nulla sembra più in grado di esprimere la realtà come è. Le cose non stanno più al loro posto e il linguaggio non sa come raccontarle.

A partire dagli anni ’50, Callieri prova ad esplorare quelle zone chiaroscurali di intersezione tra natura e senso, corpi e mondi. Parole come ‘corpo’, ‘esistenza’ e ‘mondo’ divengono concetti che, via via, si congedano dalle mediazioni analitico-discorsive e metalinguaggi logico-formali per divenire elementi chiave di un progetto di una psicopatologia antropologica, che diverrà per oltre mezzo secolo fonte inesauribile di interpretazione per studiosi di differenti discipline.

Sì, mi viene da pensare, per connessioni solo apparentemente misteriose, alle ricerche di Callieri sull’incipit schizofrenico e, più in generale, sulle psicosi iniziali (“disposizione d’animo delirante”, “esperienza di fine del mondo” ed altro ancora), che divengono gli strumenti per descrivere, ben oltre la psicopatologia, la dissoluzione di quei continenti simbolici di significato che tengono insieme vissuto e relazioni, nell’evidenza naturale dei loro significati. Inoltrandosi nei meandri della psicosi, Callieri ha mostrato come l’alterazione dei significati del mondo, soprattutto nella loro dimensione temporale, contrassegni profondamente la struttura dell’esistenza: là, dove i limiti tra Io e mondo diventano indistinti e ogni cosa assume caratteri estranianti, enigmatici. In queste terre di confine, la normale atmosfera del mondo è minacciata da sensazioni di sortilegio, da incubi e incantesimi sinistri. Come se l’ordinato essere al mondo — che assegna significati univoci alle cose — fosse oggetto di una metamorfosi che trasforma l’esperienza più ovvia in qualcosa di sconcertante. Qui, come qualcuno ha detto, niente ha più senso perché tutto può avere un senso. Lo stesso linguaggio diviene una cifra intraducibile e ogni gesto rappresenta un tentativo di radicarsi in un qualche senso condiviso, di arginare un’angoscia estrema, prima del rarefarsi delle cose, prima che il mondo finisca.
           

Eccoci al tema della fine del mondo, oggetto privilegiato e trasversale della riflessione psicopatologica, che investe i territori dell’etnologia, della storia delle religioni, della filosofia e della letteratura contemporanea, lambendo le questioni radicali del senso dell’uomo e delle sue determinazione culturali.

In La fine del mondo, opera fondamentale (e incompiuta), Ernesto de Martino annota: «(…) il mondo “può” finire: ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo (…) il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza, deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta». In realtà, già da Il mondo magico, la riflessione dell’antropologo napoletano si snoda attraverso la crisi di un Io e di un mondo che slittano nel non senso e nel nichilismo. Con La fine del mondo (progetto editoriale che de Martino intendeva realizzare con Callieri per Einaudi), la crisi assume i caratteri della “perdita del mondo”. Secondo de Martino, l’uomo d’Occidente, dopo aver smarrito Dio, simboli e valori ad esso connessi, ha perduto anche l’energia per superare la crisi, trascinandosi in esperienze la cui cifra è il non-senso. I segni di questa “crisi senza éschaton” sono tutti interni al crollo dei valori della civiltà borghese: la crisi nella letteratura, nella poesia, nella pittura, nella musica, nella filosofia e nella vita etico-politica dell’occidente rispecchia la frattura con la teologia della storia e con il senso che ne derivava. Diventa, cioè, non una sollecitazione per una nuova interpretazione del caos, ma una caduta abissale, senza ritorno e, per converso, l’idolatria del contingente, di quel che è privo di senso.

Forse si può dire che, sebbene de Martino colga nell’apocalisse moderna l’esito di un processo che ha a che fare con le apocalissi psicopatologiche, il dramma dell’apocalisse cristiana, i movimenti di decolonizzazione dei paesi in via di sviluppo e l’apocalisse marxiana, l’antropologo vede nella crisi contemporanea la possibilità di un’analisi da operare attraverso il metodo dell’esistenzialismo.

Non vi è dubbio. In questo ambito furono tanti i suoi interlocutori: da Jaspers a Heidegger, da Kierkegaard a Scheler. Una grande famiglia di spiriti elevati che provarono a trovare altre vie alla presunzione fatale della ragione per rimettersi in cammino verso la verità. Ad esempio, i sentimenti dell’assurdo, lo spaesamento, lo sradicamento, che incombono minacciosi sull’intera civiltà occidentale, appaiono evidenti nella mutata percezione degli oggetti, così spesso vuoti, in un mondo fatuo, inconsistente e, tuttavia, permeato di una miriade di significati caotici, indecifrabili e distruttivi. Sostiene de Martino che la catastrofe del mondano non è un modo di essere al mondo, ma una minaccia permanente, a volte dominata e risolta, a volte trionfante.

La domanda posta da de Martino riguarda il modo in cui l’uomo debba e possa stare al mondo.

In realtà, sono i modi di essere al mondo a spingerlo a credere nell’esistenza di un principio, inderivabile a priori, che pone l’uomo all’origine di ogni forma di trascendenza. Ascolti cosa dice de Martino: «l’ethos del trascendimento è il compito primordiale e inderivabile che appunto fa passare dall’ordine della vitalità a quello dell’umanità cioè della valorizzazione intersoggettiva della vita. La vita come tale è incapace di prender distanza da se stessa oltrepassandosi nella cultura: l’energia oltrepassante che fonda l’umanità è quindi un élan moral primordiale, senza del quale la stessa base vitale, i singoli in quanto corpi, non potrebbero esistere indenni come singoli corpi umani». Come non pensare alle riflessioni di Jung sulla “funzione trascendente”, che unifica i contenuti coscienti e inconsci? O alle asimmetrie tra coscienza e inconscio, ordinariamente accomunate dalle medesime esperienze, ma sovente all’origine di contrapposizioni e conflitti, con il rischio che le tensioni assumano le forme di un disturbo psichico? Si tratta di un fenomeno che richiama molto lo sviluppo culturale del mondo occidentale. Più in generale, è il rapporto della coscienza dell’uomo con la propria sfera istintuale, per così dire con il proprio sottosuolo, ad esser divenuto molto problematico. Non è implausibile pensare che il conflitto tra queste due istanze abbia provocato una sorta di “introversione della libido” attraverso cui istanze inconsce si manifestano con dinamiche nevrotiche e, a certi gradi, attraverso sintomi e sindromi psicopatologici.

In un libro di anni fa, l’antropologo Riccardo Di Donato ha sostenuto che se, in una prima fase l’ethos demartiniano del trascendimento rappresenta l’energia valorizzante che interviene nei momenti critici dell’esistenza, in La fine del mondo le cose divengono più complesse. Non si tratta più di una risorsa cui attingere occasionalmente per ripristinare una presenza a rischio di perdersi: l’ethos è un movimento trascendente costante che struttura l’individuo, la sua modalità di stare al mondo che è, al tempo stesso, un oltrepassamento della vita che consente un radicamento (e un modo di guardare) al mondo come dimora.

Tema sensibile e complesso, che ho trattato in un saggio di un volume edito anni fa da Guida, curato con eleganza e lucidità da Bruna Baldacconi e Pierangela di Lucchio. Direi che, sebbene in modo controverso, l’ethos postulato da de Martino è interamente trascendentale. Costituisce, cioè, un apriori che consente all’uomo di costruire il mondo in ogni istante, disfarlo e ricostruirlo nuovamente. É evidente, però, che un ethos dai connotati storico-culturali smette di essere trascendentale. Questa è la contraddizione che chiarisce la tendenza dell’antropologo ad oscillare tra una sorta di trascendentalismo e uno storicismo radicale.

La crisi della presenza e la destoricizzazione mitico-rituale hanno rappresentato un fecondo terreno d’interesse anche per gli storici delle religioni.

Ad esplorare il substrato religioso, le matrici teoriche del sacro e del simbolo, del rito e del mito, in particolare l’immaginario più arcaico delle civiltà mediterranee (cerimonie, credenze, superstizioni), per comprendere il modo in cui la memoria arcaica riesce a sopravvivere e a difendere il proprio senso in un’epoca tecno-razionale, fu l’antropologo Alfonso Maria Di Nola. Fu lui a mettere in luce la forza e l’influenza dei valori delle società contadine sulla civiltà urbana, chiarendo come elementi del sottosuolo della civiltà (demoni, stregonerie, riti propiziatori), che si credevano dissolti nella impetuosa razionalizzazione del nuovo tecnoevo, siano riemersi, diffondendosi nella forma della magia e dell’occultismo, proprio nel cuore dell’Occidente.

Secondo di Nola, la credulità ingenua, la fantasia fervida, la reiterazione ludica del magico nella cultura contadina rappresentano elementi tipici delle credenze, dei miti e, in generale, di quel singolare quanto misterioso fenomeno del rapporto che il popolo meridionale intrattiene con il tempo.

A dispetto delle rapide metamorfosi del moderno, questi elementi hanno resistito alle sorti magnifiche e progressive della ‘storia’. Questa domanda di religiosità e di senso, questo bisogno di rivisitazione dei miti, come recupero di un’identità umana perduta o frammentata, questo riattingere alle radici, chiede altre vie per esprimersi. Al processo di dis-locazione e de-situazione dell’identità, a questa epocale eclissi dell’Io si può solo tentare, mi disse un giorno Di Nola, di rispondere con il «tempo della presenza». Naturalmente l’eliminazione della frontiera che delimitava il transito, tra noto e ignoto, tra consueto e inconsueto, apre a derive senza fine. L’abisso che si schiude davanti a chi non ha più neppure un luogo dove rimettere insieme i frammenti scuciti della propria identità, del proprio nome, del proprio Io, rende impensabili ancoraggi saldi, schermi protettivi di un mondo ordinato, così come lo abbiamo sin qui conosciuto. Ma forse è proprio questa la sfida, per molti versi affascinante, che abbiamo davanti.

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