L’esperienza dell’improvvisazione musicale: il corpo, la mente e i sensi

Introduzione
di Nelson Mauro Maldonato

Ogni creazione sorge dal mistero: epifanie, rivelazioni, immagini inedite che appaiono e scompaiono nelle frange di interferenza tra coscienza e inconscio; bagliori istantanei che tentano una via tra rappresentazioni effimere e oscure, tra adombramenti e inquietudini della coscienza, ai limiti del pensiero e del senso, della meraviglia e della sorpresa, dell’ordine e della bellezza. Una creazione è anche (e forse soprattutto) un viaggio tra assenze, asimmetrie, realtà nascoste: un lavorìo di opposizione e risoluzione che apre il campo in(de)finito dell’esperienza. Come quando, nel gioco sublime ed enigmatico dell’improvvisazione musicale, un performer si affida alla spontaneità della composizione, alla creazione di armonie, melodie e ritmi in tempo reale, a partire da un’idea musicale. Invenzione pura, ma non al buio.

Nel breve e affascinante saggio che qui presentiamo, Francesco D’Errico ci parla in prima persona di quella originalissima forma di vita che è il jazz: della messa in scena del tempo, dell’urgenza performativa di gesti e suoni, di un pensiero corporeo che si incarna in ritmi, dissonanze, insight estetici imprevisti e imprevedibili. La sua delicata narrazione evidenzia come l’improvvisazione costituisca l’obiezione vivente ad ogni sostanzializzazione dell’Io, su cui pure crediamo di esercitare piena sovranità: che è, invece, un’astrazione pullulante di sensazioni, pensieri e memorie, continuamente potenziata da nuove esperienze sensoriali e informazioni corporee. A pensare (e suonare), sembra dirci D’Errico, è l’organismo intero. Tutto il corpo prende parte al pensiero, al sentimento, alla volontà, attraverso dinamiche di assimilazione e rifiuto che definiscono la libertà espressiva dell’Io. Senza questo lavoro di sgombero sarebbe impossibile dar voce a zone interiori invisibili e impensate. Forse anche per questo un musicista, nel corso di una performance, pur cominciando con motivi previsti, li abbandonerà presto. Perdendosi. Togliendo di mezzo. Facendo vuoto, per diventare se stesso. Congedandosi dal pensiero razionale, intralcio all’emergere di forze e conoscenze autonome e disperse provenienti da memorie antichissime e inconsapevoli. In questo senso, se esiste in noi una forma di unità, questa non poggia sull’Io consapevole, sul sentimento, sulla volontà e sul pensiero, ma sulla capacità del corpo di ricordare, decidere, anticipare, inventare. L’Io è solo uno strumento di tali processi, una sintesi concettuale di altre identità immaginarie, una rappresentazione di quel che accade nelle nostre strutture nervose.

Ogni performer maturo, sembra dirci D’Errico sulla base della sua lunga ricerca, alla stregua di un esploratore dell’ignoto, spera che tra intuizione e suono si realizzi una reciproca conversione; che anticipazioni e intuizioni si trasfigurino in note, armonie e altre narrazioni privilegiate; che il fuoco sacro dell’ispirazione illumini le potenze rivelatrici del suo abisso interiore. Nel gioco a dadi con la durata, che infutura vita e idee fino ai limiti dell’inesprimibile, si manifesta l’imprevedibilmente altro di ogni performer. Così, da verità ‘oggettiva’ il presente si trasforma in un personalissimo atto di libertà, in cui ogni frase, ogni armonia è sottoposta a una destabilizzante intemporalità. Anche per questo l’improvvisazione non è una proprietà del tempo, ma un movimento nel tempo, ove pause e dissonanze, citazioni e riprese della frase, cambi di accordi e di misura, testimoniano lo sforzo di conquista e riconquista di sé e del tempo, al termine del quale occorre ritrovarsi. In questa infinita conversazione, il rapimento fa da contrappunto al rischio. Perché improvvisare è un atto di pura audacia e, insieme, di profonda interiorità, in cui si leggono, spinte all’eccesso, le tensioni che l’artista deve affrontare, tra la pura ricerca artistica e la necessità di ridefinirsi sul piano individuale e pubblico. I nuclei nella sua interiorità sono materiali da liberare e trasformare. In questa audace sfida con il suo cervello egli spera, più di qualsiasi cosa, che nulla interferisca con il movimento delle sue mani, con le molteplici rappresentazioni e suggestioni che attraversano fugaci la sua coscienza.

L’esperienza dell’improvvisazione musicale: Il corpo, la mente, e i sensi
di Francesco D’Errico

L’esperienza dell’improvvisazione musicale mi coinvolge sotto molti aspetti e, tutte le volte che mi confronto con questa pratica, essa mi riconduce inevitabilmente al mio essere corpo; all’esperienza viva e presente delle diverse declinazioni del mio proprio corpo: per come queste esperienze mi si presentano d’innanzi, per come esse attraversano i miei canali sensoriali, li svegliano. Come ci ricorda Michela Marzano “(…) è sempre il corpo che ci permette di “assaporare” il mondo e di abitarlo, di provare emozioni e passioni, di incontrare e conoscere gli altri” (Marzano, 2010, p.103).

In questo breve scritto cercherò di condividere e descrivere i momenti, i segmenti che segnano il mio personale modo di vivere l’improvvisazione, il partecipare dei gesti, delle idee e delle emozioni che producono gli oggetti sonori dell’improvvisazione e il desiderio, il piacere di condividere tali oggetti e di scoprirli nel loro divenire. Credo che i miei primi passi nel mondo della musica, la prima fascinazione che ho subito per essa, mi sembra ancora di poterla sentire, ha avuto certamente a che fare con il mio piacere per la motricità, il piacere del mio corpo in movimento. Piacere che mi accompagna sin da piccolissimo. Ho iniziato a camminare prestissimo, a soli nove mesi già correvo e mia madre mi raccontava della sua ansia quando, nel bel mezzo degli attraversamenti stradali sulle strisce pedonali, con me di appena un anno in carrozzina, poteva capitare che io decidessi improvvisamente di alzarmi in piedi e, attaccato con entrambe le mani al corrimano, iniziavo così a dondolare rapidamente sulle gambe con una certa energia. Io ero visibilmente eccitato da questo andamento periodico che metteva in movimento tutto il carrozzino. Evidentemente per mia madre invece era una notevole preoccupazione dovendo la poveretta, in tali condizioni, evitare il traffico cittadino! Eppure io ridevo. Credo che questa gioia non fosse determinata solo dal mio movimento ma anche dall’incontrarsi di questo con quello delle auto e dei passanti tutt’intorno che rapidamente si muovevano. Insomma, all’improvviso uno spettacolo! Ovviamente non ho un ricordo personale di questa esperienza di questo mio comportamento, ma credo di non sbagliare dicendo che quel gesto non aveva nulla a che fare con un qualche significato “altro”, ad esempio il desiderio di mettere in allarme mia madre. Probabilmente, invece, mi meravigliavo della sua preoccupazione. Forse mi aspettavo e desideravo, con una naturale incoscienza, che si divertisse anche lei. Quel piacere esiste ancora in me e ha a che fare con la percezione periodica e multipla del mio essere corpo in movimento e, dunque, in movimento casuale o sincrono tra altri corpi. Credo che la memoria di questo piacere e il desiderio di riprodurlo in tempo reale e di condividerlo sia tra i moventi principali, i quali hanno acceso in me la curiosità per le musiche d’improvvisazione, con particolare proiezione, naturalmente, verso le musiche afroamericane, proprio per il complesso contenuto metrico ritmico e poliritmico da esse veicolato.

Vorrei cominciare con il parlarvi dei miei piedi e delle molte cose che con questi compio mentre suono. In primo luogo, complici con il mio fondoschiena, contribuiscono al mio equilibrio permettendo così, in primo luogo, i liberi movimenti del busto. Così posso avvicinarmi più liberamente e con senso di solidità alla tastiera, spostarmi di lato verso i tasti dedicati via via ai suoni acuti, verso sinistra o verso i bassi a destra. Insomma, con tre punti di appoggio, i due piedi a terra appunto e il fondoschiena sullo sgabello, posso raggiungere un buon equilibrio tra il peso del mio busto in movimento e la forza di gravità. Comprendere e sentire questo, per noi pianisti, è molto importante: permette che il flusso delle idee musicali, le emozioni che le alimentano e le sostengono, si trasformino in movimento, diventino corpo attraverso l’equilibrio fisico. Infatti, tra movimento e gravità, coinvolgono le braccia le dita nel gesto finale della produzione del suono alla tastiera. Ma torniamo ancora un momento ai piedi. Con essi, inoltre, gestisco i tre pedali d’espressione posti al centro della tastiera in basso, quasi a terra. Non voglio qui entrare nel dettaglio di cosa un pianista può fare con un uso ricco e creativo dei pedali, ma mi piacerebbe cercare di condividere una sensazione assai speciale propria del loro uso. I pedali determinano in parte la durata specifica dei suoni, il loro mescolarsi, la possibilità di intensificare o meno il volume percepito. Quello che è interessante è il fatto che i miei piedi dialogano costantemente con il mio immaginario sonoro. Con il movimento dei piedi sul pavimento, con lo schiacciare o meno i pedali d’espressione, sentirne la resistenza, con tutto ciò si tiene costantemente aperto un canale di comunicazione con il mio udito e, cosa più importante, con l’idea di suono che va formandosi nella mia testa. Dunque, proprio questo suono, peraltro, proprio in virtù di tale dialogo, per così dire corporale, viene continuamente a trasformarsi anche a causa dei miei piedi. Non male no? Infatti, l’uso dei pedali è pressoché continuo ed implica movimenti delicati, spostamento del peso, rilasci, pressioni, insomma tutta una gamma di coinvolgimenti fisici per niente secondari. Insieme alla percezione dell’equilibrio, proprio questi movimenti non solo partecipano alla qualità del suono, ma anche al sentire ritmico e intendo proprio lo scandire metrico. Attraverso i piedi tutto il corpo è sospeso e spinto nella dimensione fluttuante degli andamenti metrici. Lo spostamento del peso del corpo, il sostegno stesso di quel peso, tutto ciò viene ad intrecciarsi costantemente con la percezione pulsante del tempo che spesso viene finanche espressa, per così dire declamata, dal movimento dei piedi. In altre parole, il piede non solo scandisce il tempo, come è immediatamente intuibile e anche visibile, ma suona per così dire una linea metrica tutta sua, che dialoga costantemente con quelle suonate dalle dita, determinando così anche scelte estetiche e ritmiche delle frasi che via via prendono corpo attraverso le dita e la vibrazione finale delle corde. Insomma, specie nelle pratiche improvvisative, non si fa poco con i piedi.

I miei occhi quando mi siedo al pianoforte partecipano a molte diverse attività. Con essi osservo la tastiera, le mie mani, naturalmente gli altri musicisti, se necessario la partitura e più estesamente lo spazio che circonda in quel momento la performance. Con un solo sguardo si può condividere una direzione musicale da intraprendere, evitare un errore, indicare una via diversa. Inoltre, una parte notevole della trasmissione emotiva, le condivisioni di quegli stati emozionali interni, viene certamente colta e trasmessa con gli occhi: con il loro movimento, con l’incrocio stesso delle occhiate, talvolta preoccupate, ammiccanti, complici. Insomma, la percezione visiva è sempre al centro del sentire musicale. Al centro del dialogo tra musicisti proprio dell’improvvisazione. Ne registra costantemente l’andamento, il flusso. Devo dire che spesso può accadere che questo canale, la percezione visiva, venga esclusa. Avviene quando ci si concentra in quei luoghi in cui si privilegia l’ascolto e la percezione tattile, sensitiva della musica. Quasi come per ritrovarsi in uno spazio interno più raccolto. Vorrei, per un momento, fare una piccola ma utile digressione e porre l’attenzione sul fatto che ciascuno di noi è come se fosse costantemente al centro di cinque sfere sensoriali, poste l’una dentro l’altra. Quella più ampia è proprio quella della vista. Direi quella più estroversa, che ci permette di percepire finanche stelle lontane anni luce; poi la sfera dell’udito, più piccola e vicina al nostro centro, che però può arrivare anche a chilometri di distanza; ancora, quella dell’olfatto che arriva ad alcune decine di metri; il tatto che circonda tutto il nostro corpo, coincide con la sua superficie, ne traccia proprio il confine esterno; ed infine il gusto, questo è addirittura interno, è presente solo nella bocca. Le cinque sfere dialogano sempre tra loro, accolgono il mondo e, in un certo senso ne permettono il controllo.

Dunque, dicevo che quando talvolta si esclude la vista mentre si suona, probabilmente è per esprimere un gesto di raccoglimento, quando sembra essere necessario porre il focus su qualcosa di molto specifico. A me capita spesso, e devo dire che questa modalità d’agire, di escludere la vista, mi sembra che implichi anche un abbassamento di difese in altre direzioni, una notevole riduzione delle capacità di controllo sull’esterno appunto. In altre parole i momenti di raccoglimento, se da un lato permettono di essere più coinvolti su specifici dettagli, dall’altro aprono ad una certa vulnerabilità. Questo, invero, mi sembra che implichi una certa forma di creatività; anzi, ogni abbassamento di difese è ad essa fortemente necessario. Infatti, rinunciare ad una certa parte del controllo per lasciare convergere energie ed attenzione su dettagli specifici crea spazi, così da permettere l’insorgenza di idee nuove. In altre parole, mi sembra di poter dire che la creatività implica costantemente l’accettazione di una qualche forma di rischio. Vorrei qui aggiungere per quanto concerne l’attività visiva, intesa nel suo partecipare a tutte le attività corporee atte al suonare, che proprio il vedere, l’essere vigile nel mettere a fuoco punti precisi, ha molto a che vedere con l’equilibrio. E qui si crea un asse prezioso di comunicazione tra la vista e il movimento dei piedi di cui ho detto più sopra. Infatti, e questo i pescatori lo sanno assai bene, se si è in un posto dal fondo instabile, una barca appunto, o anche, e di questo possiamo farne tutti esperienza, in metropolitana ad esempio, dunque se mi trovo in uno stato in cui sarebbe necessario reggersi per non perdere l’equilibrio e decido invece – per necessità (i pescatori devono avere le mani libere per manovrare lenze e reti ad esempio), o semplicemente per provare – a non farlo, lo sguardo ben a fuoco su qualcosa, insieme alle ginocchia appena flesse e morbide, mi aiutano non poco a non perdere l’equilibrio complessivo. Infatti, proprio lo sguardo a fuoco, ed è anche di questo che intendo quando parlo di vigilanza, aiuta molto la stabilità e l’equilibrio del corpo, molto più che lo sguardo fisso nel vuoto. La vista infatti dialoga proprio con quella funzione del padiglione auricolare che governa il senso di equilibrio. Sembra quasi che si possa percepire una sorta di danza assai speciale simile a quella descritta da Giorgio Agamben nel suo Ninfe: “La danza è, dunque, per Domenichino, essenzialmente un’operazione condotta sulla memoria, una composizione dei fantasmi in una serie temporalmente e spazialmente ordinata. Il vero luogo del danzatore non è nel corpo e nel suo movimento bensì nell’immagine […] come pausa non immobile, ma carica, insieme, di memoria e di energia dinamica” (Agamben, 2007, p.14). Nelle prassi improvvisative delle pratiche musicali, l’attività e la percezione stessa dell’equilibrio accolgono al loro interno molti piani, quello del corpo in movimento appunto, ma anche altri equilibri più sottili apparentemente propri della sfera cognitiva come l’equilibrio tra scrittura e improvvisazione o anche l’equilibrio interno tra i materiali da scegliere in tempo reale. Infatti, sempre tutte queste scelte sono espresse dal movimento del corpo di ciascun musicista. In altre parole, mentre si improvvisa, il gioco dettato dall’equilibrio del corpo è sempre in relazione con le idee. Direi che quasi i due piani vanno sovrapponendosi. Direi che la pratica della consapevolezza vigile porterebbe proprio a sostenere che l’equilibrio del corpo e quello tra le idee le conoscenze in uso in un determinato momento, un frammento temporale, sembrerebbero essere una cosa sola. Può sembrare strano ma questa mi sembra proprio essere la percezione che dell’equilibrio vive un musicista nell’atto del suonare. Per ciò che riguarda l’olfatto e il gusto credo che, quando si suona, questi due sensi, l’esperienza di questi due canali sensoriali, emergono in forma immediatamente allegorica alimentando lo slittamento tra piani diversi. Infatti, dico di immaginare il sapore di un accordo, il profumo di un passaggio armonico. Ma di questi, ovviamente, non ne sto facendo esattamente esperienza sensoriale come per una rosa o per uno spicchio d’arancia. Piuttosto rimando ad una sfera associativa ed insieme evocativa di sensazioni emotive che per assonanza rimandano al racconto dell’olfatto o del sapore. Qui il corpo dei sensi dialoga con quello emotivo. Ma su questo aspetto, su come il corpo emotivo e quello dei sensi si incontrano, e su quanto il dialogo tra queste due sfere sia così importante nell’esperienza musicale, tornerò più avanti.  

Il tatto. Ecco il tatto. Ogni strumentista tocca il proprio strumento, ne sente le vibrazioni. Questo in fondo avviene anche per la voce, anzi forse ancora più in profondità. Dicevo la vibrazione del proprio strumento in relazione a ciò che si sta suonando. Ancora la percezione tattile degli spostamenti propri dello strumento: i tasti del pianoforte che affondano, ed in fine interrompono la loro corsa nel dare elasticità e movimento percussivo al martelletto che percuotendo la corda genera la nota. Tutto questo in tempi brevissimi. Il contatto diventa, nella percezione di chi sta suonando, appunto suono, frammento melodico, armonico, il contatto diventa immediatamente corpo ritmico. Quel contatto è riverberato non solo nelle dita ma nelle braccia, nel busto. Ancora modifica il mio equilibrio fisico, mi rimanda nuove informazioni che aiutano a determinare ciò che seguirà, sia nel movimento che nella costruzione propriamente musicale a venire. Complici del tatto, e in un certo senso ne determinano la consapevolezza, per noi pianisti sono tutti quei movimenti muscolari che ci permettono di articolare le dita. E proprio con le dita che ciascun pianista ha l’ultimo e definitivo contatto con la tastiera, con la produzione del suono. Tocco il tasto, così la punta delle mie dita non solo vengono dirette in caduta dall’uso della gravità, che si fa forte anche del peso del braccio, non solo esse vengono articolate come piccole leve nella giuntura all’altezza della falange, ma, e questo è assai interessante, proprio un attimo prima di toccare il tasto, ciascun dito esprime un piccolo ed impercettibile movimento di presa. Come se con le mani ci si volesse aggrappare impercettibilmente alla tastiera, o quantomeno promuoverne il gesto. Almeno questo è quello che capita a me e ad alcuni altri pianisti vicini a certe scuole pianistiche dell’est europeo, probabilmente legate alle tradizioni tracciate da Chopin. Ed è proprio questo piccolissimo movimento, veloce quanto preciso, che, in un certo senso, contribuisce largamente a determinare l’accensione e il piacere del tatto nella produzione del suono. La vigilanza sul tatto diventa specchio dell’udito. E ancora l’idea e l’esperienza insieme, così descritte, dell’aggrapparsi al tasto gioca il suo ruolo nuovamente insieme all’equilibrio, dunque dialogando con la vista e la percezione della gravità, determina i nostri movimenti, sottolinea la percezione del corpo, ci rende vigili del corpo fisico e di quello sonoro.

Non mi stanco mai abbastanza di ricordare a me stesso ed ai miei allievi che la musica, per così dire, è fatta per le orecchie e, dunque per l’udito. Come scrive Jankélévitch: “(…) la musica non è una calligrafia proiettata nello spazio, ma un’esperienza vissuta direttamente dalla vita stessa. E ciò non equivale a ricordare, molto semplicemente, che essa si rivolge a quell’organo chiamato orecchio?” (Jankélévitch, 1985, p.129). Il flusso d’informazioni acustiche ci circonda incessantemente, di giorno di notte, mentre parliamo, mentre suoniamo. Se è possibile chiudere gli occhi, non vedere, è pressoché impossibile esercitare una precisa volontà sensoriale sul non ascoltare. Se questo è vero nella data quotidianità di ciascuno, immaginiamo quanto l’udito, la sua esperienza conti nelle prassi musicali, quanto sia centrale per un musicista. Sembra scontato, e in fondo lo è, ma se spostiamo l’accento su come questo senso assume il suo essere corpo – come l’udito è specchio, proiezione di una parte di esso, del corpo appunto, come in esso si incarna, e come questo determina l’essere musicista – allora il fatto che l’udito possa essere dato come già assunto e determinato nella creatività della pratica musicale non ci appare più così scontato. Cosa e quanto ascolto mentre suono? E ancora, specie nelle pratiche dell’improvvisazione musicale, nonché nell’interpretazione, quando il mio corpo, i miei piedi, la mia vista, il mio tatto, quando tutto ciò costantemente ha a che fare con la gravità e il peso, quando tutto questo accade? Qual è il posto del mio ascoltare, dell’ascoltare attimo dopo attimo? Credo che in primo luogo proprio l’udito, la codifica di questa esperienza, il fatto che essa ci attraversi, determini in percentuale assai alta la nostra intima percezione dello scorrere del tempo. Inoltre, proprio l’ascoltare, porre l’attenzione e la vigilanza sugli oggetti sonori, dunque proprio quando l’attività legata all’udito stringe alleanze con il movimento muscolare, con il tatto essa aiuta a formare immagini interne del periodare cadenzante degli eventi fino ridefinirle, e questa volta verso l’esterno, in forma condivisa, in successioni temporali che possono determinare andamenti aspettative acustiche ritmiche, timbriche, armoniche. In altre parole, il corpo in ascolto esperisce il proprio costante essere transito e l’esperienza musicale ne è testimonianza. Dunque, l’ascolto è una particolare prospettiva contenitiva del fatto che gli eventi ci appaiono uno dopo l’altro o in simultanea. In tal senso un musicista attento ascolta altezze, dinamiche, timbri, silenzi più o meno estesi, cioè ascolta oggetti sonori, e di essi fa esperienza con l’intero corpo, ne assume il peso e la sostanza specie cogliendo l’espressione e l’esperienza interna dell’elasticità del vissuto temporale. Nella prassi musicale concreta, specialmente nelle pratiche dell’improvvisazione musicale mi piacerebbe qui distingue almeno due momenti dell’ascolto di chi fa musica: l’ascolto della musica prodotta in prima persona e l’ascolto della musica prodotta dagli altri musicisti con cui si sta suonando. Prenderei qui, ad esempio, poiché particolarmente vicino alla mia esperienza, il trio jazz per antonomasia: pianoforte, contrabbasso e batteria. Tre musicisti, tre corpi in ascolto e reattivi ai reciproci stimoli. Vorrei qui distinguere tre pratiche musicali distinte per meglio cogliere e condividere con il lettore, l’esperienza dell’ascolto di oggetti sonori auto prodotti e l’ascolto di quelli prodotti dagli altri musicisti e come questi ascolti possono convivere e ben alimentarsi reciprocamente.

La prima pratica è legata a oggetti sonori prevalentemente normati, come ad esempio un tema noto a tutti i musicisti che fanno parte all’esecuzione. La melodia di una canzone di repertorio, cioè un oggetto sonoro che contiene in sé un alto grado di prevedibilità comune ai tre esecutori. La seconda pratica è, invece, legata ad aspettative sonore normate con un grado di variabilità assai più ampie. Ad esempio, quella dell’improvvisazione su di un percorso armonico noto e condiviso. Qui è come se ogni musicista partecipasse ad’imprevedibili combinazioni, ma all’interno di un gioco del quale si condividono le regole e i ruoli. Infine, la pratica della composizione estemporanea o della libera improvvisazione. Ovvero luoghi e oggetti sonori, non sottoposti a norme specifiche, ma eventi acustici che via via si squadernano innanzi a coloro i quali li hanno prodotti. Oggetti sonori che determinano il proprio esserci e il proprio significato, anche eventualmente quello normativo, in itinere. Vorrei adesso provare a condividere e a descrivere, per quanto mi riesce, le differenti attività di ascolto proprie di queste tre pratiche che ciascun musicista mette in opera, sia per ciò che produce in prima persona, che per gli oggetti sonori che gli vengono offerti dagli altri musicisti. L’ascolto di oggetti sonori conosciuti e condivisi è tra quelli maggiormente confortevoli. Credo che accomuni particolarmente i diversi esecutori (probabilmente anche gli ascoltatori intesi come pubblico): è come se i tre corpi, i tre musicisti, convergessero particolarmente nella condivisione dell’esperienza stessa di quello stesso oggetto sonoro noto, quella melodia data. Si cerca, sebbene ciascuno nel proprio distinto compito strumentale, di camminare sullo stesso sentiero, ben consapevoli del punto di partenza e di arrivo; e si cerca di farlo, pur accogliendo differenti sfumature, ad esempio di stile. Lo si fa in modo coerente, ad esempio, a una determinata tradizione interpretativa. Insomma, si formalizza uno stare insieme proprio perché il materiale musicale che si sta percorrendo è ben definito e non riserva particolari sorprese. In questo caso l’ascolto di ciò che si produce in prima persona e l’ascolto della musica prodotta dagli altri musicisti, mi sembra di poter dire, che si assomiglia, in un certo senso converge. Proprio per questo però è sempre necessaria una particolare e alta presenza di sé, un’attenta vigilanza. Infatti, la propria presenza attiva e intensa non va mai messa in secondo piano anche quando i materiali sono così intimamente condivisi. In altre parole, l’individuazione del proprio ruolo attivo non va mai accantonata. Quindi anche in questo caso, gli ascolti, proprio perché simili e condivisi, non possono essere superficiali, non possono concedersi tregua o distrazioni, non possono essere affidati ad altri. Essi sempre e comunque – proprio i nostri personali ascolti – sono i soli che possono informare il nostro corpo, il nostro udito, la vista, il tatto ecc. in modo da permetterci di mettere il nostro artigianato, passo dopo passo, al servizio di quella specifica esecuzione.

Ogni esperienza musicale implica l’abituarsi attivamente ad un ambiente per riuscire a muoversi al suo interno comodamente con disinvoltura e familiarità, per esploralo sempre più a fondo. così anche da riuscire a creare sorprese, ciò che è inaspettato. Una linea melodica è dunque come un ambiente, o parte di esso, un groove è un ambiente, un mood emotivo è un ambiente, un andamento è un ambiente. L’esperienza musicale, così intesa, il suonare stesso mi sembra poter essere vissuto come lo spostarsi tra gli ambienti di un luogo che si conosce bene. Un luogo, un territorio in cui non è necessario calcolare le distanze per andare da un posto ad un altro. In casa propria semplicemente si va da una stanza a un’altra, non si studia prima il percorso, la mappa. Quel luogo risulta essere tanto chiaro perché le informazioni che possiede chi lo vive sono tante e complete su tutti i piani, sia sul piano emotivo che cognitivo, affondano le proprie radici in tutti gli aspetti del nostro corpo e le si leggono in maniera vigile. La faccenda comincia ad articolarsi in modo diverso quando l’oggetto sonoro che via via si sta edificando insieme ad altri non è così prevedibile. Non è normato in modo così univoco. Ad esempio, quando in un brano, dopo l’esposizione del tema, la parte conosciuta nel suo svolgimento intero e compiuto appunto, è terminata e si passa momenti maggiormente creativi: cioè si entra in un territorio dove il gioco delle possibili varianti è si normato, ma in maniera in cui sono appunto previste trasformazioni interne al materiale dato. Qui non mi interessa di entrare nella descrizione di dispositivi e procedure tutte interne al sapere musicale, come l’uso di tonalità, funzioni armoniche o modali, trasformazioni metriche, elementi di pronuncia ecc. Quello che qui mi interessa porre è il fatto che quando le norme non determinano più la possibilità di percorrere un solo sentiero, ma si aprono a differenti prospettive – cioè prevedono possibilità di variare il percorso, e di farlo non necessariamente in maniera allineata – gli ascolti necessariamente vengono articolati in modo differente. Sia l’ascolto diretto e attento alla propria produzione sonora che l’ascolto dedicato a ciò che gli altri eseguono. Prendo una specifica via a titolo esemplificativo. Eccomi qui seduto di fronte al pianoforte, mi trovo nel momento in cui è appena terminata l’esecuzione del tema: dunque si allarga il campo d’intervento. La mia mano sinistra sta eseguendo gruppi approssimativamente definiti di più suoni simultanei, ciascuno dei quali determina, sia per sonorità che per opportunità ritmico/timbrico, l’aspettativa acustica del succedersi dei gruppi stessi. In altri termini suono i soli accordi che prima reggevano, dando lo specifico significato armonico ed estetico alla melodia appena trascorsa. La mia mano destra inizia a definire nuovi profili melodici, nuovi frammenti lineari coerenti in sé, ed in relazione con gli accordi e le loro funzioni, dunque linee melodiche nuove, ma in relazione con quei gruppi di suoni simultanei combinati dalla mano sinistra. Comunque, tutti gruppi di suoni sempre in relazione stretta con la prima melodia nota e condivisa.

Quello che entrambe le mie mani suonano è in stretta relazione, dunque partecipa di norme di movimento condivise, con i materiali che in quello stesso momento sta eseguendo il musicista che suona il contrabbasso. Dunque, il mio ascolto sarà contemporaneamente rivolto ai nuovi frammenti melodici prodotti dalla mia mano destra, alla disposizione dei gruppi di suoni simultanei, in genere tre o quattro, espressi dall’uso della sinistra e alle altezze e alla loro disposizione ritmica, cioè nel tempo, espresse dal contrabbassista. A questo va sommato un intenso dialogo, direi un asse di raccordo, con i materiali musicali espressi dal terzo musicista che sta suonando la batteria. Per semplificare individuerei tre soli elementi. Immaginate il batterista: la mano destra in alto sul piatto che scandisce suoni piuttosto brillanti e ravvicinati; la mano sinistra percuote invece un tamburo, il rullante, posto al centro della batteria tra le gambe dello stesso batterista. Con il rullante si ottiene un suono prevalentemente secco con differenti sfumature timbriche di altezza media, esso dialoga con il piatto suonato dalla mano destra. Infine con il piede destro, ed un apposito pedale, il batterista percuote il tamburo più grande della batteria, la cassa dal suono grave. Qui i colpi sono scuri e radi rispetto al rullante e al piatto. Quando suono il piano potrei orientare il mio ascolto in questa direzione: lasciare dialogare la mia mano destra con il piatto, la sinistra con il rullante ed immaginare il contrabbasso dialogare con la cassa. In altre parole, il pianoforte e il contrabbasso insieme potrebbero, ad esempio, essere posti con quegli specifici tre pezzi della batteria: piatto, rullante e cassa. Questo significa, in un certo senso, che il pianista e il contrabbassista, si specchiano nelle tre funzioni di base della batteria, diventano il riflesso della batteria e viceversa. Cioè l’ascolto dei tre musicisti, e questa è la descrizione di una tra le tante possibilità, si determina su tre assi. Questa prospettiva strumentale, questo raccordo di ascolto, inoltre, nel caso in analisi, cioè in quei momenti in cui la musica è normata secondo criteri che permettono più combinazioni, intensifica gli ascolti reciproci proprio in funzione creativa. Infatti, in un contesto così descritto, ogni musicista esercita intensamente tutto il suo artigianato tutta la propria capacità intuitiva per gestire in tempo reale tutto l’archivio a sua disposizione. Archivio fatto di norme per collegare e per costruire frasi di senso musicale, fatto di abilità esercitate a creare nuove e impreviste combinazioni. Tutto quell’archivio fatto di altri saperi musicali, come gli ascolti di altri artisti, non presenti al momento, di tradizioni diverse, di stili ecc. In questo caso, dunque l’ascolto degli oggetti sonori prodotti in prima persona, non solo possono, direi devono, creare meraviglia nello stesso soggetto che li ha prodotti, proprio perché elaborati al momento, insieme sono soggetti al dialogo che si dispiega in contatto con le idee espresse dagli altri musicisti secondo assi di dialogo che si trasformano ridefinendosi momento dopo momento pur restando in una rete di regole condivise. In altre parole, qui l’ascolto permette una sorta di dialogo, in parte inaspettato ma condotto all’interno di un gioco condiviso. Infine, se continuando a suonare si decidesse di abbandonare completamente un preciso campo di norme, cioè si decidesse che il flusso di idee musicali non fosse più sotteso da una sorta di rete di protezione che delimita il campo d’azione e si decidesse che nessun sentiero più è necessario; che in fondo non interessa più il percorso che stabilisce una direzione, ma interessa solo esplorare ed avventurarsi il più possibile in direzioni inaspettate; bene, se accade questo – e può accadere di sceglierlo – l’ascolto di sé e degli altri musicisti assume ancora una differente prospettiva. Teniamo qui come punto fermo e ad esempio l’asse tra pianoforte, contrabbasso e batteria su descritto. Cadute tutte le norme che regolano i dispositivi musicali, quali l’armonia, la regolarità di un groove, la scelta di modi o altre risoluzioni melodiche, come ad esempio aspetti della musica seriale o quant’altro. Insomma messa in opera l’esclusione di materiali prefissati e loro norme regolative, in questo caso l’ascolto assume un ruolo centrale. Diventa esso stesso norma, sia se posto al centro della ricerca creativa che se posto ai margini. Infatti, qui i materiali d’uso vanno elaborati nel modo più completo e integro possibile al momento, e pertanto l’ascolto di ciò che suono e di ciò che suonano gli altri determina in larga scala proprio gli stessi materiali e il modo in cui li suonerò. Sia se decido di essere attraversato da tali ascolti, sia se decido di ignorarli. Dinamiche, assonanze, dissonanze, profili ritmici, linee melodiche ecc.: tutto quello che ciascun musicista riesce a produrre è strettamente legato all’ascolto più che ad ogni altra cosa. A mio avviso però va detto che qualsiasi esperienza musicale, per quanto si tenti di liberarla da qualsivoglia norma, vive sempre dell’archivio di ciascun esecutore, del suo artigianato strumentale, del suo bagaglio tecnico, della sua memoria culturale, delle sue emozioni. Insomma, di tutto ciò che è comunque il suo corpo. Corpo che si muove, che sente, che pensa.

Prima di concludere, vorrei provare a scrivere ancora di due aspetti del corpo di chi fa musica. Il corpo cognitivo e ancora di più del corpo emozionale. Per corpo cognitivo intendo quella parte che ciascun musicista esercita per tutta la sua vita ad assimilare culture musicali, tecniche, tradizioni, elementi di teoria, la stessa pratica della teoria assimilata e così via. Insomma, come ho già scritto altrove (D’Errico, 2015), è la capacità di ciascun musicista di creare un proprio archivio. Mettere in ordine quante più possibili informazioni, comprenderne le relazioni ed esercitare la propria vigilanza la propria lucidità nell’abilità dell’uso, la capacità rapida e profonda di consultazione di tali materiali. Riuscire a fare di questi materiali un sapere vivo e creativo, e non un mero cumulo di nozioni immobili. Dare dinamicità al proprio sapere, evitare che le informazioni diventino un peso. Esercitare, inoltre non solo la capacità di immagazzinare informazioni, ma anche l’abilità di creare sempre nuovo spazio per prospettive rinnovate. Almeno provare a essere in linea con tutto ciò. Dunque, la conoscenza intesa come attività è una delle pratiche fondanti la creatività musicale stessa e, quando parlo di corpo cognitivo intendo proprio il corpo inteso come capacità ricettiva fatta di sensi e memoria cioè mappe neurali, fasce muscolari, apparato digerente, cardio-vascolare. Ho la precisa sensazione, e questo non solo come musicista, che la mia mente, o almeno quello che credo sia la mente, il sé, il soggettivo, la coscienza ecc., ebbene, non può mai presentarsi come in una sfera distante dal corpo. So bene che questo è oggi chiaramente assodato, ma la tentazione di lasciare slittare gli esercizi del sapere prevalentemente sul piano cognitivo, la tentazione di scindere i due piani, quello cognitivo appunto e quello del corpo, specialmente nelle pratiche della trasmissione dei saperi, come nella didattica è sempre presente. Il corpo spesso viene dimenticato, laddove è invece sempre il solo centro. Uno dei motivi per il quale amo le pratiche musicali e che questa attività non consente per sua natura questa dimenticanza.

Il corpo emotivo tende, come ovvio, a sfuggire queste righe. Eppure conduce costantemente qualsiasi procedere nel mondo. Proprio per questo e così importante sentirlo costantemente e non dimenticarsene mai. Non sottometterlo al corpo cognitivo, ma farne di questo un forte alleato. Il flusso delle emozioni dialoga, è la nostra memoria, si nutre dell’esperienza dei sensi e ad essi rimanda. Esso dà forma costantemente alle nostre espressioni. Va assolutamente accolto. Anche quando può non piacerci. Nella musica tenere questo canale aperto è d’importanza essenziale. Personalmente credo che questo mi riesca molto meno nella vita, ma se mi ritrovo ad essere musicista è probabilmente perché questo canale così raffinato, questo esercizio di ascolto così forte che è la pratica musicale, appunto, mi permette di tenere in equilibrio, nonostante tutto, il mio corpo emotivo, mi tiene in contatto con esso. Quello che dà senso, o almeno il tentativo di dare senso e forma condivisa, a ogni espressione musicale è la risonanza emotiva nella quale ciascun musicista prova costantemente a rispecchiarsi con più o meno successo. Quello che i musicologi chiamano l’indescrivibile, nelle pratiche sia dell’interpretazione che dell’improvvisazione musicale, è proprio il valore imprescindibile di una qualsiasi performance musicale. Ne detta il profilo estetico, la possibile condivisione emotiva, empatica. Senza la partecipazione del corpo emotivo, dunque ancora quelle mappe neurali che fanno di noi quello che siamo proprio mentre suoniamo; che lasciano risuonare in noi stessi quel frammento melodico, quel colore, quel sapore armonico; che permettono un moto del sentire con il suono di quella scala anziché di quell’altra. Il partecipare profondo a tutto questo, solo questa condivisione sincera, permette di riuscire a dare espressione all’indicibile, quando ci si riesce, di quello che si suona. E pertanto a trasmettere, a risuonare. Ogni oggetto sonoro, se pure lo è ineludibilmente, non è solo una frequenza, per quanto ricca e complessa, ma è sempre anche un veicolo d’informazioni assai articolate. Mi piacerebbe dire che queste informazioni veicolano dati sensibili, emotivi, culturali, teorici, cognitivi. Dunque, ciascun oggetto sonoro inevitabilmente risveglia elementi di memoria soggettiva e condivisa, e tali elementi partecipano costantemente del riflesso che lasciano cadere, proprio quegli specifici oggetti sonori, in ciascuno di noi, sia musicisti che ascoltatori.

Vorrei concludere condividendo con voi tutti il fatto curioso e buffo che di solito quando suono mi dicono essere piuttosto fermo, a tratti quasi immobile, forse appena goffo. Eppure personalmente ho la precisa sensazione del partecipare del mio corpo intero al suonare, la essenziale convinzione che il corpo sia la sola cosa che suona. Vivo la percezione che sia proprio il mio corpo il centro di tutte le esperienze possibili del fare musica. La coscienza stessa, i movimenti emotivi, le percezioni cognitive cos’altro sono se non corpo? Infatti, il movimento, dunque l’essere corpo anche nelle pratiche musicali ci permette di essere nel mondo. Come ci suggerisce Antonio Damasio “(…) noi entriamo in connessione con gli altri non soltanto attraverso le immagini visive, il linguaggio e le inferenze logiche, ma anche grazie a qualcosa di più profondamente annidato nella carne: le azioni con cui possiamo rappresentare i movimenti altrui” (Damasio, 2012 p.139). Mi sembra che spesso si dia più ascolto al fantasticare della mente, al rumoreggiare del pensiero, vissuto, tra l’altro, con poca consapevolezza come un qualcosa di separato, piuttosto che ai movimenti alle concretezze del corpo. La musica, e in particolar modo le pratiche dell’improvvisazione musicale, sono risultate essere, almeno nella mia esperienza diretta, un ottimo esercizio per accendere la vigilanza sul corpo o quantomeno per cominciare a restituire un giusto equilibrio proprio tra mente e corpo.

In conclusione, mi piace accogliere un suggerimento denso e ricco di prospettive offertoci da Teresa Catena nel suo libro dedicato alle vicissitudini del corpo nel pensiero occidentale: “Il corpo dell’uomo, scriveva Spinoza, è composto di un gran numero di individui”; esso, insomma, è una collettività gerarchizzata, “una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore” (Catena, 2006, p. 8). Aggiungerei a quello che la Catena ci ha suggerito la lettura, sempre dall’Etica di Spinosa del sesto assioma della prima parte: “L’idea vera deve convenire con il suo ideato” (Spinoza, 1981, p. 21). Mi piace immaginare sancisca proprio il fatto che il pensiero, in questo caso l’idea, per essere vera – cioè proprio per esistere – debba convenire con il suo ideato, cioè ancora deve essere corpo, altrimenti ci inganna.


Bibliografia

  • Agamben G., (2007) Ninfe. Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
  • Catena T., (2006) Corpo. Guida, Napoli, 2006.
  • Damasio A., (2012) Il se viene alla mente, Adelphi, Milano, 2012.
  • D’Errico F., (2015) Fuor di metafora, sette osservazioni sull’improvvisazione musicale. Editoriale scientifica, Napoli 2015.
  • Marzano M., (2010) La filosofia del corpo. Il Melangolo, Genova, 2010.
  • Jankélévitch V., (1985) La musica e l’ineffabile. Tempi Moderni Edizioni, Napoli, 1985.
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