Il coraggio di conoscere | parte 2

L‘intelligenza che illumina il frammento

Conversazione con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Sergio Petrosino

Un apprendimento privo di orizzonte di senso è una soluzione misera alle sfide della conoscenza. Senza il suo rapporto con il mistero, il mondo delle ordinarie pratiche educative è solo un leggero velo sull’ignoto. I suoi modelli e le sue rappresentazioni sono troppo statici per cogliere le architetture di una realtà imprevedibile. Non si sarà mai soddisfatti della propria vita (intellettuale, morale o spirituale) se non si è in grado di rispondere alla sfida e al fascino delle potenze del proprio tempo. Rispondere vuol dire, infatti, rendere viva un’idea, farla accadere, comunicarla. Ma solo le idee vive possono essere comunicate. Ed è, inevitabilmente, un maestro a far sì che un’idea accada, a sottolinearne l’importanza, a farci diventare tutt’uno con essa. Solo la profondità evoca profondità. Come Wittgenstein diceva “i problemi della vita sono insolubili alla superficie, e si possono risolvere solo in profondità. Nelle dimensioni della superficie essi sono insolubili”. È d’accordo?

Vede, superficie e profondità sono livelli distinti della vita, proprio come distinti sono i livelli del linguaggio. Invece, il conformismo culturale – un’autentica infezione di massa del nostro tempo – ostacola la crescita della personalità, che è poi la capacità di visione, l’intuizione, l’irriverenza, le qualità, gli atteggiamenti interiori. Essa tende a liquidare l’uomo interiore, a svuotarne lo spirito. Si può raggiungere un uomo solo toccandone le corde interiori, laddove è più insicuro e più dolorosa l‘incompiutezza. L’educazione al carattere può essere realizzata solo in profondità: coltivando cioè lo spirito, non solo la mente; senza pretendere di eliminare la distanza tra io e mondo. Vi sono molte cose oltre l’io, i suoi interessi, i suoi bisogni. Prima o poi, ognuno si trova davanti alle domande cruciali della vita: come posso rapportare la mia vita al senso ultimo? Perché esisto? Qual è lo scopo ultimo della mia esistenza? Come vorrei essere ricordato? Un’educazione concepita come mera istruzione banalizza, inevitabilmente, l’uomo. Senza libertà e responsabilità, senza elevazione culturale e spirituale, senza apertura alla trascendenza, fallisce miseramente. Non basta sapere che le cose stanno in un certo modo. Ognuno sa molto più di quanto capisca, sente più di quanto sia in grado di dire.

Molti anni fa lei ha curato un volume per le edizioni Guida dal titolo “Ciò che non so dire a parole”, che portava il contributo di molti oggi notissimi autori. Il senso di quel volume, se così si può dire, era che vi sono innumerevoli cose che non sappiamo dire a parole. Che ricaduta ha tutto questo per la nostra discussione?

Premessa di ogni atto intelligente è la consapevolezza dei limiti del nostro linguaggio, della nostra incapacità di dire quello che sentiamo. Vi sono, poi, nei nostri modi abituali di pensare talmente tanti e radicati fraintendimenti che neppure li notiamo. È l’immaginazione a provocare quei contraccolpi che ci mettono in condizione di pensare, di vedere e agire oltre il mero orizzonte del linguaggio. Ma questo non basta. Occorrono occhi acuti per cogliere i problemi sottostanti agli equivoci del linguaggio. Attenzione, però! Gli errori che ineriscono al linguaggio non devono essere considerati nel senso comune. Nel linguaggio e nei nostri abituali modi di pensare vi sono innumerevoli zone d’ombra né rare, né insolite, ma semplici e ordinarie. Del resto, se non fosse così perché quel che è nuovo e sorprendente richiama la nostra attenzione, mentre quel che è costante e quotidiano provoca in noi stanchi riflessi d’abitudine? La conoscenza esige lo sforzo della chiarezza. Non per la soluzione di un problema ma per la scomparsa del problema. Eliminare l’equivoco vuol dire, infatti, rimuovere il fondamento del problema: che, appunto, non è risolto ma scomparso, proprio come per le mosche della celebre immagine di Wittgenstein, cui bisogna indicare la via d’uscita dalla bottiglia.

Lei ha affermato altrove che compito essenziale dell’insegnamento è sciogliere i problemi riformulando ciò che era già noto, cercando un paradigma profondo del significato, una visione d’insieme delle strutture che connettono i margini frastagliati delle cose. Vuole chiarire?

Conoscere è gettar luce su queste relazioni, coglierne la complessità dei nessi intermedi, disegnare l’immagine di una forma di vita. È qui che il linguaggio si fa corporeità, parola incarnata che trascende se stessa, trasfigurandosi in una dimensione ulteriore. Nel nostro vocabolario a un gran numero di verbi che alludono a processi ed attività concrete e corporee, ne corrispondono altrettanti che si riferiscono ad attività incorporee: come volere, decidere, comprendere. La teoria e le politiche dell’educazione oggi prevalenti sono fondate sul presupposto che l’uomo debba essere considerato in termini di interessi e bisogni. Come se l’universo esistesse per compiacere il nostro ego. Così la vita viene dominata dallo sforzo di conformare la realtà a misura dell’io, come se il mondo esistesse allo scopo di soddisfare l’io di una persona.

Dopo la nostra precedente incursione nell’universo della Paideia troverei utile un breve viaggio in una diversa e altrettanto importante stagione della storia educativa della nostra cultura: quella della Bildung, universo educativo che, pur in una articolata successione e combinazione storica dei paradigmi, assume un ruolo cruciale per la cultura europea e mondiale. Per il lettore forse è utile una premessa storico–linguistica. Il termine Bildung (dal verbo bilden=formare e dal sostantivo maiuscolo Bild=immagine) allude a una formazione come edificazione armoniosa della persona umana. Originariamente, ha a che fare con il formarsi a immagine di Dio presente nel pensiero di Meister Eckhart (la traduzione tedesca dell’Imago Dei della Vulgata, a sua volta traduzione di Girolamo dell’originaria espressione ebraica Tzellem Elohim). Nella teologia di Eckhart, l’Ego sum Lux Mundi di Giovanni (Gv 8, 12) si esprime attraverso una poetica dell’abbandono in cui l’essere umano prende congedo dal mondo, dagli oggetti, finanche dal suo stesso io, per ascendere a una dimensione etico–religiosa: ideale che diverrà paradigma della formazione dell’uomo per tutto il Medioevo tedesco e si svilupperà in seguito nell’opera di Johann Tauler e Heinrich Seuse. Può dirci dell’importanza di questa storia per le stagioni educative a venire?

Proviamo a fermare alcuni punti. La concezione della Bildung ritorna con la Riforma luterana, per irradiarsi nel pietismo e nella società barocca di Leibniz, che la colloca in un ordine di saggezza e giustizia, amore e libertà. Leibniz assegna centralità alla pietas cristiana che, con la ratio e la curiositas, costituisce nel tempo una costellazione di valori che resiste non solo alle diverse svolte storico-concettuali della Bildung, ma si arricchisce teoreticamente di assoluto e natura, di mistica religiosa e conoscenza scientifica, di etica ed estetica. Nel tempo, tuttavia, le sfere della conoscenza, della formazione, dell’educazione e della cultura – insieme a una molteplicità di interessi naturali, artistici e sociali – vengono assorbite e declinate nel concetto di Kultur. Pur tra discontinuità e fratture, la Kultur è momento di sintesi tra paideia (greca classica), humanitas (latina) e caritas (cristiano–medioevale). Assorbe, infatti, gli influssi dell’ideale urbano dell’umanesimo, della civiltà del rinascimento europeo e, tramite la musica barocca di Bach, delle conoscenze esoteriche del Seicento, della nascente scienza moderna e del neo-umanesimo tedesco che si sviluppa tra Sette e Ottocento.

Nel Seicento, poi, l’avanzata iniziale della borghesia mercantile nel Nord Europa, l’affermarsi delle arti liberali e delle prime tecnologie moderne producono un radicale cambiamento dell’orizzonte culturale.

Infatti. Il sopraggiungere dell’Illuminismo spinge a favore di una Kultur come ragione universale, strumento di educazione necessario alla formazione di ciascun uomo. La Bildung diviene uno degli strumenti per assegnare nuova identità e dignità all’ascesa sociale. Tramontata l’originaria mistica medioevale, la Bildung illuminista esalta il valore dell’autonomia soggettiva dell’uomo. È questa, non la tradizione religiosa o nazionale, a fornire alla singola persona il suo carattere peculiare, risultato di un’auto–formazione ottenuta tramite lo studio, il ragionamento personale, la capacità critica, l’esser colti: valori ideali di emancipazione borghese autoregolati, improntati a un ordine morale, alla vita disciplinata e alla responsabilità civica.

Nella cultura tedesca, è questa temperie culturale a far da sfondo al contrasto tra Kultur (espressione autentica della soggettività umana) e Zivilisation (convenzione di norme cristallizzate e di valori vuoti) contro cui Friedrich Nietzsche e Thomas Mann lanceranno la loro dura critica.

Una delle cause di questa divaricazione è proprio la Bildung. Se nell’illuminismo tedesco alla ragione è assegnato il compito di liberare l’uomo dalla superstizione e dalla dipendenza religiosa, nell’orizzonte della Bildung l’educazione del singolo deve riflettere quella del genere umano: l’uomo, infatti, riassume in sé l’universo, e l’umanità è un’allegoria del divino. Se con Herder e Humboldt la Bildung si colloca nella linea di una Humanitäts-philosophie, con le influenze illuministiche, il pedagogismo russeauiano e l’etica kantiana viene recuperato il valore del sentimento come cifra distintiva della natura umana. La cultura e la spiritualità romantiche determinano un primato della Armonie che influenza fortemente la Bildung, fino a promuovere una visione della formazione armoniosa dell’uomo, che fonde uno e tutto, uomo e umanità, finito e infinito.

La libertà dello spirito, cifra ideale della Bildung, connota a fondo anche l’opera di Goethe, Novalis, Hölderlin, Schiller, Schlegel, Schleiermacher. In particolare, la poetica goethiana assorbe le dimensioni della natura, dell’utopia e della cosmicità, introducendo nella “provincia pedagogica” l’orizzonte del viaggio interiore e utopico. Se Schleiermacher esorta l’uomo ad andare incontro al mistero (divino) del suo animo, Schiller introduce l’uomo alla bellezza, invitandolo ad ascoltarne l’eco interiore. L’epoca aurea della cultura tedesca, con le sue vette poetiche, letterarie e musicali, contribuisce all’apertura della società e alla caduta di molti steccati culturali e psicologici. Tuttavia, l’affermarsi di una nuova borghesia, filistea e conformista, provoca una svolta netta nella filosofia della Bildung. All’opposto della borghesia illuminata, sensibile ed intellettualmente vivace, questa innesca una tendenza nazionalista strisciante che provoca il graduale abbandono dei temi e dei sentimenti armoniosi dell’interiorità. Si fa strada un nuovo bisogno di convertire la formazione e l’educazione nell’apprendimento di tecniche e funzioni che sfocia nella pedagogia della Schulung: una didattica dell’obbedienza conforme a regole esteriori e a una rispettabilità piccolo borghese, formata da un semplice addestramento, da una mera istruzione, dall’esercizio e dall’indottrinamento.

Gli effetti di tale processo sono drammatici. Il Volk sostituisce il Geist: così, il nazionalismo prevale sull’umanesimo, lo specialismo sull’armonia, l’apprendimento sulla formazione, il lavoro sulla vocazione. Famiglia, educazione dei figli, vita sociale, vita quotidiana vengono sottomessi alle esigenze del potere e della tecnica. La Bildung neoumanista della filosofia, della letteratura e dell’arte, tramonta e, con essa, gli assi portanti della grande cultura dell’illuminismo e del romanticismo tedeschi. Tale processo sarà favorito dal sistema hegeliano che mira all’integrazione della formazione dell’uomo nel rigido sistema di una filosofia che, da un lato, elimina il neoumanesimo illuminista e romantico e, dall’altro, segrega la persona entro i ruoli previsti da una rigida organizzazione statale. Un’ulteriore trasformazione si avrà nella seconda metà dell’Ottocento, quando il positivismo cancellerà tutti i segni affettivo-emotivi (Gefülhe) tipico dell’età di Goethe, appiattendo la conoscenza umana sui saperi scientifico e tecnico. All’anelito d’infinito subentra il desiderio di scoperta delle leggi della natura. Il metodo della spiegazione scientifica prevale sulla cultura dell’interpretazione elaborata da Schleiermacher nella sua ermeneutica. La Bildung subisce un ulteriore, radicale cambiamento. Diviene altro. L’esperienza vissuta e l’esperienza creatrice verranno messe ai margini da uno sperimentalismo esasperato che spiana la strada a un’atomizzazione dell’uomo, in cui si rispecchia il nichilismo dei valori e dei metodi educativi concepiti nell’esaltazione del mero apprendimento.

Tuttavia, all’opposto della Bildung, la Zivilisation ha un ruolo decisivo nella preparazione del terreno alla scolarizzazione moderna e alla educazione generalizzata, come nella selezione sociale, nell’organizzazione burocratica e tecnica della società. Le politiche educative e istruttive plasmano tutto. Alla formazione classica (lo studio della filosofia, delle lingue antiche, della storia, della letteratura) che aveva i suoi valori precipui nella costruzione dell’armonia dell’uomo, nella sua interiorità e profondità spirituale, viene preferita un’istruzione tecnico-scientifica enormemente distante dalla Bildung. La nuova cultura educativa del Novecento trasforma il pensiero in funzioni e l’azione in scopo immediato, attraverso una specializzazione e una settorializzazione dell’insegnamento e dell’apprendimento, secondo i capisaldi del cosiddetto riformismo pedagogico: come ha evidenziato il sociologo Luhmann, i criteri della selettività, della stratificazione sociale, della specificazione funzionale e della prestazione speciale.

Si tratta di una contraddizione insanabile, per molti versi paradossale. Infatti, da un lato, la Bildung smarrisce le caratteristiche vitali di umanesimo universale trasformandosi in un apprendimento tecnico che sterilizza la cultura idealistica tedesca, rendendola, con la nazificazione del sistema scolastico tedesco, per molti versi, complice dell’abominio nazista; dall’altro, la difesa e la rielaborazione della Bildung classica è affidata ad una schiera di intellettuali ebreo tedeschi. Pensatori come Adorno e Horkheimer, Benjamin e Arendt, Scheler e Simmell, Buber e Rosenzweig, Cassirer e Stein, pur con sensibilità differenti, criticano la modernità difendendo l’umanità dell’uomo singolo, esaltando quel “principio della formazione” che la cultura tedesca classica ha indicato con il termine Bildung. Attraverso un complesso ordito filosofico e critico, ma con determinazione etica, molti filosofi ebrei tedeschi, negli anni più oscuri e drammatici per il loro stesso diritto all’esistenza, proiettano luci intense nelle tenebre dell’orrore nichilista proprio attraverso i motivi classici della Bildung. D’altra parte, l’emancipazione ebraica in Germania era avvenuta proprio nel segno della Bildung: la stessa stagione che la rivoluzione nazionalsocialista si era impegnata a cancellare per i germogli di libertà e di fecondità dialogica che portava in sé.

Siamo a un passaggio cruciale. Mentre i pensatori ebrei tedeschi, nel tentativo di definire una propria specifica Bildung, coniugano felicemente filosofia classica tedesca ed ebraismo, il Mein Kampf, la Kristallnacht, la Conferenza di Wannsee (che pianifica la Shoah, la soluzione finale della questione ebraica) proiettano la loro sinistra ombra sul destino di quella Bildung che aveva avuto, nella bella traduzione in tedesco della Bibbia di Buber e Rosenzweig, un esempio alto di reciprocità che vide gli ebrei fare ingresso nell’universo culturale germanico e i tedeschi fare ingresso nell’universo culturale ebraico. Quell’armonizzazione si realizza sia perché l’umanesimo della Bildung assume in radice il mistero della trascendenza (anche come antidoto ai rischi cui la modernità espone il soggetto), sia perché a fondamento di quell’umanesimo vi è la formazione come via dell’autenticità dell’essere umano.

Aggiungerei che nella Bildung gli ebrei tedeschi emancipati avevano trovato la via per la formazione del carattere, l’educazione morale, la ricerca dell’armonia interiore. Nella visione di Goethe, la Bildung è anche Um-bildung, cioè processo di (tra)formazione continua dell’essere umano. Walter Benjamin va oltre. In un suo testo narrativo giovanile, racconta di tre giovani amici che si spingono alla ricerca della religione, cercando ognuno la propria strada educativa in un difficile cammino esistenziale. Il mistero ha come sfondo la Bildung. Sulla formazione dell’uomo ha un indefinito rilievo l’abbagliante luce ultraterrena, la potenza di un mondo meraviglioso che ognuno può conoscere scalando le cime dei monti, nello splendore del sole. Adorno ha sostenuto che il diritto dello Stato anteposto ai singoli uomini spiana la strada all’orrore. L’orrore che ha in mente Adorno ha le sembianze inconfondibili di Auschwitz. Le pagine di L’educazione dopo Auschwitz sono alimentate, come un imperativo etico, dalla ricerca di un modello educativo che possa prevenire ogni possibile segno del Principio di Auschwitz. La constatazione che la civiltà europea ha prodotto al proprio interno l’orrore, lo spinge a dire che se (…) nel principio di civilizzazione trova il suo fondamento anche la barbarie, allora esso possiede qualcosa di disperato, contro cui dobbiamo insorgere. (…) È doveroso si distolgano gli uomini dal colpire verso l’esterno in assenza di qualsiasi riflessione su se stessi. L’educazione avrebbe un senso in generale, solo allorché fosse un’educazione all’auto-riflessione critica. (…) L’unica vera forza contro il principio di Auschwitz potrebbe essere l’autonomia, se mi è lecito adoperare l’espressione kantiana; la forza cioè che spinge verso la riflessione, l’auto-determinazione, il non-fare ciò che fanno gli altri.

Da qui la necessità di un’illuminazione universale che istituisca un clima spirituale, culturale e sociale che prevenga e respinga ogni reiterazione dell’orrore. In Martin Buber l’immagine dell’educatore ispirato ai valori della Bildung si colora di un aspetto fondamentale. La libertà priva di orientamento, sostiene Buber, getta ombra sull’eternità e l’idolatria del collettivo annienta la vocazione personale. Parole profetiche, non le pare?

Direi di più! Di lì a poco la metamorfosi antiumanistica, antilluministica ed anti-etica della Bildung, nella cultura e nell’opinione pubblica tedesca, consegnerà la scuola al potere nazista. Le virtù sociali della mitezza e della cultura, della libertà e della tolleranza, verranno cancellate: rappresentano argini troppo resistenti per l’affermarsi di un progetto di odio, di annientamento, di morte. In una forma storica diversa, questo fenomeno si ripeterà nel totalitarismo sovietico, dove un mix di istruzione tecnico–ideologica e di idolatria del potere assoluto produrrà effetti tremendi di schiavitù e terrore, con una devastazione antropologica di intere generazioni. Hannah Arendt, studiosa delle dinamiche rivoluzionarie e totalitarie, colse acutamente queste invarianze in tutte le società e sistemi d’istruzione pubblica. Nell’importanza attribuita all’istruzione da tutte le utopie politiche, la Arendt vide all’opera l’intenzione di chi intende costruire un mondo nuovo partendo dalle basi più malleabili. Anziché scegliere la via della persuasione (esponendosi così al rischio del fallimento), il potere totalitario interviene in modo autoritario, nella convinzione della superiorità assoluta delle proprie ragioni e nel tentativo di ‘produrre’ il nuovo come un fatto compiuto. Naturalmente, essendo improbabile una ‘educazione’ degli adulti (in politica questa parola suona male), tutte le tirannie rivoluzionarie tentano di creare nuove condizioni iniziando dai bambini. Per questo, una volta assunto il potere, i figli vengono tolti ai genitori per essere indottrinati. In realtà, facendosene solo formalmente tutore, il potere vieta loro l’accesso alla politica attiva. L’educazione è solo il pretesto: il fine reale è una coercizione senza uso della forza. La Arendt getta luce nelle motivazioni di una pedagogia tanto onnicomprensiva quanto separata da contenuti e argomenti. Così annota: “La pedagogia e il corpo insegnante possono avere la funzione perniciosa solo in virtù di una certa teoria dell’apprendimento (…). Si tratta di un concetto che il mondo moderno sostiene da secoli, e che nel pragmatismo ha elevato a sistema: secondo tale assunto, dunque, si può conoscere e capire soltanto ciò che si è fatto da sé. Applicato all’istruzione, ciò significa, in termini primitivi quanto ovvi, che l’imparare viene per quanto possibile sostituito dal fare (…). L’intenzione consapevole non è d’insegnare una conoscenza bensì di inculcare una tecnica”.

Torniamo al cuore del nostro tema. Un giorno Albert Einstein ebbe a dire che l’istruzione è ciò che rimane dopo aver dimenticato le cose imparate a scuola. Più di ogni cosa conta addestrare la mente, coltivare le capacità creative. Il grande fisico e pensatore sosteneva che non dovesse essere la scuola ad insegnare direttamente competenze e specificità da impiegare nella vita. Le circostanze e le esigenze della vita sono troppo multiformi per addestramenti specialistici. Non solo. Quel che è più discutibile è trattare un individuo come uno strumento passivo. La scuola dovrebbe contribuire alla crescita di personalità armoniose, non di specialisti. Anche le scuole tecniche dovrebbero essere impegnate in questo compito. Più che all’acquisizione di competenze specialistiche, occorrerebbe dar priorità allo sviluppo di capacità di pensiero e di giudizio indipendenti. Se si possiedono i fondamenti della materia e si è imparato a pensare e a lavorare in modo autonomo, si sarà in grado di adattarsi a qualsiasi contesto. Nella scuola, come nella vita, la motivazione più importante è il piacere del lavoro, il piacere dei risultati e la consapevolezza del loro valore per la comunità. Compito della scuola è, dunque, risvegliare e fortificare tali motivazioni nel giovane. Solo un fondamento psicologico di questo tipo conduce a un desiderio di beni umani più elevati: la conoscenza e la capacità artistica. È d’accordo?

I temi e le controversie del rapporto istruzione ed educazione, cultura scientifica e umanistica, innovazione e tradizione, trovano argomenti acutissimi nel pensiero di Eric Weil. Filosofo ed educatore, allievo di Ernst Cassirer e amico di Alexandre Koyré, Weil fu autore di testi filosofici cruciali e protagonista – attraverso la straordinaria esperienza della rivista Critique – di un dialogo intenso e vivace con le migliori menti del suo tempo. In continuità con l’idea classica di filosofia come sapienza per l’educazione, Weil considera la filosofia disciplina umanistica per eccellenza, áncora dell’intero sapere. La sua passione per le scienze umane è tutt’uno con la riflessione delle sue opere sistematiche di logica, etica e filosofia politica, che esplorano la condizione umana nel mondo contemporaneo e analizzano le esiziali conseguenze del disincanto scientifico. Il tema dell’educazione nella società moderna di massa gli si presenta come un radicale problema di senso: sia per la posizione dell’uomo rispetto alla modernità, sia per quella della modernità rispetto all’uomo. La questione essenziale è la libertà dell’uomo in una società egemonizzata dalla scienza e dalla tecnica moderne. Nelle sue opere, egli riflette sui comportamenti sociali e individuali, sull’ordine sociale e l’esistenza materiale, sui valori (e le gerarchie dei valori) nella vita quotidiana, sull’organizzazione e la cultura delle istituzioni educative nelle società occidentali di fronte all’egemonia della cultura tecnico-scientifica, ma anche sulla funzione nuova e irrinunciabile che la cultura umanistica è chiamata a svolgervi.

Il filo conduttore della ricerca di Weil è il rapporto istruzione-educazione o, per meglio dire, il rapporto tra la cultura scientifica e umanistica. La sua posizione è diversa e distante da quella degli esperti e degli specialisti del ramo. Al cuore del suo ragionamento vi è l’asse progresso-morale. Weil ammonisce severamente i propri contemporanei sull’esigenza di fornire alle giovani generazioni un senso alla libertà dal bisogno che la tecnoscienza moderna sembra rendere possibile. Non solo per impedire che tale libertà diventi alienante, ma soprattutto perché le generazioni successive potrebbero essere incapaci di risolvere questo problema, forse anche solo di comprenderlo.

Weil affronta la domanda centrale del grande dibattito che, dall’illuminismo al positivismo, dal relativismo fino all’era della tecnoscienza, attraversa la nostra storia culturale: le arti e le scienze rendono o meno gli uomini migliori? Il terreno che sceglie, esplicitamente kantiano, è quello della crescita morale dell’uomo che vive nell’incessante incivilimento della società. Con l’animo inquieto per i sinistri presagi che aleggiano sulla civiltà del Novecento si domanda se, e in che misura, dopo Auschwitz, i lager, i gulag e Hiroshima, sia possibile esercitare l’ottimismo della ragione? Dopo la fine della guerra, in un Occidente intento a rimuovere l’orrore generato dal suo ‘cuore di tenebra’ e a ricostruire ciò che era andato distrutto, esplode una baldoria per un’opulenza fine a se stessa e priva di scopi. Se all’alba della modernità, Kant ironizzava su uomini “civili fino alla noia”, oggi quegli uomini, allevati nel culto borioso della scienza, camminano inquieti, privi di orizzonte, esposti alle suggestioni più insulse.

Mi pare che Weil prenda posizione netta: l’istruzione e il progresso materiale, dice, sono certo il presupposto della libertà, ma quando divengono fini, forse non si autodistruggeranno, ma soccomberanno sotto il peso della noia e della disperazione. Non si esprime a favore o contro il progresso. Indica l’elevazione morale come strada maestra per un progresso che si diffonda durevolmente ai popoli che ne sono ancora privi. Anche perché non vi è alcuna virtù nella miseria. Eppoi, con i potenti strumenti scientifici e tecnici a disposizione oggi, se solo lo si volesse si potrebbe far fiorire il deserto.

Il crescente malessere (in un tempo di crescente benessere materiale) era impensabile per le generazioni precedenti. Diversamente da Dewey, Weil considera la questione dell’educazione nella democrazia contemporanea irrisolvibile con la sola inclusione di più persone nel sistema scolastico. Pur salvaguardando le strutture e le giuste aspirazioni della democrazia, considera inevitabile un’aristocrazia dei più istruiti e competenti, soprattutto nell’economia, nella tecnica, nella politica. Senta cosa dice Weil: “La grande contraddizione della società moderna, un insieme di tradizione e di rivoluzione non può essere risolta che dalla parola e dall’azione ragionevoli. Se si vuole che questo grande disegno abbia una qualche possibilità di successo si devono perseguire a un tempo questi due ideali: una democrazia capace di generare un’aristocrazia grazie alla cura di cui essa circonda i meglio dotati; e una democrazia dell’uguaglianza che si sforzi costantemente di innalzare il livello medio, in modo che l’élite non appaia anemica e come sospesa sul vuoto. Gli uni e gli altri devono sapere che vi sono delle verità la cui forma muta nel corso della storia, ma che nessuno ha il diritto di ignorare: lo scopo della società libera, la “vita buona” (vita bona), e le condizioni materiali necessarie per poterle conseguire. Senza la conoscenza un cittadino può essere senz’altro una persona inoffensiva, incapace di fare del male, ma non sarà mai un uomo dabbene (vir bonus)”.

Credo sia il tema delle élites naturali, di talento, attori di un’effettiva promozione sociale di merito. Passa da qui, sostiene, la differenza tra una democrazia genuina e un egualitarismo. Per una società libera non bastano le pur necessarie conoscenze scientifiche e abilità tecnico-pratiche. L’istruzione è indispensabile. Ma ancora più importante – ed è ciò di cui si sente più forte la mancanza – è un’educazione. In assenza di un’autentica educazione, parlare di democrazia, qualunque ne sia l’accezione, è semplicemente una presa in giro.

Pur nella complementarietà di istruzione ed educazione, il primato della seconda sulla prima è indiscutibile. Certo, l’istruzione può anche stare da sola: esistono molti esempi di istituti ad indirizzo professionale, come pure numerose specializzazioni all’interno di politecnici e centri superiori di ricerca. Ma se davvero è un’educazione a mancare, allora non è l’istruzione a dar senso all’educazione, ma l’educazione a dar senso all’istruzione. Ecco perché è sbagliato introdurre sempre ulteriori dosi di istruzione scientifica nei programmi scolastici – quasi che il destino degli uomini dipendesse dal valore tecnico della società. Il problema non è solo l’assenza, nelle scuole d’indirizzo scientifico, della cultura e dello spirito umanistico, ma quello di una sua presenza viva nelle stesse scuole di indirizzo umanistico, che non sia un’inutile erudizione o un orpello da snob. È questa la strada per uscire dal vicolo cieco di una scuola scientifica senza anima e una scuola umanistica devitalizzata.

Occorre iniziare dalle scuole inferiori. Riportare in vita il patrimonio: i valori, le matrici, le radici della cultura occidentale, dal valore e dalla fecondità inesauribili.

Senta cosa dice profeticamente Weil nel ’46: “(…) siamo solo all’inizio dell’era delle macchine, avvertiamo solo i primi effetti della medicina moderna; già oggi la durata media della vita aumenta di continuo e la parte riservata al lavoro va via via diminuendo; come conservare la salute morale della società in assenza di un’educazione capace di prolungare i suoi effetti per l’intero arco dell’esistenza e di conferirle contenuto, valore e dignità? Dobbiamo e possiamo abbandonare gli adolescenti e gli adulti ai divertimenti e all’ozio?” La culture de l’esprit resta il sale della democrazia, anche se questa è per molti versi subalterna alla tecnica scientifica. L’educazione è diventata, infatti, funzionale alle esigenze della società industriale moderna. Eppure, una razionalizzazione perfetta, che segnerebbe la piena vittoria dell’uomo sulla natura liberandolo dai vincoli naturali, farebbe il vuoto nell’uomo. Questi avrebbe certo tutto il tempo a propria disposizione, ma trasformato in un essere esclusivamente sociale, non potrebbe impiegarlo in modo sensato. A meno che non rinunci ai sentimenti. Ma così precipiterebbe nella noia: una noia insoddisfatta non di questo o di quello, di questa imperfezione, di questo bisogno o di questa ingiustizia sociale, ma per la stessa esistenza che distruggerebbe ogni conquista raggiunta. Sia chiaro, non è implausibile o infondato pensare che l’uomo possa cancellare ogni sentimento, finanche la noia. Ma, a questo punto, l’umanità si trasformerebbe in un perfetto termitaio.

In questo senso la vittoria della razionalità sulla natura è possibile solo in via puramente astratta. Un modello sociale plasmato dalla scienza avalutativa farebbe precipitare di fatto la società moderna in un nuovo hobbesiano stato di natura. Lo conferma il numero di disturbi psichiatrici e di sociopatie che abbiamo sotto gli occhi.

All’origine della violenza gratuita vi è la perdita del gusto della vita. All’origine delle nuove forme di alienazione vi è la noia del “mangiare solo dolce e sempre dolce”, la noia provocata dalla conversione perversa del tempo libero in “passatempo” intemperante e vizioso. Il tempo libero, dice Weil, è il terreno ove il problema dell’individuo diventa problema per la società. Infatti, da occasione di otium diviene spesso alibi di violenza gratuita di massa. Certo, la tecnica moderna ha liberato le masse dalle catene del lavoro servile. Ma come non vedere che il tempo libero di una massa (senza educazione) riporta la stessa massa a servitù peggiori di quelle conosciute nella storia? Il mondo moderno deplora la schiavitù e cerca di difenderla sul piano giuridico. Ne impone l’abolizione. Nondimeno, lo schiavo moderno – l’individuo incapace di esercitare la propria libertà e ragionevolezza, di dare un senso alla propria esistenza e, dunque, di distinguere fra un “iniquo padrone” e chi “lo educa alla libertà” – esiste come prima. Gli schiavi moderni – ben nutriti, annoiati e violenti – non solo esistono, ma il loro numero ha assunto ormai la forza di una “marea” non più arginabile: né dai “costruttori di dighe” – che ancora esistono e resistono – né dalla violenza legittima dello Stato.

Poi arriva il ’68. La rivolta studentesca fu un fulmine a ciel sereno per tanti. I sintomi erano evidenti da tempo. La fallacia del modello educativo positivista e la deriva di un’istruzione contrabbandata come unica e autentica educazione non poteva non generare una rivolta. Era del tutto inevitabile che un’istituzione così priva di un orizzonte vitale implodesse.

In realtà, Weil non realizzò alcuna specifica analisi del ’68. Tuttavia, la sua philosophia civilis è interamente attraversata dall’inquietudine generata da quel movimento. Il ‘68 aveva improvvisamente trasformato le analisi precedenti in un’urgenza della modernità. Gli educatori positivisti dell’800, preoccupati solo dai mali che opprimevano la grande maggioranza dei loro contemporanei, avevano trascurato proprio ciò di cui i loro allievi, avrebbero avuto più bisogno una volta emancipati: sapere come utilizzare la propria libertà. Non immaginarono nemmeno che uno potesse non sapere cosa fare del proprio tempo libero. Weil prese sul serio il ’68, al punto da rendere l’educazione uno degli assi centrali della sua riflessione. Se fino a Filosofia politica e Filosofia morale, aveva aspramente criticato un’istruzione che mira alla liberazione dal bisogno senza dire una parola sul senso della vita, in Oggetto, metodi e senso degli studi umanistici (1970) egli afferma che la scienza non può fornire risposte alla rivolta contro la società.

Per l’attenzione assegnata al tempo scolastico e al tempo libero dei giovani e degli adulti, Philosophie politique e i testi sulle humanités costituiscono un progetto di un’educazione e di un’istruzione permanenti. Quasi in termini platonici, Weil sostiene che la condizione di vita più propizia al pieno dispiegarsi educativo delle discipline umanistiche è il tempo della maturità avanzata. È convinto, come Aristotele, che la morale non è materia di studio per i giovani d’età o di spirito.

Vede, il prevalere della cultura tecnico-scientifica non è dovuta solo al fascino della scienza e della tecnica, ma anche alla povertà crescente della cultura umanistica che contestava alla filosofia di aver favorito il trionfo del soggettivismo e del relativismo. Infatti, se da una parte i successi della scienza spingono ai margini le discipline umanistiche, dall’altra queste si adattano al nuovo ruolo di adorne ed erudite conoscenze specialistiche, del tutto marginali per la società moderna, se non addirittura un lusso nocivo. È a partire da qui che Weil radicalizza la sua critica alla frammentazione della conoscenza generata dalla scienza weberiana. Questo tipo di scienza, afferma, è un fattore di profonda rottura della nostra civiltà. A causa di una scienza eticamente neutra, la “cattiva coscienza” dell’umanista è diventata incoscienza del mondo. Questo ha reso non solo impossibile distinguere tra bene e male, ma anche cosa fare del potere della scienza.

So che non è così e, tuttavia, sembra che Weil rifiuti la modernità, anche se si rivolge alla scienza con rispetto.

La scienza e la tecnologia, dice Weil, sono venuti per restare. Dovremo conviverci. Fortemente influenzato da Science in a Free Society di Paul Feyerabend (il quale peraltro riprende molte considerazioni weiliane), sostiene che il problema è restituire valore umano alla cultura scientifica, rimpatriandola in un orizzonte umano, come la scienza premoderna aveva sempre fatto. Il compito è restituire senso alla scienza oggettiva che, in sé, è solo una mera conoscenza di fatti. Ma questo è possibile solo a condizione di vedere, in questo mondo “alla rovescia”, non l’aura sacrificale del nostro intelletto (come pensava Weber), né il totem della nostra presente disperazione. Sì, perché sono le discipline umanistiche a poter rimettere in cammino il mondo nella giusta direzione, perché sanno pensare il mondo e l’uomo come valori globali. Io credo che la civilisation moderne possa e debba essere ripensata in una visione unitaria della vita e del sapere, che è poi il modo in cui la pensarono anche i suoi padri: quella stessa condizione che aveva offerto a Copernico, Galileo, Keplero e Bacone la possibilità di vivere come uomini educati umanisticamente e, al tempo stesso, di lavorare come scienziati senza lacerazioni della coscienza.

Questo obiettivo esige, però, che anche le discipline umanistiche riconsiderino se stesse, aprendosi ai contributi messi a loro disposizione dalla scienza e dalla tecnica moderne. Occorre, in altre parole, una visione che faccia chiarezza sui valori, compreso quel particolare ‘valore’ che è la scienza per se stessa, nonostante la sua dichiarata avalutatività.

L’obiettività e la verità non sono rappresentate esclusivamente dai sistemi esatti (ancorché ipotetico-deduttivi). Vi sono livelli di realtà che precedono ogni “discorso secondo” e ne rivelano l’arbitrarietà. Siamo nati in un mondo, non in una molteplicità di fatti e valori privi di connessione. Viviamo in un mondo, non in mezzo a correnti di elettroni. Siamo esseri dotati di elementi e di pensieri, non semplici oggetti della psicologia, della fisiologia, dell’economia, delle scienze sociali. Soprattutto, noi non scegliamo i nostri valori prima di aver iniziato a vivere. Insomma, occorre realizzare l’unità della cultura e dell’educazione. Bisogna arrivarci con un paziente e duplice metodo di ‘ancillarità’: delle scienze oggettive verso le discipline umanistiche, per fornire a queste conoscenze specifiche e strumenti di lavoro all’altezza del loro compito; delle discipline umanistiche verso le scienze oggettive, per redimerle dalla loro arrogante solitudine. È un compito in cui risuona l’eco della kantiana “moralizzazione del mondo”. Con la differenza, però, che in un mondo caduto a pezzi a causa di una scienza che si presume neutra, tale moralizzazione è divenuta di un’urgenza senza precedenti.

Le pagine di Filosofia politica e di Faudrat-il de nouveau parler de morale ? sono ancora più aspre di quelle sulla Shoà. L’indifferenza della scienza (cosiddetta oggettiva) alle domande fondamentali della vita sta preparando un’umanità “termitaio” popolato di animali ben nutriti, annoiati e violenti. Siamo diventati (o stiamo per diventare) questo dopo aver rinunciato, senza essercene accorti, al dibattito morale. Naturalmente questo non vuol dire che la crisi morale dell’educazione moderna dipenda dalla pedagogia moderna. Le cose sono, al tempo stesso, più semplici e più complesse. La pedagogia moderna è incapace di pronunciare parole significative sulla crisi morale di un mondo egemonizzato dalla scienza avalutativa, che menti imprevidenti hanno innalzato a modello unico delle condotte e dei valori della nostra vita.

Penso che le discipline umanistiche possano aiutarci a comprendere questa crisi. Certo, non a spiegarla, non essendo nemmeno esse in grado di farlo. Soprattutto, potendo noi comprendere solo un poco di noi stessi con la luce della morale. L’uomo sarà capace di affrontare i problemi e di scegliere solo se educato (e non solo istruito). L’educazione moderna è afflitta da molti mali. La crisi della scuola, dalla primaria all’Università è stata affrontata con semplici riforme amministrative, non con misure all’altezza dei problemi. L’educazione nell’epoca della scienza è una sfida per tutti quegli “esperti” che credono di risolvere la questione attraverso la riforma delle istituzioni e delle politiche scolastiche. L’unità della cultura, opposta allo scientismo e al falso umanesimo, non è un’utopia. Essa si è incarnata più volte nella storia, prendendo forma nella ricerca di grandi scienziati. D’altra parte, solo coloro che aspirano ardentemente alla verità e alla comprensione – con un sentimento quasi di natura ‘religiosa’– possono fare la scienza. Come in ogni contrasto tra vecchie e nuove narrazioni, al fondo dell’esplorazione scientifica vi è un insopprimibile ricerca di ordine metafisico: l’armonia del nostro mondo. La convinzione, cioè, analoga al sentimento religioso, che il mondo possa essere compreso. L’esistenza di una mente superiore che si manifesterebbe nel mondo dell’esperienza costituisce per Einstein l’idea spinoziana di Dio. Naturalmente, le idee religiose e metafisiche e le teorie scientifiche restano universi lontani. Ma le ragioni espresse con intima persuasione da Einstein, nei loro motivi ispiratori, sono presenti, con altrettanta forza, in Galilei, in Newton e in tanti altri scienziati. Vorrei chiudere questo lungo dialogo con le parole ineguagliate di Einstein: “Io credo con Schopenhauer – ha osservato Einstein – che l’impulso più potente che spinge gli uomini dediti alla verità e alla comprensione verso l’arte e la scienza è il desiderio di evadere dalla vita di ogni giorno con la sua dolorosa crudezza e il suo vuoto senza speranza, di sfuggire alle catene dei desideri individuali più sensibili fuori dal loro io individuale, verso il mondo della contemplazione e del giudizio obiettivo. (…) il sapiente è compenetrato dal senso della causalità per tutto ciò che avviene, la sua religiosità consiste nell’ammirazione estasiata delle leggi della natura. (…) la religione cosmica è l’impulso più potente e più nobile alla ricerca scientifica. Non è senza ragione che un autore contemporaneo ha detto che nella nostra epoca, votata in generale al materialismo, gli scienziati sono i soli uomini profondamente religiosi”.

Leave a Reply