Il coraggio di conoscere | parte 3

Il richiamo vertiginoso

Conversazione con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Sergio Petrosino

Nell’indicare la ricerca della conoscenza come unica meta dell’uomo, orizzonte della dignità e della libertà umane, Dante trasfigura l’ultimo viaggio di Ulisse: “Considerate la vostra semenza / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza. (XXVI Canto dell’Inferno (118–120)”. In realtà, la sfida di Ulisse non ha nulla di eroico. Nell’esortare i propri compagni di viaggio a sfidare l’ignoto, spingendo la propria nave oltre le colonne d’Ercole, estremo limite del mondo, egli testimonia il proprio coraggio senza lasciarsi irretire dall’ambizione e dalla vanagloria. Voglio dire che esplorare l’ignoto è il compito ‘normale’ e, insieme, ‘rivoluzionario’ della scienza. Anche se dobbiamo ammettere che la scienza non è tutto, non può esser tutto. Perché se fosse tale sarebbe condannata alla morte spirituale. Allo stesso modo di Ulisse che – condannato dagli dei per aver voluto sfidare i limiti umani – conclude il suo “folle volo” tra i flutti dell’oceano sconfinato e sconosciuto. Il messaggio di Dante è chiaro: l’uomo non si creda Dio, non provi nemmeno a sostituirsi ad Egli! Ecco, quale è il senso del viaggio di Ulisse per noi e per le esplorazioni scientifiche del nostro tempo?

L’umanità ha fatto molta strada dal medioevo ad oggi, ma il messaggio altissimo che giunge a noi da queste vette letterarie del medioevo è più valido che mai. La civiltà contemporanea è assediata da movimenti divergenti: da un lato, la pervasiva quantità di informazioni circolanti ha accresciuto le aspettative dell’uomo; dall’altro ne sta affievolendo l’autonomia e la capacità di scelta responsabile. Se l’evoluzione sociale ha dischiuso nuove possibilità di libertà individuale, la tendenza statistico-quantitativa del sistema dell’istruzione sta progressivamente svilendo i processi di conoscenza. La rigidità amministrativa e il suo innaturale ruolo di ‘agenzia di socializzazione’ stanno irrigidendo la scuola, rendendo quasi impossibili le domande vive e gli scopi condivisi. La distinzione tra educazione e istruzione, concepita originariamente per scongiurarne la subordinazione a uno Stato etico, non ha migliorato l’istruzione. Anzi, ne ha provocato un graduale scadimento. Separata dall’istruzione, l’educazione è diventata una no man’s land. La percezione diffusa è che i sistemi di istruzione ufficiali siano troppo rigidi, troppo burocratici per cambiamenti radicali, anche solo per percorsi di educazione libera, efficace e responsabile.

Vuol forse dire che i sistemi attuali sono inadeguati per tenere dietro alla complessità dei processi cognitivi individuale e alle dinamiche dell’evoluzione sociale?

Lo scientismo come atteggiamento ideologico del primato della scienza su ogni sapere ha avuto come effetto un crescente disinteresse nei confronti della conoscenza. Questa vera affezione del pensiero non solo rafforza le potenti correnti irrazionali e irrazionalistiche presenti nella società, ma ma rappresenta, inevitabilmente, un segno opposto di un viaggio della conoscenza, che è innanzitutto apertura all’accadere delle cose, all’immaginazione, alla creazione, al pensiero, al sentimento. La conoscenza delle cose non ci approssima immediatamente alla verità. Anzi, essa è sovente condizionata e distorta da errori e illusioni. Al di là delle sue fondamentali scoperte, la scienza è costitutivamente esposta all’incertezza a illusioni ed errori. Per non dire che tutto si complica quando emergono vere e proprie forme ‘patologiche’ di conoscenza. Direi di più: la crisi dei fondamenti che investe tante forme di conoscenza non riguarda solo le scienze cognitive, ma i problemi vitali del nostro tempo. Penso occorra un dialogo più serrato tra la scienza e la filosofia, perché entrambe sono assediate da problemi comuni. D’altra parte, se la filosofia restasse narcisisticamente isolata entro i propri confini non avrebbe più territori da esplorare e la possibilità di definire la scienza e la filosofia a partire dalle loro reciproche frontiere sarebbe del tutto disperata. Conoscere vuol dire anche intensificare e valorizzare i tanti punti di contatto fra questi due ambiti della conoscenza.

Come è noto, il grande logico Kurt Gödel, forse il più grande di tutti i tempi, ha chiarito come in ogni sistema formale vi siano proposizioni indecidibili: proposizioni, cioè, al tempo stesso vere e non vere. Non nel senso della singola proposizione, ma del sistema stesso di regole formali che permette di generarle. Basta, infatti, una proposizione indecidibile a rendere incoerente l’intero sistema. Dunque, se si intendesse eliminare l’incoerenza si dovrebbero eliminare le regole formali che la generano. In altre parole, qualsiasi sistema formale vive in una permanente oscillazione tra incoerenza ed incompletezza che investe tutte le forme di conoscenza e, più generale, la natura stessa della realtà esterna. Ecco, nel ‘900, il teorema di incompletezza di Gödel e il principio di indeterminazione di Heisenberg – secondo cui non possiamo mai conoscere contemporaneamente e precisamente la posizione e la quantità di moto di una particella subatomica – hanno reso più acuti i dubbi sulla conoscibilità dell’universo e hanno incrinato la fiducia in un razionalismo fondato sulla certezza della conoscibilità della struttura del mondo. Nasce da qui l’urgenza di un meta-punto di vista più articolato e distanziato dal quale la conoscenza possa giudicare se stessa. Insomma, le nostre idee del mondo non sono uno specchio della realtà esterna, ma una traduzione delle nostre percezioni in un linguaggio particolare: non è questo l’artificio che definiamo conoscenza?

Vede, la mente umana è espressione di una lunga interazione tra natura e cultura. La nostra individualità psichica si è realizzata in noi, proprio come noi ci siamo realizzati in essa. I tentativi di scomposizione razionale della natura umana in tanti pezzi quante sono le discipline che intorno esercitano la propria presunta sovranità si scontrano con questa evidenza. Criticare l’assolutizzazione della razionalità non vuol dire dare spazio all’irrazionalità, ma aprire il campo a una razionalità (auto)critica. Il problema della conoscenza deve essere affrontato nell’ambito delle nuove scienze cognitive: l’arcipelago di discipline, purtroppo ancora separate nell’organizzazione didattica universitaria, costituito dall’epistemologia, dall’intelligenza artificiale e dai nuovi sviluppi della psicologia cognitiva. Oggi esse sono assediate da problemi rilevanti. Innanzitutto, per la loro incapacità a costituirsi come scienza ‘normale’, fenomeno che si accentua perché poco inclini a riflettere sul proprio statuto o, se si vuole, per alcune patologie interne alle loro procedure, per le illusioni e i bias conoscitivi, per altro ancora. L’impressione è che non sembrano avvertite dai paradossi di una conoscenza che ha per oggetto il proprio modo di conoscere. Per questo scontano – come nel paradosso del barone di Münchausen – contraddizioni e aporie, quando è proprio a partire da qui che si possono individuare le leggi e le regolarità della cognizione umana.

Lei vuol dire che la conoscenza della mente umana avrebbe bisogno di una scienza all’altezza delle sfide, non di ingenui determinismi di cui nessuno sente il bisogno? La biologia, l’intelligenza artificiale, la linguistica, l’epistemologia, le neuroscienze non sono sfere separate, ma elementi cruciali della cognizione umana e, più in generale, dell’organizzazione biologica. È d’accordo?

Penso che la conoscenza della natura umana esiga una pluralità di livelli di analisi: biologici, fisici, chimici, cognitivi, linguistici e così via. Si tratta di una lettura di fondamentale importanza: sia perché un’antropologia della conoscenza ha sue regole cognitive; sia perché l’epistemologia dipende dall’antropologia, che la orienta sui processi fondamentali della conoscenza. L’epistemologia, del resto, è essa stessa parte di un circuito cognitivo, non un tribunale supremo fuori del tempo. Sarebbe necessaria una nuova scienza: una scienza che abbracci il mondo della vita e le idee filosofiche, religiose e politiche. Non nel senso di una biologia della conoscenza, che non sarebbe una novità. Forse una vita biologica continuamente alimentata dallo spirito. Infatti, se è vero che ci serviamo delle nostre idee come strumento per comprendere il mondo naturale e sociale, è come ha detto Edgar Morin altrettanto vero che queste stesse idee ci dominano e, non di rado, ci controllano.

Vi sono concetti e paradigmi secolari – come quello formulato da René Descartes che distingue la sfera degli oggetti e delle cose (riservato alla scienza) dalla sfera della soggettività (riservata alla filosofia) – da cui derivano molti conflitti del conoscere contemporaneo e sono all’origine dell’ostilità degli scienziati per i filosofi e dei filosofi per gli scienziati. Ciò influenza ancora oggi il dibattito filosofico e culturale. Sarebbe auspicabile discuterne.

È impensabile che il cammino della conoscenza non passi dal confronto, dal dialogo, dalla riorganizzazione dei diversi punti di vista bio-antropologici e socio-storico-culturali. Non è necessaria una conoscenza omnicomprensiva: la conoscenza non è una somma dei saperi. Occorre, tuttavia, fare attenzione: tutto quello che produce la nostra conoscenza la minaccia e la corrompe. Infatti, se siamo in grado di conoscere solo all’interno di una cultura che ci dà una lingua (un sapere, opere filosofiche e scientifiche), proprio qui possono emergere forme di occultamento, di manipolazione, di illusione. La conoscenza della conoscenza richiede un controllo vigile e costante su se stessi. Congedarsi dalla pretesa dell’universalità del proprio punto di vista vuol dire rimpatriare nell’orizzonte della conoscenza proprio chi ne è stato escluso: noi stessi. Non per ritornare all’idea di un osservatore come meravigliosa fonte di illuminazione, ma per l’urgenza di problematizzare, di procedere attraverso una felice autocritica: per meglio dire, razionalità autocritica che è poi il frutto migliore della cultura occidentale. Lo stesso Heidegger, in un suo commento su Kant, riprende tale problema. Un sapere giusto, ha sostenuto, nasce dalla conoscenza dei presupposti fondamentali del sapere. Siamo sempre e inevitabilmente collocati in questo circolo, senza riuscire a trovare fondamenti assoluti. Lo scienziato, il ricercatore, lo studioso, debbono diventare essi stessi, continuamente, oggetto di questa conoscenza.

Lo sviluppo della fisica moderna mostra come la conoscenza scientifica del mondo sia il prodotto di una struttura mentale e come la consapevolezza di sé vada oltre l’individualità soggettiva, per rimpatriarci, come diceva Montaigne, nella condizione umana. Indebolire le proprie pretese, evitare gli abusi della razionalità, significa dar maggiore potere alla propria capacità (auto)riflessiva. Occorre rivedere l’aspirazione a un meta-punto di vista. Non per cercare un punto di vista ideale e assoluto, ma per guadagnare un punto di osservazione che ci metta in condizione di considerare la nostra posizione e quella esterna a noi, fino all’orizzonte. È d’accordo?

Vede, la conoscenza è un cammino ordinario e straordinario, di conferma e sorpresa, fascinazione e sgomento, fatica e gioia. Apprendere non è soltanto riconoscere ciò che è già noto. Nemmeno trasformare l’ignoto in conoscenza. Ma giungere all’unione del riconoscimento e della scoperta, del conosciuto e di ciò che è ancora sconosciuto. Nello straordinario problema del rapporto mente-cervello vi è la trama, per molti versi inestricabile, attorno a cui ruotano visioni del mondo, problemi dell’uomo e della conoscenza: un ‘nodo gordiano’ che può essere sciolto solo con un netto colpo di spada. Il cammino della conoscenza ha un suo fascino e una sua pericolosità per così dire esistenziale. In ogni dottrina, in ogni teoria è presente un nucleo di idee che generano sentimenti di pienezza, una comunione con il reale. Questo permette di contemplare le verità nascoste dell’essere nel mondo, di penetrare il senso contemplativo originario del termine teoria (dal greco θεωρέω “guardo, osservo”), indicandone il carattere esistenziale. Intorno a questo nucleo si articolano giustificazioni empiriche, logiche e ideologiche, che stabiliscono l’adeguamento, a diversi livelli, tra i concetti e la realtà dei fenomeni. Così si possono cogliere solidarietà segrete tra teoria e realtà, quasi analogie magiche tra la sfera teorica e il mondo reale. Nella sua relazione con il mondo, la contemplazione teorica della verità s’illude di possedere il mondo, senza accorgersi di essere posseduta da esso.

Nella conoscenza teorica e nell’adesione alla sua verità vi sono, tuttavia, elementi estatici, finanche mistici. Questa dimensione estatica si manifesta quando la felicità intellettuale trasforma la contemplazione in rapimento. Accade nel momento in cui le ossessioni, i dubbi, le angosce esistenziali e le soddisfazioni si congiungono con la verità teorica. In un certo senso, ogni adesione a una teoria permette di concepire il mondo come un sistema ordinato, perfetto. Certo, la passione radicale per la conoscenza mette un freno al caos, allo sradicamento, alle frantumazioni, ma trasforma la sete logica dell’unità in una sete mistica. A una scoperta si accompagnano sempre il fascino e, insieme, i pericoli del godimento psichico e dell’estasi.

Ogni approssimazione alla verità comporta quasi una componente pre-estatica, finanche sub-magica. Così, chi pretenda di possedere la verità finirà per essere posseduto dalla verità. La troverà ovunque. La verità, invece, è anche fonte dei nostri errori, delle nostre illusioni. La conoscenza è fatta di aspetti individuali, soggettivi, esistenziali. Certo, la passione per la conoscenza può procurare piaceri esaltanti. Ma la conoscenza non può, non deve mai distaccarsi dall’esistenza. Ecco perché occorre stabilire una distanza dalle nostre passioni, senza lasciare che si attenuino o si estinguano. Occorre vivere con misura la passione della conoscenza. Colui che ama la verità deve diffidare del proprio narcisismo e cercare la verità al di là del principio di piacere. L’anelito fortissimo di conoscenza, il desiderio imperativo di verità, lo slancio che invita a conoscere per conoscere senza preoccuparsi delle conseguenze etiche, politiche o religiose è il motore più forte dell’avventura della conoscenza. Questo potente e imperioso desiderio – che ci spinge a superare gli ostacoli e a liberarci dagli imprinting socio-culturali – può anche ingannare la conoscenza, guidarla verso aspirazioni metafisiche presenti in modo segreto e inconscio prima della ricerca. Molti viaggi in cerca della verità si concludono con la risposta cui già in partenza si voleva arrivare. Sant’Agostino diceva della ricerca della verità: “Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”.

Quando si pensa più a fondo è l’evidenza stessa delle cose a diventar problema. C’è sempre un oltre, un fondo del fondamento da penetrare. Conoscere è elaborare concetti, mettere in forma idee. Ma è soprattutto intuire una presenza dietro la propria presenza. Non come un semplice slancio vitale, ma come un’urgenza che nasce dall’audacia, dal rischio, dalla libertà. Il pensiero non può abbracciare l’essere. Il suo è al più un movimento di approssimazione che apre qualche porta, qualche finestra per guardarvi dentro tramite la scienza, la filosofia, la religione, l’esperienza ordinaria. Cosa vuol dire tutto questo per il mondo dell’educazione?

Se ciò che abbiamo detto vale nell’ambito della ricerca scientifica (terreno elettivo delle personalità autonome fortemente e liberamente motivate, felicemente ossessionate dal desiderio di conoscenza e dal piacere della scoperta), nelle istituzioni scolastiche emergono problemi di natura diversa e opposta. Dove l’obbligo scolastico diviene coazione e banalizzazione, le istituzioni e le figure professionali appaiono irrigidite e i normali compiti quotidiani divengono funzioni di intrattenimento e sorveglianza, ecco, in queste situazioni, il piacere della scoperta e il gusto della conoscenza tendono ad appiattirsi, finanche a scomparire. Occorre il coraggio intellettuale di affermare che il rischio più grave della scuola di massa è nella sua stessa missione istituzionale, nella semplificazione delle conoscenze di base, per altri versi necessaria perché una scuola sia di tutti e per tutti. Nel cuore delle istituzioni serpeggia un’insidia, che ne permea i meccanismi ordinari e appiattisce il sapere anziché elevare i livelli di istruzione degli scolarizzati: la banalizzazione. Il tentativo di evitare l’inevitabile fatica di ogni conoscenza dotata di senso, ne crea un’altra, del tutto innaturale: l’inutilità, l’autoreferenzialità istituzionale, la separazione da ogni possibile senso, dei saperi e delle esistenze.

Ma se è impossibile capovolgere questi meccanismi, lei pensa sia possibile porre alcuni interrogativi di fondo che hanno a che fare con l’auto-educazione ed evitare così il rischio di banalizzazione che si annida nei tentativi di semplificazione cognitiva che nega ogni presupposto di senso della conoscenza? Non è proprio la de-banalizzazione il terreno elettivo della scienza e dei linguaggi complessi?

La sua domanda rinvia a un’altra domanda: a cosa e a chi serve una scuola che tende a semplificare e inevitabilmente a banalizzare le questioni difficili della conoscenza? Più radicalmente, a che cosa serve la scuola? Qui emerge tutta l’ambiguità del termine ‘servire’: da un lato ha il senso di conoscenza elementare, strumentale, utilitaria, dall’altro ha il senso di una funzione al servizio di qualcosa. In entrambi i casi, il termine servo resta pienamente. Il nostro sistema educativo mira a generare cittadini prevedibili, a neutralizzare le novità e l’imprevedibilità. Lo dimostra in modo incontrovertibile lo stesso metodo di verifica, l’esame, nel corso del quale allo studente si fanno solo domande di cui è già nota la risposta, che egli deve mandare a memoria. Heinz von Foerster, che chiama queste domande ‘illegittime’, si domanda: “Non sarebbe affascinante pensare a un sistema educativo che miri a de–banalizzare gli studenti, insegnando loro a fare ‘domande legittime’, domande di cui non si conosce la risposta?”.

Chi utilizzi in pieno le proprie capacità tende sempre ad alterare i propri stati di equilibrio e a seguire dinamiche di disequilibrio. Senta cosa scrive appassionatamente von Bertalanffy: (…) “se si prende come regola d’oro del comportamento il principio del mantenimento omeostatico, lo scopo ultimo sarà quel che viene detto l’individuo perfetto, cioè un robot ben lubrificato, che si mantiene in omeostasi biologica, psicologica e sociale ottimale. È il migliore dei mondi, che non è per tutti la condizione ideale dell’umanità. Inoltre, questo equilibrio mentale precario non deve essere disturbato: da cui, in quella che viene chiamata abbastanza comicamente l’educazione progressista, la paura di affaticare il bambino, di imporgli dei vincoli e di minimizzare gli influssi, il che ha come risultato: una messe inaudita di ignoranti e di delinquenti giovanili”. Che ne pensa?

Un’istruzione funzionale a una società anonima esclude gli individui dai circuiti della comunicazione, della partecipazione, della decisione. Induce in loro apatia, distacco, violenza, impotenza, alienazione: genera, cioè, individui inclini alla servitù politica, alla dittatura mediatica. I media (anche se social) restano, infatti, canali di comunicazione in cui le possibilità di feedback e, più in generale, di autoregolazione e controllo, di input di accesso restano bloccati dal sistema attuale. Siamo di fronte a una serie di fraintendimenti culturali, a partire dalla considerazione diffusa della ineluttabilità del primato tecnologico, divenuto quasi una sorta di ideologia ufficiale. Occorre fare attenzione! Così come è concepita oggi la scuola – in ogni caso, momento essenziale nella vita di ognuno – porta in sé, con i suoi luoghi comuni e il suo conformismo, il temibile rischio di diventare una doxa acritica, subalterna all’ideologia egemone e al potere politico. L’età classica della scuola racconta qualcosa di assolutamente diverso. A partire dagli esempi del Liceo di Platone e dell’Accademia di Aristotele, la scholé greca classica costituiva un tempo della vita consacrato alla conoscenza iniziale; un tempo naturalmente separato dalla vita ordinaria, cittadina, lavorativa; un tempo di preparazione alla vita. Si obietterà: un irripetibile modello aristocratico! Vero. Oggi, quel modello è del tutto irripetibile. Eppure, come non vedere, in un tempo di rivoluzioni scientifiche, culturali, tecnologiche, che le difficili questioni della contemporaneità esigono proprio quelle necessarie e insostituibili funzioni? Come non vedere che una scuola di massa, strutturata su esclusivi saperi tecnico-utilitari, è una risposta debole ai problemi giganteschi che abbiamo davanti? Come non vedere, insomma, che mentre tutto cambia ad una velocità senza precedenti un sapere di base minimo, uniforme, è del tutto inutile? Per reggere agli effetti spaesanti e sradicanti di un mondo in mutazione permanente, i saperi di base dovrebbero avere al loro interno domande di senso, capacità di apprendimento autonomo, possibilità di auto-educazione. Di più: dovrebbero esporsi al rischio dell’illusione e dell’errore. L’educazione deve farsi carico di questo problema e affrontarlo. Certo, riconoscere errori e illusioni è difficile. Non è semplice riconoscerli come tali. Ma compito di chi educa è mostrare, apertamente, che non esiste conoscenza che non sia esposta agli errori e alle illusioni.

Se è vero che la conoscenza non è mai uno specchio delle cose e che ogni percezione è, al tempo stesso, una traduzione e una ricostruzione di input fisico-chimici catturati e trasformati dai sensi, non è da qui che derivano molti errori di giudizio, che si aggiungono inevitabilmente agli errori intellettuali? Anche il linguaggio, le idee, le teorie – inevitabilmente espressioni di una traduzione/ricostruzione attraverso le parole e il pensiero – sono esposti continuamente al rischio di errori derivanti dall’interpretazione soggettiva, dalla visione del mondo, dai criteri e metodi di conoscenza. Eppure, molti credono sia possibile una conoscenza senza soggetto, le proiezioni delle nostre attese, dei nostri timori e delle nostre emozioni interferiscono fortemente con il nostro conoscere.

Vede, lo sviluppo della scienza è un potente strumento di individuazione degli errori e di controllo razionale delle illusioni. I paradigmi che indicano alla scienza il modo corretto di procedere possono a loro volta produrre illusioni. Nessuna teoria scientifica, per quanto rigorosa, può evitare l’errore al proprio interno. La conoscenza scientifica non può affrontare da sola le questioni epistemologiche ed etiche che l’assillano. L’importanza dell’illusione e dell’immaginario è enorme. Il nostro universo immaginale, nel quale fermentano bisogni, sogni, desideri, idee, immagini, fantasmi, impregna di sé la nostra visione del mondo esterno. Inoltre, per egocentrismo, auto-giustificazione, alibi, gli uomini possono mentire a se stessi. Eppoi, all’origine di molti errori vi è l’infedeltà della nostra memoria, che sovente tende a privilegiare i ricordi vantaggiosi e piacevoli e a rimuovere quelli svantaggiosi e spiacevoli. Si tratta di meccanismi inconsapevoli che deformano fortemente i ricordi, al punto da farci credere di aver vissuto (o, se rimossi, di non aver vissuto) eventi anche importanti della vita. Le nostre idee non solo possono errare, ma spesso proteggono e fanno da schermo agli errori e alle illusioni.

L’educazione deve muovere dalle incertezze legate alla conoscenza. La conoscenza è un’avventura incerta. Le illusioni più drammatiche sono intrinseche alle certezze dottrinali, dogmatiche e intolleranti. Mentre, invece, la consapevolezza del carattere incerto dell’atto conoscitivo è un’opportunità per raggiungere una conoscenza razionale. Montaigne ha indicato la finalità essenziale dell’insegnamento affermando che è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena: la prima indica un sapere accumulato senza principio di selezione, senza auto-organizzazione, forse senza senso; la seconda indica lo sviluppo di capacità autonome di apprendimento, di creatività, di invenzione. Lo sviluppo dell’intelligenza implica l’esercizio sistematico del dubbio, fondamento e linfa di ogni attività critica, che consente di ripensare il pensato sollecitando anche “il dubbio del suo stesso dubbio”. Non a caso Montaigne cita Dante: “Che, non men che saver, dubbiar m’aggrata”.

Il dubbio ha molto a che fare con l’educazione, parola forse troppo forte. Del resto, anche il termine formazione (che esprime una conformazione) appare insufficiente perché nega quelle pratiche autodidattiche che suscitano e favoriscono l’autonomia spirituale dell’individuo. Lo stesso termine insegnamento è troppo trasmissivo, dai caratteri restrittivi, quasi esclusivamente cognitivi. Così, se la parola ‘insegnamento’ è insufficiente, il termine ‘educazione’ comporta un eccesso e una mancanza. Non è semplice aggirare queste difficoltà semantico-concettuali. Sia come sia, resta evidente che la didattica non può aggirare il pensiero. Deve misurarsi con esso. A qualsiasi costo. Senza un pensiero pensante non può esservi alcuna trasmissione efficace. Il pensiero non può eludere i rischi di bias e le scelte errate. Rischierebbe di innescare da sé processi di auto-distruzione, attraverso meccanismi di scetticismo, relativismo, autocritica. Né è in grado di eliminare il rischio di auto-distruggersi nel momento stesso in cui tenta di auto-costruirsi. Questo è particolarmente evidente al livello più alto del pensiero creatore. Scoprire vuol dire vedere ciò che tutti hanno visto, ma pensare ciò che nessuno ha pensato, cogliere quel che in una percezione normale resta invisibile, portare all’evidenza un fenomeno sorprendente: proprio come quando Newton dedusse il movimento che attrae i corpi verso la terra dalla caduta di una mela. Solo un nuovo punto di vista rende la percezione meno semplicistica e spinge a pensare cose alle quali nessuno aveva ancora pensato.

Per vedere oltre ciò che tutti hanno visto è, tuttavia, necessaria una percezione nuova. Pensare ciò che nessuno ha pensato vuol dire cogliere le inevidenti evidenze attraverso sguardi che rendono possibile la realtà. In tal modo, ogni scoperta, a cominciare da quella di qualcosa visibile a tutti, è un’acquisizione che comporta invenzione e creazione. È d’accordo?

Penso che solo raramente un pensiero seriale riesca a dispiegare in pieno la propria capacità creatrice. All’opposto, un pensiero vivo resta libero, disperso, non specializzato, nelle scienze, nelle tecniche, nell’azione umana. Lo sviluppo della mente implica una consapevolezza riflessiva che allontani il rischio del pensatore onnisciente e, al tempo stesso, inconsapevole della propria soggettività. Certo, possiamo favorire un particolare insight su qualcosa in un’altra persona. Saremmo, tuttavia, ancora lontani da una conoscenza effettiva, che invece trasforma la consapevolezza di sé e sollecita un ripensamento critico della propria conoscenza, spingendolo a una messa in discussione dei suoi fondamenti. Questo insight emerge da un fondo oscuro, insondato e, forse, insondabile. Precede l’inconscio, come una sorta di avanguardia della mente. Al tempo stesso, gli corre dietro, cercando di recuperare lo sterminato sapere che l’evoluzione biologica ha accumulato fino all’homo sapiens. La nozione di coscienza corrisponde solo in parte a quella di conoscenza. Non è un paradosso affermare che le cose che conosciamo meglio sono quelle di cui siamo meno consapevoli. La stessa conoscenza è un processo per lo più inconsapevole. La consapevolezza se ne fa carico più tardi, e solo parzialmente. Invenzioni e creazioni sono le espressioni più elevate della consapevolezza, ma sono del tutto inseparabili da un lavoro inconscio che aspira alla luce o, se si vuole, vivono del dialogo tra coscienza e inconscio.

Per quanto autonoma, la coscienza non smette di dipendere dai processi da cui emerge. Rispetto al pluriverso psichico entro cui siamo immersi, i nostri sensi e la nostra memoria sono drammaticamente limitati. E, del resto, le nostre stesse spiegazioni non riescono a spiegare i nostri principi di spiegazione. Al più ci rendono consapevoli dell’incompiutezza della spiegazione, della ineliminabilità dell’inesplicabile, anche quando siamo nel cuore stesso della spiegazione.

La consapevolezza dei limiti della nostra intelligenza è intelligenza dei nostri limiti. Per i suoi legami con l’incognito (e l’inconoscibile) la conoscenza resta inevitabilmente incompiuta. Per conoscere meglio e ridurre la propria ignoranza, la conoscenza deve conoscersi. Vale lo stesso per il nostro Io: un universo affollato di personalità virtuali, fantasmi, sogni, idee, che oscilla, dalla nascita alla morte, tra dolore e piacere, amore e odio, bontà e risentimento, risa e lacrime, grandezza e miseria, vendetta e perdono. Riconoscere tutto questo vuol dire riconoscere il principio che fa della nostra identità un orizzonte finito con aperture infinite, un prisma dalle illimitate prospettive.

Come è possibile tradurre tutto questo in un processo di insegnamento? Come produrre un insegnamento che sia, al tempo stesso, oggetto e soggetto, processo critico e autocritico continuo del processo educativo?

Un insegnamento non può essere un ‘travaso con imbuto’ da un’emittente (che sa) a un ricevente (che non sa) uno scambio comunicativo. L’insegnamento è l’accoppiamento strutturale tra due sistemi cognitivi (l’insegnante e l’allievo), una ricerca esistenziale comune alimentata da aspirazioni dissonanti e contrastanti, dal dubbio e dal senso della verità, da congedi e nuovi incontri, dalla sorpresa dell’ignoto.

Questo breve viaggio nell’universo dell’educazione ha evidenziato come un’educazione al servizio di un programma di trasformazione sociale, con una scolarizzazione che deforma i criteri di istruzione e di educazione, senza luoghi di formazione “permanente e ricorrente”, prepari una lunga età di ignoranza, senza occasioni, senza stimoli. Al pieno delle intenzioni programmatiche e legislative corrisponde un vuoto di contenuti e risultati. Una società massificata, costituita da individui atomizzati, rende la vita culturale libera e spontanea di una società precaria e regressiva. Il confronto con le grandi, cruciali stagioni della storia della cultura e della formazione occidentali − la Paideia, le Toledot, la Bildung − evidenzia lo stato minimale, avvilito e degradato, di molta parte dell’istruzione pubblica di massa odierna. La scomparsa di un’educazione prevalentemente non scolastica, che ha caratterizzato diverse società precedenti, non ha certo contribuito a migliorare le condizioni di una formazione prevalentemente o unicamente scolastica. La scolarizzazione prolungata e obbligatoria, la corsa ai diplomi, l’università di massa: sono facce dello stesso falso progresso che prepara studenti orientati al consumo di programmi scolastici e merci culturali che preparano al conformismo sociale, all’obbedienza ai suoi governi. La stessa definizione del profilo degli insegnanti, volta a promuovere una didattica basata sul modello della trasmissione delle conoscenze, ha lasciato l’uomo della società dell’informazione privo di strumenti ed esposto al rischio di una mistificazione strumentale delle sue qualità migliori. Tutto questo ha spinto, una quarantina di anni fa, qualcuno ad ipotizzare una vera e propria descolarizzazione della società: cioè una rottura radicale con un sistema di poteri e di saperi che prepari il passaggio dagli stanchi rituali dell’educazione di massa all’apertura di spazi di autoapprendimento attraverso la propria vita e nell’incontro con l’altro. In altre parole, restituendo all’uomo il gusto di inventare, creare e sperimentare la propria vita partecipando alla sfida della vivibilità del pianeta in questo tempo.

I modelli educativi che sono stati espressioni di civiltà fondamentali dell’evoluzione umana hanno lasciato tracce di sé, vivono ancora oggi nella memoria di esempi fecondi di personalità geniali che si sono formate in quei sistemi. Ad esempio, la Paideia greca classica, progetto irriducibile alla pura technè, mira alla formazione complessiva dell’umanità dell’uomo. I giovani greci si formano in una civiltà dell’educazione che tende a raggiungere i valori più alti dell’umanità. Si trattava di un sistema formativo selettivo, agonistico, rivolto alla formazione di livelli superiori di umanità, di conquista di azioni d’onore, con il desiderio di gloria come vertice del percorso. Per il desiderio di gloria, per l’onore occorre conquistare un primato corporeo e vitale, per il quale occorre impegnarsi all’estremo, non evitare gli sforzi, correre dei rischi. Il vertice del sistema è aretè: la virtù, il valore, la capacità di eccellenza. Il modello della Paideia un modello morale, con al centro la cura dell’anima. Tutto è mosso da Eros, amore per l’anima e la bellezza. Un sistema pedagogico etico, estetico, problematico ed ermeneutico. Un’istituzione di una grande civiltà, che genera ed eleva la civiltà. Nell’universo ebraico, come abbiamo visto, invece, l’educazione è rivolta alla verità infinita e plurale, sorretta da inesauribili interpretazioni, rivolte non al discorso o alla tecnica ma alla formazione morale nella trasmissione di generazione in generazione. Ogni generazione ha il compito di aggiungere qualcosa, di scoprire novità. La conquista di un livello più elevato ed evoluto è possibile grazie alla solidità e alla vastità delle basi, della sapienza ricevuta, grazie al carattere interrogante e indagante di una conoscenza aperta a nuove domande, a nuovi sentieri di ricerca. In questo orizzonte dialettico che non conosce sintesi conclusive, chiusure, pretesa di sistematicità, l’etica prevale sull’ontologia.

Nell’identità ebraica esiste il rifiuto di abbassare i propri elevati livelli di formazione e l’analfabetismo religioso e culturale è condannato con forza e riprovato a tutti i livelli, non solo dai maestri, ma a livello popolare e familiare. Il sistema educativo ebraico mira ad una elevazione costante, etica, culturale, religiosa. Esso vive in un’interpretazione infinita, con un costante dovere creativo, esclude, previene la banalizzazione, la superficialità. Abraham Heschl ci ricorda: “la profondità evoca la profondità”.

Al confronto con questa tradizione appare chiaro che ogni sistema di mera istruzione strumentale, livellante, minimalista non è solo un vuoto educativo e un’istruzione fallimentare, con effetti regressivi per l’intera società, che pre-giudica il futuro stesso. Il destino della Bildung germanica – un sistema educativo di elevato umanesimo polivalente, di origine rinascimentale, con alcune caratteristiche di aristocrazia umanistica – mostra perfettamente come il passaggio da una impostazione umanistica elevata a un sapere strumentale tecnicizzato abbia non solo cancellato una intera luminosa tradizione, ma abbia portato la scuola tedesca ad essere indifesa e poi complice davanti all’avvento del nazismo. La scuola tedesca nazificata distrugge la Bildung classica in nome di una Bildung enfatizzata in senso nazionalistico razziale e politico-militarista. Si tratta di una vicenda estremamente significativa e ricca di insegnamenti. Ci mostra, infatti, che il sapere strumentale è un’illusione dal punto di vista della tenuta democratica; che una scuola senza valori è indifesa di fronte al male della tirannia, dell’uniformazione, del conformismo; infine, che una scuola incapace di difendersi dal male diventa inevitabilmente complice del male.

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