Alle radici della παιδεία

Conversazione con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Sergio Petrosino

Se dall’antichità in poi la trasmissione delle conoscenze e dei valori fondamentali ha garantito lo sviluppo di una società, questa millenaria tradizione si è oggi fortemente indebolita a causa di tensioni storiche e sociali inedite. L’educazione è divenuta un mezzo attraverso il quale il potere esercita la propria superiorità sui cittadini. Vi sono state altre fasi storiche in cui la tradizione dell’humanitas o della paideia si è offuscata, affievolita o addirittura interrotta. Nella romanità antica, ad esempio, quest’oscuramento provocò l’abbandono dei modelli della scuola classica, cui fece seguito un radicale cambiamento che cancellò il latino come lingua popolare parlata e, più in generale, un clima di grave immobilismo e regressione sociale. Quando l’educazione è funzionale a una struttura sociale è estremamente difficile cambiarla senza minare le basi la società stessa o sconvolgerne la stabilità. Forse per introdurre questo breve viaggio nell’universo dell’educazione potremmo provare a dare una rappresentazione di quanto storicamente è avvenuto, che ne pensa?

Direi che, sul piano storico, fu l’illuminismo a far prevalere una visione progressista dell’educazione su quella conservatrice della tradizione. Da allora, per i riformatori e i rivoluzionari di ogni epoca, l’educazione diverrà uno strumento decisivo di trasformazione sociale. Anche se le istituzioni educative assicureranno, per molto tempo ancora, la trasmissione dei valori tradizionali, nel lungo periodo prevarrà la nuova visione dell’educazione al servizio del cambiamento sociale. Nelle società tradizionali, una componente notevole della trasmissione era garantita dalle classi di età e l’educazione si svolgeva attraverso due percorsi. Il primo consisteva in un’iniziazione, una cerimonia rituale che prevedeva il superamento di alcune prove relative alle conoscenze e alle esperienze adeguate all’età e all’identità di genere. I fanciulli e i giovani erano considerati in possesso di poteri particolari, i quali però si estinguevano con il matrimonio e la vecchiaia. In queste società, se ai più piccoli era assegnato il ruolo di intermediari con il ‘soprannaturale’, ai giovani veniva richiesto di animare i giochi e di organizzare le feste, ma anche essere depositari dell’onore virile, difensori degli usi e del diritto campestri, campioni della comunità contro nemici ed estranei. Era nell’azione o, per meglio dire, nella preparazione all’azione, che il più giovane riceveva da quello meno giovane (non di rado dal fratello maggiore d’età più vicina alla sua) le conoscenze necessarie: i valori da rispettare, i giochi, le canzoni, le storie, gli atteggiamenti gratuiti e altro ancora. È in questo modo che il più giovane imparava a sviluppare, insieme alla memoria, all’immaginazione, alla voce e ai gesti, il coraggio, la forza e la destrezza.

In quest’epoca della vita, l’educazione non precedeva l’azione. Né, del resto, la preparava. L’educazione era, essa stessa, azione.

Proprio così. Si apprendeva prima il ruolo di giovane celibe, poi quello di adulto sposato attraverso un altra cerimonia di iniziazione: il matrimonio. Ad ogni categoria corrispondeva un insieme di conoscenze e di regole di condotta. L’educazione durava tutta la vita, ed ogni passaggio d’età esigeva una sorta di rieducazione. Aspetti di tale concezione sopravviveranno fra gli umanisti rinascimentali del XV secolo e si propagheranno nella storia successiva come forme di resistenza al tentativo modernista di limitare la formazione dell’adulto ad un breve periodo della vita. Se la prima forma di educazione è l’età funzionale, la seconda è l’associazione tra coetanei. In realtà, con i coetanei si trascorreva l’intera giornata. Nessuna barriera – in casa, al lavoro, nello spazio sociale delle strade e delle piazze, delle chiese o in occasione di feste o giochi – separava i bambini e i giovani dagli adulti. Per molti secoli, è avvenuta così la trasmissione del sapere. Nel basso medioevo le cose cambiano. A questo tipo di educazione subentra l’idea e la pratica dell’apprendistato. Bambini e giovani imparano a far le cose aiutando gli adulti. Tutti i ragazzi o i ragazzi, appartenenti o meno alla nobiltà o a una classe umile, appena fisicamente autonomi, venivano affidati dalla famiglia naturale a un’altra famiglia o a maestri che avrebbero insegnato loro il futuro mestiere. È il caso del fanciullo che lavorava come apprendista nella bottega di un maestro o del piccolo chierico che entrava a far parte della ‘casa’ di un vescovo o di un canonico. Si trattava di un apprendistato che comprendeva due livelli di attività: il primo era un apprendimento diretto, applicato alle tecniche dei mestieri (al quale non erano estranee punizioni severe da parte dei maestri); il secondo era un servizio che l’apprendista svolgeva alla stregua di un vero e proprio servitore, in ruoli domestici, successivamente affidati a salariati. Per molto tempo il servizio è stato l’asse portante di un’educazione non-scolastica. Non perché la scuola fosse scomparsa – all’ombra delle cattedrali continuava ad esistere. Ma era per lo più una scuola latina tecnica, ad uso dei futuri chierici. Anche in questo caso lo scolaro era un apprendista, servitore di un canonico che provvedeva alle sue necessità e lo mandava a scuola. In modo non dissimile, il fanciullo di famiglia nobile entrava come paggio nella casa di un signore, che seguiva in guerra, nella caccia e nei tornei.

Vi erano segni di cambiamento già nel XVII e XVIII secolo, ma è nel XIX che l’apprendistato viene limitato ai bambini che non andavano a scuola, utilizzati come piccoli operai impiegati con mansioni limitate nelle fabbriche e non come apprendisti. L’idea che un’educazione potesse non avvenire tout court nel laboratorio o in fabbrica provoca cambiamenti che investono l’organizzazione stessa della educazione–trasmissione. Irrompe come una novità assoluta una forte sfiducia verso l’apprendistato. Nel Seicento, infatti, la scuola veniva considerata, soprattutto dai gentiluomini, un luogo inutile nelle mani di pedanti. Il cortigiano, ancora modello di civiltà, si dava molto da fare per far dimenticare di esservi stato e mostrare che le buone maniere e le cose più importanti della vita non si imparano a scuola. Tutto questo fa da premessa importante a una stagione di cambiamento profondo che avverrà nell’Otto-Novecento.

La formazione dei giovani si diffonde fuori dalla società, in uno spazio riservato – la scuola – che sostituisce l’apprendistato con gli adulti e tra gli adulti. La scolarizzazione della gioventù diviene una lunga tappa di acculturazione per una società che passa dalla trasmissione orale alla scrittura. Se, per tutto il Medioevo e l’età moderna, oralità e scrittura si erano mescolate, con l’illuminismo e fino alla contemporaneità è la scrittura a prevalere sugli altri mezzi tradizionali di comunicazione. A guidare questo processo di acculturazione è la scolarizzazione, che guadagna progressivamente terreno fino alle legislazioni che rendono obbligatorio l’insegnamento-apprendimento primario. Tale processo si diffonde rapidamente in tutti i paesi industrializzati dopo la seconda guerra mondiale quando si realizza una vera e propria ‘esplosione scolastica’.

Tale potente espansione induce molti a chiedersi se non sia proprio la scolarizzazione la causa della crisi della condizione giovanile e dell’inadeguatezza dei giovani a vivere nella società degli adulti; o se questo processo non dipendesse dall’influenza delle riforme religiose, protestante e cattolica del Cinquecento. Dubbi plausibili, non crede?

Si trattava ancora di una popolazione nutrita di superstizioni cui veniva insegnata una religione istituzionale: non era semplice che uomini di ragione e religione potessero stabilire ordine e moralità. Parte da qui la lunga marcia della scolarizzazione che oggi ha raggiunto la sua massima diffusione e, insieme, i suoi massimi fallimenti.

Per molti sociologi la scolarizzazione è stata raggiunta attraverso lo smantellamento della famiglia tradizionale a favore dei poteri pubblici. Ariès, forse il più noto studioso di rapporti generazionali, ha sostenuto che per prepararli al futuro e ai pericoli della vita adulta, i bambini e i giovani sono stati rinchiusi in scuole e collegi, per la stessa volontà d’ordine, di disciplina e moralità, che spinse a rinchiudere i malati di mente e i vagabondi negli ospedali psichiatrici. Oggi, per le trasformazioni della famiglia nucleare moderna e la diminuzione delle nascite, la formazione viene programmata. Se la famiglia patriarcale non riusciva più ad assicurare la socializzazione ai bambini, la famiglia contemporanea concentra in sé tutte le funzioni di socializzazione e di educazione, un tempo assicurate dalla comunità, delegando poi alla scuola ben precise funzioni. Cosa ne pensa?

Per i molteplici effetti della massificazione della scolarità e dei processi mediatici di cultura di massa, la scolarizzazione pubblica sembra ignorare le domande di senso, ma anche l’importanza che l’apprendimento – come mostra un numero sempre più ampio di evidenze scientifiche – è fortemente sollecitato da processi legati alle emozioni. Come se non bastassero secoli di arte e letteratura, in ambito scientifico ci si è richiamati spesso a pensatori come Spinoza, il quale sosteneva che i sentimenti e le emozioni incidono fortemente sul comportamento umano. Oggi, anche grazie alle nuove metodiche di studio del cervello, sappiamo qualcosa in più sulla natura delle emozioni, sul loro ruolo nella nostra razionalità. Diversi neuroscienziati, a cominciare da Antonio Damasio, hanno rilanciato la teoria spinoziana delle emozioni, secondo la quale il pensiero è incarnato nel corpo, assegnando ad esso una funzione determinante nella formazione della mente. 

Lei si è occupato a lungo di questioni relative ai problemi decisionali. Ha sostenuto che, sebbene nei millenni la mente umana abbia accumulato informazioni e conoscenze mediante un’enorme quantità di decisioni razionali, è altrettanto vero che la grande maggioranza delle decisioni è stata sostenuta da una logica naturale, le cui regole si sono mostrate evolutivamente vantaggiose. Insomma, emozioni, rischio, imprevedibilità e incertezza accompagnano costantemente le nostre condotte razionali.

Negli anni ’50 del secolo scorso, Herbert Simon avanzò il concetto di “razionalitàlimitata”, secondo cui un individuo, a causa dei propri limiti cognitivi, adotta schemi semplificati nella soluzione di problemi. Inoltre, le nostre azioni sono fortemente condizionate da rappresentazioni distorte del rischio che rendono improbabili risposte ottimali. In questo senso, la razionalità non è un dato psicologico immediato, ma un esercizio complesso che si ottiene (e si mantiene) solo a determinati costi psicologici. Per quanto paradossale possa sembrare, dunque, la razionalità non è una facoltà tipica della nostra specie. Semmai, tipica della nostra specie è la capacità di individuare determinate contraddizioni, analizzarle, controllarle ed eventualmente respingerle.

Lei sostiene che l’esercizio della razionalità ci obbliga a riconoscere i nostri limiti, a conoscerne meglio le complesse geografie, a elaborare nuove teorie, a migliorare i nostri giudizi, a dubitare delle nostre immediate percezioni. Ma una percezione non è solo un’attività di invenzione: infatti, essa rievoca e rinnova in noi frammenti di vita remota. Del resto, non esisterebbe il presente se la percezione non conservasse in se stessa un passato, se in qualche modo non lo contenesse in sé. Una percezione non fa la sintesi di un oggetto, né lo riceve passivamente, come pure hanno sostenuto a lungo gli empiristi. L’unità dell’oggetto appare con il tempo, e il tempo sfugge mano a mano che lo si riafferra. In questo senso, è il nostro corpo, mediante il nostro sguardo, ad esplorare e a dare un passato al presente e ad orientarci verso l’avvenire.

Non lo si poteva dire meglio. Queste considerazioni riguardano da vicino l’apprendimento, che è fortemente intrecciato con l’intera esperienza del corpo. Non riesco a immaginare il corpo se non come pensiero corporeo. Gli stessi sentimenti dell’amore, dell’odio, del ricordo, dell’attesa e della speranza hanno a che fare profondamente con il corpo. Pensi alla memoria. Senza memoria non vi sarebbero affetti. Non vi sarebbe rimorso. Non vi sarebbe persona. Vi sarebbe solo il nulla. I nostri progenitori pensavano che la memoria abitasse in prossimità del cuore, il luogo in cui da sempre poeti e cantori credono risieda l’anima. “Apprendre par coeur”, “learn by heart”, “hafiza a’n zahri kalb”, sono solo alcuni esempi di come in molte lingue “imparare a memoria” si dica “imparare con il cuore”. Tutto questo nella scuola contemporanea sembra perduto.

Eppure l’uomo è sempre lo stesso. Anche nell’età del progresso e della tecnica. Solo che, con il disincanto del mondo, sembra non abbia più bisogno di Dio o della magia. Certo, ha razionalizzato la civiltà, l’ha resa artificiale. Ma dovremmo domandarci: è felice? O, almeno, è soddisfatto della vita che conduce?

Della vita del singolo individuo civilizzato Max Weber diceva che questa: “(…) inserita nel progresso, nell’infinito, per il suo stesso significato immanente non può avere alcun termine. Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva “vecchio e sazio della vita” perché si trovava nell’ambito della vita organica, perché la sua vita, anche per il suo significato, alla sera della sua giornata gli aveva portato ciò che poteva offrirgli, perché non rimanevano per lui enigmi da risolvere ed egli poteva perciò averne “abbastanza”. Ma un uomo incivilito, il quale partecipa all’arricchimento della civiltà in idee, conoscenze, problemi, può divenire “stanco della vita” ma non sazio (…) la morte è per lui un accadimento assurdo. Ed essendo la morte priva di senso, lo è anche la vita civile come tale, in quanto appunto con la sua assurda “progressività” fa della morte un assurdo”. Weber vide lucidamente come la razionalizzazione del mondo, generata dal progresso e dalla tecnica moderni, avrebbe imposto un prezzo alto da pagare: la perdita dei valori che orientano e giustificano le azioni dell’uomo. L’uomo moderno non può più esser sazio di vita. Né sembra in grado di trovare un senso alle proprie azioni. Certo, è divenuto potente, al punto da piegare, sottomettere la natura alla sua volontà. Ma questo stesso gesto lo ha precipitato nell’assurdo. Non conosce più il perché del suo agire e del suo vivere. Al perché manca la risposta o, come ebbe a dire Nietzsche, questa è il nichilismo, “il più inquietante degli ospiti”. Il senso di precarietà e di angoscia non solo non è stato arginato, ma ad esso si sono aggiunti un sentimento di incertezza e di acuta mancanza di direzione. Il nichilismo è un ospite fisso del nostro tempo, che ha ghermito alle spalle l’uomo provocando in lui un senso di inquietante spaesamento. Lo stesso sentimento che spinse Pascal a dire: “inabissato nell’immensità degli spazi che ignoro e m’ignorano, io mi spavento”.

Proviamo a orientare il nostro dialogo verso il tema dell’educazione. Qui, il modello più antico, e forse il più fecondo, è la paideia. Formatasi nella stagione migliore della democrazia greca antica, questa prima espressione di umanesimo educativo considerava l’uomo tutt’altro che un semplice organismo biologico, ma un essere spirituale e sociale che, emancipato dalla propria condizione naturale, realizza la forma di umanità che la polis indica come ideale del cittadino. Ha origine qui la concezione dell’educazione come cultura. L’uomo si realizza solo nella tensione verso l’ideale. La sua crescita è una costruzione consapevole improntata ai valori più alti dell’umanità.

La paideia muove dall’idea dell’uomo come immagine universale della specie, non dall’uomo concreto. L’educazione rende concreta quest’idea. In origine, la paideia era un’educazione tecnica che preparava il fanciullo alla vita. Solo più tardi, esprimerà quell’ideale di perfezione umana cui si perviene attraverso le arti, le lettere, la scienza. Un ruolo pedagogico era svolto dall’aedo omerico, il quale trasmetteva tramite l’oralità ritmica (cantava “ciò che era, che è, e che sarà”), la memoria e la tradizione poetica. In quella stagione della storia greca non esistevano istituzioni pedagogiche: dunque, compito precipuo della polis è la paideia dei cittadini, che aveva luogo direttamente nelle assemblee, nel teatro, nei simposi, nei riti religiosi. Lo stile di vita dell’aristocrazia greca è improntato a un ideale agonistico. Non bisogna solo sentirsi ‘primi’: occorre esserlo. L’azione onorevole rafforza e realizza il desiderio di gloria. Degno d’onore è colui che non risparmia sforzi; colui che non arretra davanti al rischio; colui che supera tutti gli altri nell’esercizio delle qualità mentali e corporee, impiegandole all’estremo. Bussola del suo agire è l’onore, che egli ricerca sfidando ogni volta il pericolo con l’animo sereno di chi aspetta l’occasione migliore per dare (e mostrare) il meglio di sé. Un eroe cerca la fama e l’onore prima di qualsiasi altra cosa. Insomma, il fine dell’educazione è il raggiungimento dell’ἀρετή, la virtù di distinguersi ed eccellere in ogni ambito e circostanza della vita: una disposizione d’animo rivolta al bene, un modo d’essere che trasforma l’uomo in eroe. Non a caso, cifra del messaggio omerico è l’emulazione degli eroi. La funzione educativa del poeta è immortalare l’eroe: l’epos come asse portante della paideia. Figure tipiche di educatori sono Chirone, il centauro saggio e il vecchio aio Fenice, entrambi maestri di Achille. “Sono io che ti ho fatto ciò che sei”, dice Fenice ad Achille.

Naturalmente per discutere di educazione si passa inaggirabilmente da Socrate. La sua missione educativa è racchiusa in una domanda morale, che è al tempo stesso una scoperta e una risposta all’incertezza del suo tempo. Una domanda che esprime un dubbio e non presuppone risposte.

Esclamando “so di non sapere”, Socrate stigmatizza le sicurezze ingenue dell’uomo non moralmente avvertito. Dedica tutto se stesso alla ricerca di una risoluzione morale, anche quando, per lasciarsi alle spalle la sofistica, rimette in discussione l’esistenza stessa del suo circolo. Per Socrate, una domanda è di gran lunga più importante di una risposta. Ad una domanda, infatti, è possibile rispondere con ciò che è implicito nella domanda stessa. Non solo. Una domanda è tutt’altro che uno strumento per dominare l’interlocutore, umiliarlo o confonderlo, per poi esibire la propria saggezza. È un mezzo per superare la sterilità di un sapere esteriore, riconoscere l’indigenza del proprio sapere, in particolare sul fine ultimo della vita.

Il progetto educativo di Socrate è tanto generale quanto dinamico, aperto. La sapienza socratica è una filo-sofia, non una sofia. Sul bene, ad esempio, egli non ha risposte a portata di mano. Ha solo domande. Per questo cerca di provocare negli altri le stesse domande. Cambiare vuol dire far ritorno alle domande. Se poi la domanda è sul bene ultimo, allora è necessaria una conversione radicale, che costringa a tornare su se stessi per avvicinarsi progressivamente alla saggezza, al bene, alla verità. Quale è l’obiettivo di Socrate con il suo tentativo di risvegliare la domanda negli altri?

Socrate sollecita tutti a non preoccuparsi delle cose superficiali e a prendersi cura di sé e della propria anima. Questa cura di se stessi è la premessa da cui dipende anche l’azione pubblica. Il motore della cura dell’anima è eros, termine che Platone usa per descrivere la relazione affettiva di Socrate con i suoi discepoli. Nonostante molte viete interpretazioni, l’eros socratico non è amore dei corpi, ma amore dell’anima e della sua bellezza. La cura dell’anima è il punctum crucis di una riforma morale come esortazione alla vita consapevole, incoraggiamento al vivere rivolto a se stesso. Essa nasce da una sovversione che ‘destabilizza’ l’opinione comune, da una domanda che non è la presa d’atto del non-sapere, ma è sapere di non-sapere e, dunque, consapevolezza dei propri limiti conoscitivi. È questo a generare l’umiltà, la forza che spinge la vita umana in prossimità del suo fine ultimo. L’esortazione socratica alla cura dell’anima è una tensione verso il bene che, pur se sovente celato nella penombra, è vivo e presente nell’uomo. Questo rapporto con il bene è un rapporto con se stessi, con gli altri e con il divino nelle diverse forme della virtù: saggezza, temperanza, giustizia, forza, pietà. Socrate esorta alla rinuncia dei fini immediati e di tutto ciò che si presenta come vantaggio immediato della vita. Già solo il giudizio morale verso gli atteggiamenti meschini, pavidi, vili è in sé un progetto di vita. Occorre esaminarsi, essere consapevoli. Ma questo presuppone un più alto livello di vita: cioè, la consapevolezza di sé come via per la creazione di una vita autentica.

Nella scuola rinascimentale i principi dell’autonomia della ragione e della volontà costituiscono l’eredità fondamentale della paideia: appunto, il suo “rinascimento”. Qui l’uomo singolo riafferma se stesso come artefice della propria fortuna, arbitro del proprio mondo, microcosmo che tutto può conoscere contro ogni principio di autorità. Egli può dominare tutto perché ha in sé l’universo. Non ha ragione qui l’atteggiamento prometeico di parte della cultura occidentale, incarnata in una tecnica che divora tempo e cose in un moto vertiginoso.

Se per Aristotele l’uomo può attingere al divino, per Marsilio Ficino può oltrepassare ogni confine. In Dante è l’ardore “a divenir del mondo esperto”. Eppure l’humanitas, cioè la personalità autonoma, non è data apriori: bisogna giungervi mediante i valori dell’educazione. In età rinascimentale, come evidenzia la continua creazione di istituzioni scolastiche ad ogni livello, l’educazione ha un ruolo centrale. Celebre è la scuola di Vittorino da Feltre, la “casa gioiosa”, il cui frontone d’ingresso recava la seguente iscrizione: “venite, fanciulli, qui si istruisce, non si tormenta”.

Non fu proprio questa straordinaria temperie culturale a far del Rinascimento il regno della pedagogia utopistica, della scoperta di orizzonti di formazione e di esistenza inediti, al di fuori del tempo e dello spazio, a cui rinvia lo stesso termine “utopia”?

L’educazione utopica di Rabelais, che prese forma nell’abbazia di Thélème, è il crocevia luminoso della civiltà rinascimentale, il trionfo (nella libertà) dell’ideale educativo della libertà. A Thélème vige una sola regola: “fai ciò che vuoi”, in una nobile emulazione tra uomini liberi e ben istruiti. Quello smisurato programma di studio ammetteva ogni forma di esercizio fisico, ogni genere di abilità manuale e tecnica, tutte le scienze teoriche e pratiche, le arti, i piaceri, le distrazioni della vita. Un’utopia fondata sul divertimento, l’allegria, l’ilarità: perché, come dice Rabelais, “ridere è proprio dell’uomo”. Un’utopia, infine, che tiene in sé le aspirazioni e le idee dell’umanesimo rinascimentale come eredità seminale, ponte lanciato verso il futuro, che ispira una permanente innovazione educativa.

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