Il Giano bifronte. Vincoli e possibilità della tecnologia

Dialogo con il professore Santo Di Nuovo

a cura di Benedetta Muzii

Fin dal principio, l’emergenza sanitaria ha tracciato una linea di confine tra una quotidianità illusoriamente imperturbabile e un panorama di incertezza. Un sisma che ha scosso la collettività interpellando, tra gli altri, attori sociali designati alla cura e all’educazione dei più piccoli. Basti pensare all’apprensione di migliaia di genitori e la corsa ai ripari da parte di un sistema scolastico e universitario già affannato nella corsa alla digitalizzazione. Ma quali sono i rischi insiti nell’adeguamento dell’esperienza formativa alla rassicurante asetticità degli spazi virtuali?

Ne parliamo con Santo Di Nuovo, professore di Psicologia generale all’Università di Catania e presidente dell’Associazione Italiana di Psicologia (AIP), società che raccoglie oltre 1200 iscritti, tra accademici, docenti e ricercatori delle Università italiane e degli enti di ricerca. Da anni l’associazione si occupa di rappresentare e intervenire presso le istituzioni affinché i contributi della scienza psicologica, in tutte le sue declinazioni, divengano operative nella pluralità delle esigenze sociali. Per fronteggiare sul piano scientifico le diverse criticità della pandemia, l’AIP sta raccogliendo contributi e ricerche dalle diverse realtà accademiche, nonché interloquendo, in quanto società scientifica delle professioni sanitarie, con il Ministero della Salute.

Professore, a causa del coronavirus abbiamo fronteggiato una sorta di “conversione digitale” delle nostre vite di relazione che ha riguardato anche i bambini e la loro esperienza didattica. Cosa ne pensa?

Questa “conversione” è stata accelerata dalla contingenza dell’epidemia, ma in realtà si basa su pratiche già scientificamente validate; basti pensare ai Serious Games, innovativa frontiera dell’educazione attraverso esperienze immersive ludico-formative la cui efficacia è verificata da innumerevoli studi, tanto da strutturare una disciplina formativa denominata Edutainment: “educare intrattenendo”.

La didattica, così come la qualità della vita in senso generale, può beneficiare certamente delle tecnologie informatiche e degli ambienti digitali; questi offrono un supporto ‘intelligente’ e versatile, da programmare con oculato giudizio, su basi scientificamente fondate per evitare facili entusiasmi. Sovente le nuove tecnologie vengono considerate una soluzione globale e definitiva per accrescere la qualità della formazione e la trasmissione delle conoscenze; ma, sebbene un supporto informatico possa fare da “supplente” a un bisogno – come durante la fase di lockdown in cui abbiamo transitato – l’educazione e i metodi didattici hanno bisogno di dimensioni altre. Mi riferisco ai fattori emotivi, relazionali, interattivi che si realizzano in presenza, e che coltivano il coinvolgimento nel processo di apprendimento anche nelle fasi di valutazione (come interrogazioni, prove in itinere, esami). Questo vale tanto per la didattica universitaria quanto per quella della scuola dell’obbligo, a maggior ragione per i bambini più piccoli, per gli alunni con bisogni speciali e per i ragazzi che non dispongono di risorse adeguate (come device aggiornati, connessione stabile o dimestichezza con i dispositivi) per frequentare con profitto le lezioni. Tutti casi in cui la lezione frontale – che è la modalità più conforme per l’erogazione a distanza – è meno essenziale, se non secondaria, rispetto alla didattica e all’educazione in presenza.

In questo periodo siamo stati, in misura più o meno intensa, esposti ad un fenomeno squisitamente post-moderno denominato “digital fatigue”; vale anche per i bambini?

Certamente, a maggior ragione se questo “affaticamento” riguarda non il mero aspetto fisico, ma il significato sociale e psicologico dell’overdose digitale. Il trasferimento nel virtuale di molte esperienze comunicative e relazionali altera la nostra vita, nella quale tali modalità andrebbero integrate, e non diventare sostituzioni delle forme dirette, emotive, ‘intime’ se vogliamo. È comprensibile che ciò sia avvenuto in caso di distanziamento necessario – come quello attuale – ma, come per la didattica, non può diventare modalità elettiva e invariante. Chi reggerebbe tanto tempo davanti a uno schermo per lavorare in smart working, presenziare a lezioni, riunioni telematiche, ecc. nelle ore lavorative, aggiungendo poi quelle di svago su piattaforme di intrattenimento e social network? Insomma, costantemente videoconnessi…

I bambini specialmente vedrebbero perturbato il loro pieno e completo sviluppo. Sul piano della resistenza fisica, i più giovani sentono meno la fatica perché sono nativi digitali, abituati all’uso di computer e altri device: di fatto una generazione iperconnessa. Per questo sentono meno anche il peso della post-modernità che porta al distanziamento – a prescindere dall’attuale situazione – e alla compensazione digitale. Se non si interviene per frenare questo processo, esasperato dalla pandemia, rischiano di restarne vittime. E con loro tutto il mondo del prossimo futuro.

Poco fa accennava agli alunni con bisogni educativi speciali. Riprenderei per un momento questo tema, dato che nella sua esperienza professionale e di ricerca ha maturato una rilevante conoscenza nel campo dei disturbi del neurosviluppo. Anche in questo ambito le nuove tecnologie, utilizzate saggiamente, rappresentano una grande risorsa. Ce ne parla?

La ricerca ha dimostrato che le tecnologie possono favorire il potenziamento delle funzioni cognitive, come l’attenzione e l’automatizzazione di alcune abilità (per esempio, quelle necessarie per la lettura) lasciando spazio a processi più complessi, come la comprensione del significato, il pensiero finalizzato e sequenziale nella soluzione di problemi. L’automatizzazione favorisce un corretto e proficuo multitasking, che in altre condizioni potrebbe, al contrario, indurre il depotenziamento dei diversi processi coinvolti contemporaneamente. Altre funzioni cognitive possono essere stimolate e potenziate da un corretto uso delle tecnologie, come ad esempio le capacità immaginative e rappresentative, utile nell’apprendimento creativo, e l’orientamento visuo-spaziale necessario per la riabilitazione in condizioni di deficit del neurosviluppo.

Nel mio ambito di ricerca utilizziamo da tempo – e con grande profitto – la realtà virtuale e la robotica sociale (cioè capace di comunicazione e interazione) per trattare disturbi quali la disabilità intellettiva o l’autismo. Ciò è reso però possibile sempre all’interno di una programmazione accurata, orientata all’implementazione di tecnologie a supporto del trattamento, e mai come sostituto ad esso. Lasciare i bambini esposti alla sola stimolazione del dispositivo, senza la presenza attiva e sollecita di un genitore o il monitoraggio di un esperto nei protocolli sperimentali, aumenta la tendenza al ripiegamento in se stessi.

La ricerca scientifica è un settore che ha, come tutti, risentito dei provvedimenti sanitari, soprattutto per quanto riguarda gli studi sul campo. Secondo lei quali sono i possibili scenari della ricerca scientifica nell’epoca del distanziamento fisico?

Il mondo accademico e scientifico ha tanto da precisare sugli argomenti di cui abbiamo parlato. In questo periodo di forzato distanziamento la metodologia ha dovuto riconfigurarsi, quanto e come ha potuto, sui canali digitali. Sono innumerevoli in Italia e nel mondo gli studi avviati mediante strumenti telematici, come i questionari online e le interviste in videoconferenza, non solo sugli effetti psicologici dell’epidemia e del distanziamento, ma anche sull’efficacia degli stessi strumenti digitali. Come devono essere predisposti tali strumenti, e come devono essere usati affinché si possa fruire al meglio delle loro potenzialità? Nondimeno, come possono essere ridotti i rischi della post-modernità, sebbene l’immersione nelle tecnologie si sia imposta perentoriamente nella gestione della crisi che stiamo attraversando? Sono queste le domande che ci stanno accompagnando e, se la ricerca saprà cogliere il tempo dato dalla contingenza pandemica per perseguire questi importanti obiettivi, anche una tragica epidemia non sarà passata invano.

Sembrerebbe quindi giunto, dopo una lunga stagione di smodata fiducia nel progresso tecnologico, un tempo che esige una meta-riflessione sul nostro rapporto con l’universo digitale. Forse uscire, in senso letterale e figurato, sarà possibile compiendo i primi passi a partire da noi stessi – sospendendo i nostri automatismi – per assumere una nuova epistemologia, assicurandoci di tracciare un nuovo percorso anche per le generazioni future.

Sono d’accordo. La potenza della tecnologia non deve trarci in inganno: essa è un validissimo supporto, non la soluzione finale da anteporre ad ogni ostacolo, né tantomeno apparato ausiliario a sostituzione delle nostre funzioni cognitive. In questo senso siamo tutti chiamati, come individui, genitori, membri della comunità e ricercatori, a dissodare il cammino verso una più consapevole applicazione dei modelli di progresso tecnologico. Occorre porsi da una prospettiva esterna al nostro modo di vivere non solo la tecnologia, ma la relazionalità di quest’epoca post-moderna. Per utilizzare una metafora, mettersi nella condizione di un “alieno” che osserva e riflette su quanto avviene nel nostro mondo, un movimento dall’esterno che restituisce alla coscienza temi altrimenti sottovalutati o dimenticati. A questo proposito, per chi volesse approfondire questi argomenti attraverso uno sguardo inedito – per restituire al nostro punto di vista il rinnovato diletto della scoperta – consiglio il sito Alieno tra noi che consta di aggiornamenti settimanali su questo ed altri numerosi temi.

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