Il non ancora del pensiero

Dialogo con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Benedetta Muzii

Per uno scrittore, come per un lettore, ogni narrazione è un’avventura continua. Un autore intraprende il proprio viaggio creativo in uno scarto tra l’immaginazione che precede il farsi della scrittura, tra fiammate improvvisative e una dura fatica costruttiva, con imprevisti per lui stesso sorprendenti. L’esito sarà inevitabilmente diverso dall’intuizione e dall’ideazione iniziali. Ad ogni passo, l’autore si troverà davanti molteplici possibilità, sentieri divergenti, scelte a rischio. Spesso l’artista decide d’istinto: istinto che è tutt’uno con la padronanza formale, l’intelligenza emotiva, la volontà determinata di realizzazione. Ad opera compiuta, quell’istinto sarà sembrato infallibile, ma nel momento della creazione la possibilità del fallimento era fortissimo. Eppure, come abbiamo visto in diversi casi di questo viaggio – Proust, Kafka e altri – il rischio di fallire e l’incertezza hanno scolpito la forma espressiva.          

Un creatore, un artista, realizza la propria opera facendola. Ma lo saprà solo quando non gli servirà più, perché l’opera è finalmente terminata. Marcel, il protagonista della Recherche proustiana, proiezione simbolicamente trasfigurata dello stesso autore, diviene scrittore di successo al punto più alto dell’angosciosa incertezza riguardo la propria vocazione e la propria capacità di scrittura: continuava a ripetere “io non so scrivere”. Incertezza ogni volta superata da slanci creativi, ispirazioni luminose, ondate improvvisative. Nell’opera di Proust è lo stesso processo di creazione a diventare protagonista di una delle più straordinarie opere di tutti i tempi. La libera e contraddittoria officina della scrittura confluisce con un’intensa luce stilistica nella scrittura stessa. Narrazione, saggio, confessione esistenziale, slancio lirico si fondono in un’ampia e variegata scrittura.

Che ruolo ha l’improvvisazione nella creazione dell’opera d’arte?

In genere, dopo un’incubazione e un lavoro preparatorio accurato, giunge l’ora dell’improvvisazione. Questa rivela uno dei lati più segreti dell’inizio di un processo di formazione, evidenziando lo snodo cruciale nel quale la materia impone la propria volontà o si lascia dominare. Ovviamente riesce a dominarla solo chi sa assecondarla, facendo in modo che le sue tendenze, più che imposizioni da subire, diventino indicazioni e ispirazioni da sfruttare.

Lei ha sostenuto che l’improvvisazione spezza il cerchio che irretisce la mente razionale. Può spiegarci?

Sì, l’improvvisazione rimette in questione quell’astrazione chiamata Io, su cui crediamo di esercitare piena sovranità: un’astrazione che pullula di sensazioni, pensieri e memorie, ed è continuamente potenziata da nuove esperienze e informazioni corporee; un’astrazione mai del tutto unificata, sostenuta dal gioco concorrenziale di diverse coscienze (tutte interne a uno stesso Io) e fortificata da associazioni attorno a complessi di idee concatenati. Si tratta di dinamiche di assimilazione e rifiuto che definiscono la libertà espressiva dell’Io. Occorre fare vuoto, congedarsi dal pensiero razionale, vero intralcio all’emergere di forze e conoscenze autonome e disperse provenienti da memorie antichissime e inconsapevoli. Niente come l’improvvisazione rende evidente quanto erronea sia ogni sostanzializzazione dell’Io. Siamo una pluralità che si è immaginata unità. A pensare è l’organismo intero. Tutto il corpo prende parte al pensiero, al sentimento, alla volontà. Questa pluralità instabile, in permanente tensione, è composta da tante forme di consapevolezza quante sono le strutture che costituiscono il corpo. Dunque, se esiste in noi una forma di unità, questa non poggia sull’Io consapevole, ma sulla capacità del corpo di ricordare, decidere, anticipare, inventare. L’Io è solo uno strumento di tali processi, una sintesi concettuale di altre identità immaginarie.

Sembra quasi che la formazione dell’opera d’arte sia un puro tentare fondato su se stesso e su ciò che si intende ottenere.

L’esperienza degli artisti prova che la formazione dell’opera d’arte ha molti caratteri dell’avventura. L’agire artistico è un processo nel quale si fa e si esegue senza sapere in partenza con precisione che cosa si vuole fare e come lo si deve fare. Lo si scopre e inventa via via. Solo dopo la riuscita dell’opera si vede con chiarezza che ciò che si è realizzato era quel che si doveva fare, e che il modo seguito nel farlo era quello giusto. Non c’è alternativa: occorre trovare la propria strada e percorrerla sino in fondo. L’artista non immagina compiutamente la propria opera per poi eseguirla e realizzarla: la disegna mentre la fa. Solo operando nella scrittura, nella pittura, nella composizione musicale o nel canto l’artista trova e inventa la forma. Finché il processo dura tutto è in gioco. Ogni smarrimento, ogni diversione può condurre al fallimento. Perché quel che doveva coagularsi e comporsi può dissolversi.

Messa così la creazione artistica sembra una difficile avventura. D’altra parte, non si dice che l’artista è un giocatore che tenta la fortuna?

Vede, anche quando l’artista sente dentro sé un libero flusso creativo, e crede di aver chiara la via da seguire, non ha nessuna garanzia di riuscirvi. Deve solo gettarsi nella creazione, procedere per prove ed errori, tentativi e rifacimenti. Naturalmente, il processo artistico non è privo di guida. L’idea che la creazione artistica sia l’esecuzione di un’immagine interiore, o che l’artista prima trovi la forma e poi l’esegua (come se un’opera d’arte fosse la conversione di un’idea in segni fisici) non spiega cosa accade davvero. Certo, l’artista nel creare procede come se fosse guidato. Ma solo perché si rende conto di poter fallire. Di solito, quando riesce, è in grado di riconoscere la scoperta riuscita o il tentativo fallito, individuando quel che è da eliminare, sostituire o modificare.

Dunque, l’artista non solo non dispone di una guida, ma cerca e tenta sostenuto dall’idea di essere ricompensato dalla scoperta. Se riuscisse nel suo intento, saprebbe d’avere colto nel segno, d’avere trovato quel che cercava guidato da una febbrile attesa della scoperta.

Proprio così. L’avventura creatrice ha dentro di sé una tendenza alla scoperta e una speranza di riuscita che già costituiscono in sé una determinata direzione. I tentativi già contengono, come lei dice, l’attesa della scoperta. Invenzione ed esecuzione sono simultanee, guidate da presagi, intuizioni, prefigurazioni.

In che senso, dunque, l’opera d’arte è la riuscita dopo una serie di tentativi?

Attenzione, tentare non vuol dire imboccare una strada qualsiasi, inaugurare possibilità o scegliere un’unica via da percorrere. Tentare è aprire una via tra un groviglio di possibilità per scegliere. Senza il tentare la scoperta non potrebbe nemmeno nascere la ricerca. Ma scoperta e ricerca sono tutt’uno. In questo senso, il cercare è sempre guidato dal presagio della scoperta, come espressione di un’attesa, ricompensa di una speranza. In questo senso, il trovare s’intreccia al cercare, convertendone la speranza e l’attesa in presentimento e rivelazione.

In un’attività creatrice l’artista si sente più libero e creatore, perché aperto e disponibile a forze che suscitano e stimolano l’azione. Sembra sia proprio in questa coincidenza di invenzione e realizzazione il grande mistero dell’arte: lo stesso mistero che ha, però, esposto il fenomeno della creatività a un doppio malinteso: da un lato, quello di ridurre la creatività alla sola formazione di opere artistiche e scientifiche; dall’altro, di considerarla eccezionale e rara, una qualità straordinaria di poche privilegiate persone. Solo in tempi recenti la considerazione della creatività ha acquistato il senso di un discorso a sé stante.

Oggi la creatività è considerata come una capacità di creare il nuovo, di formare nuove costellazioni di idee, affrontando i problemi attraverso modalità diverse ed efficaci. In questo senso, la creatività diviene un fattore della personalità come altri: l’autonomia, l’intelligenza, l’equilibrio, la capacità di giudizio, ecc., di cui ciascuno dispone con gradi e intensità diversi. In questo ambito, si sviluppa l’attuale interesse scientifico e un’area di ricerca e di conoscenza che investe i vari movimenti costitutivi della creatività. Gli elementi dinamici sono stati analizzati a partire dagli accenni significativi, sebbene occasionali, avanzati da Freud, secondo il quale il processo creativo consiste nella valutazione sublimata di tensioni inconsce che altrimenti sarebbero distruttive per lo stesso soggetto. In realtà, nel pensiero post-freudiano la ricerca va oltre. Si considera, infatti, la creatività come una fusione di attività mentali secondarie come pensare, riflettere, razionalizzare, con istanze istintuali primarie tipiche dell’inconscio o del preconscio. Si tratterebbe, cioè, di un processo nel quale il soggetto, pur restando se stesso, si getta nella ricchezza caotica e fluida delle energie istintive, recuperando nell’ideazione il magma e tutta la complessità della sfera preconscia.

La psicologia attuale considera la creatività come una realizzazione degli impulsi ad esprimersi e autorealizzarsi. Ciò, diversamente dalla psicoanalisi classica, secondo cui pulsioni profonde costituiscono una riserva di energie positive che, liberate dalle limitazioni imposte dalla cultura, conducono ad una realizzazione autentica del sé, e a una pienezza della vita psichica. In altre parole, più autonomia, indipendenza e apertura alle più diverse esperienze.

Un contributo interessante agli studi sulla creatività sono stati quelli di Guildorf sul pensiero divergente, che esprime originalità di idee, fluidità concettuale, sensibilità per i problemi, capacità di auto-organizzazione e altro ancora. Nel pensiero divergente entra in gioco e si esprime la creatività, che implica agilità di pensiero, flessibilità associativa, ideativa, figurativa, insieme a intuizione, curiosità e sensibilità estetica. A mio avviso, però, per una comprensione dei processi creativi occorre rileggere Jung. Lo psicoanalista svizzero riconcettualizza la libido freudiana: la descrive come un fiume che scorre ramificandosi in una enorme varietà di attitudini e attività umane: creatività, fantasia, immaginazione, arte. Questa mossa lo distanzia dalla riduzione della creatività alla sublimazione dell’istinto sessuale. La libido, dice Jung, è un vettore fluido che genera nessi simbolici, analogie, echi tra esperienze in apparenza diverse e distanti, che istituisce legami di significato al di fuori di ogni categorizzazione.

Mi pare vi sia anche qui dissenso con il maestro viennese, che definiva la libido un enorme serbatoio di energia sessuale. Non è così?

Jung ammette che il nostro linguaggio è intriso di metafore erotiche, ma esprime riserve sul fatto che il simbolismo sessuale abbia necessariamente carattere erotico. Egli individuava due stili di pensiero: uno indirizzato, che si adegua alla realtà e simula l’ordine delle cose; l’altro non indirizzato, puramente associativo, che non comporta fatica, in cui le operazioni sono quasi automatiche e la concentrazione è a tal punto intensa da rendere irrilevante tutto quello che vi è intorno. Jung, che qui riprende l’immenso lavoro svolto da William James, anticipa quasi di un secolo i termini di quel che oggi viene chiamato flow: quello stato di coscienza che oggi sappiamo essere correlato a un’attività prefrontale ridotta che chiama in causa plausibilmente i sistemi cognitivi impliciti, i quali permettono l’espletamento di abilità collaudate e funzioni cognitive senza interferenze del sistema esplicito. In termini neurobiologici si tratta di uno stato transitorio di minore attività del lobo prefrontale, che ‘sospende’ temporaneamente le proprie attività.

Dunque il pensiero non indirizzato è correlato alla capacità di associare intuizioni, impressioni ed esperienze diverse, non finalizzate, alle espressioni razionali della nostra vita di relazione.

Chiariamo. Il pensiero non indirizzato non si oppone al pensiero logico: ne è una declinazione precognitiva, preverbale. I due tipi di pensiero non si escludono l’uno con l’altro, ma costituiscono poli di un’oscillazione tipica della vita della nostra mente. L’oscillazione continua tra questi poli consente al primo di temperare e compensare l’influenzamento dell’uno sulle attività dell’altro. Del pensiero junghiano mi interessa molto questa dimensione sulle forme non ordinate del pensiero, il sorgere del non ancora del pensiero che, a mio avviso, conta più di tante teorie, analisi e narrazioni letterarie. Si tratta di una concezione che ha esercitato una rilevante influenza sull’estetica della letteratura. L’ordine-disordine archetipico e simbolico junghiano getta luce sui processi e sui modi della creazione letteraria e della sua lettura-interpretazione. Certo, la qualità e la singolarità stilistica di un autore raffina e potenzia la creazione, ma non attenua il “fuoco divoratore” dell’ispirazione e del flusso dell’improvvisazione creativa. Anzi, la luce stilistica potenzia ed esalta la forza primordiale archetipica e simbolica dell’impulso creativo. È accaduto in tutte le grandi narrazioni: con il canone omerico, le terzine, i canti e le cantiche di Dante; con il linguaggio scenico-gestuale-corporeo della teatralità di Shakespeare; il complesso periodare della sinfonia verbale e della prosa poetica di Proust; la polifonia narrativa e l’autonomia dei personaggi di Dostoevskij; l’angosciata condizione di uomini contemporanei soggetti a processi e torture psicofisici in Kafka e Pirandello; il flusso di coscienza dell’Ulisse di Joyce.

Nel nostro breve viaggio, abbiamo visto che ispirazione, improvvisazione e immaginazione nella creazione narrativa sono potenti e davvero tali quando i motivi scatenanti abbiano con sé le colonne di fuoco della grandezza, della bellezza, dell’esemplarità. Nella radice pulsionale del non-ancora presente, nella tensione tra aspirazione e realtà.

Direi che originalità, sovversione, fuoco divoratore dell’ispirazione sono parte di ogni grande creazione. Ahimé, si tratta di una prerogativa dei giganti, di individualità potenti che si autogovernano e vivono di luce propria. L’improvvisazione ideativa è, per sua natura, un atto di libertà vivente. Non può esistere creazione artistica senza che il valore della bellezza e la sua verità sia sottratta al suo esilio ed elevata nella gerarchia dei valori. L’eclissi della bellezza si accompagna a un suo apparente trionfo, di fatto declassata a una versione cosmetica e al culto della prestanza corporea. Ma l’idea di bellezza ha ispirato i grandi artisti e sarà sempre motivo animatore e conduttore di ogni immaginazione e invenzione artistica. Invece la rimozione della bellezza diventa un architrave del livellamento, dell’ineducazione, della democrazia statistica a rischio totalitario. La bellezza nella sua dimensione controcorrente è più viva che mai, privilegio di uomini liberi. La rappresentazione di una forma sensibile nell’eminenza artistica contiene una domanda di senso inaggirabile e ineludibile.

Potremmo dire così: che più che salvare il mondo, secondo la famosa esortazione di Dostoevskij, oggi la bellezza deve essere salvata dal mondo, affinché possa restituirci la sua attrazione magnetica e il suo valore autonomo.

Proprio nella sua qualità artistica l’opera d’arte include un passato ed inaugura un futuro, come forma essa conclude un processo e ne apre di nuovi, perché è sia compimento di una formazione, sia stimolo per una nova opera. In sé, l’opera artistica è un risultato e un modello. La sua indipendenza e perfezione va intesa come compiutezza ed esemplarità.

Come far comprendere che l’opera d’arte, di per sé singola e irripetibile, può diventare un modello?

Se l’opera è esemplare, lo è perché la sua universalità non è separabile dalla sua singolarità, perché la legge che la governa è singolare e universale. Una creazione autentica e originale non ha a che fare con modelli. Creare è un atto di pura audacia e, insieme, di profonda interiorità, in cui si leggono, spinte all’eccesso, le tensioni che l’artista deve affrontare, tra la pura ricerca artistica e la necessità di ridefinirsi sul piano individuale e pubblico. I nuclei sepolti nella sua interiorità sono materiali da liberare e trasformare. In questo sublime gioco a dadi con il suo cervello, più di qualsiasi cosa, l’artista spera che nulla interferisca con il movimento delle sue mani, con le molteplici rappresentazioni e suggestioni che attraversano fugaci la sua coscienza.

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