La legge morale dentro di me. Siamo forse predestinati alla bontà?

Conversazione con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Sergio Petrosino e Benedetta Muzii

L’incontro tra l’IA e le metodiche di brain imaging sta aprendo scenari sin qui insospettati, facendo emergere questioni nuove e drammatiche. La fiducia nella capacità delle neuroscienze di rispondere a questioni difficili come la responsabilità, l’imputabilità o di dirimere quelle situazioni in cui il libero arbitrio sembra essere oscurato da evenienze psicopatologiche, sta rendendo tutto più difficile. Le controverse relazioni tra la scienza (che ricerca la verità) e il diritto (che tenta di far corrispondere condotte individuali, norme e ordine sociale) ripropone antiche domande sui rapporti tra la morale e la verità. In che modo la morale potrebbe essere oggettiva?

Per il suo speciale statuto e per la molteplicità dei suoi punti di vista, è sempre molto faticoso trovare terreni condivisi sulla morale. Gli innumerevoli tentativi falliti di trovarvi una qualche oggettività consiglierebbero di tenersene alla larga. D’altra parte, eravamo entrati nel secolo scorso pieni di illusioni sulle “magnifiche sorti e progressive” e siamo stati risucchiati dal buco nero della barbarie, con la pianificazione del terrore e dello sterminio. L’orrore, tuttavia, non deve far velo al nostro tentativo di comprensione dell’incomprensibile. Ecco perché ci spingiamo con timore e tremore sul territorio insidioso e terribile della morale e della libertà, sollecitati dalle intriganti e controverse proposte di naturalizzazione della morale avanzate dalle neuroscienze e dalla filosofia.

Ecco alcune domande intorno a cui ruota il dibattito attuale: se la morale ha le sue radici nel cervello, che cosa ne è del libero arbitrio? Possiamo dirci ancora liberi o la libertà è un’illusione? Perché ogni società ha principi e codici morali? E, prima ancora, perché esiste la morale?

È probabile che la presenza della morale assolva funzioni necessarie alla nostra vita associata, consentendoci di negoziare e modificare singoli valori (e interi sistemi di valore) per la costruzione di norme e procedure prescrittive. I sistemi di valore, d’altronde, sono fortemente influenzati da emozioni e sentimenti come il piacere, il dolore, la rabbia, il disgusto, la paura, la compassione. La loro incidenza nelle interazioni umane è all’origine di un’enorme quantità di conseguenze sociali e giuridiche. Tra altre funzioni le emozioni costituiscono una sorta di difesa della fragilità umana e di argine all’aggressività. Infatti ci riportano continuamente alla nostra condizione. In un sistema giuridico le emozioni possono servire a far ritenere illegittime certe condotte assumendole nel giudizio di imputabilità di fronte ad atti criminali.

Detto questo, quale è la loro funzione nei giudizi morali?

Per un comportamento ‘giusto’, si potrebbe rispondere. In fondo, ogni società è piena di persone cui le prescrizioni morali ingiungono di agire ‘giustamente’ – e forse questo rappresenta addirittura un argomento a favore della morale come istituzione universale. Questa, però, è una descrizione morale della funzione della morale, non una risposta sulla sua origine. Messa in altri termini la questione diventa: perché pratiche e istituzioni morali sono universalmente presenti? Sin qui, la ricerca teorica ha largamente privilegiato l’idea che alla base dei giudizi morali vi sia la razionalità. Negli ultimi decenni, tuttavia, le scienze sperimentali hanno ridimensionato la portata di questo assunto. È stato evidenziato, infatti, come all’origine del giudizio morale vi siano non solo rilevanti componenti emotive e affettive, ma anche costruzioni razionali a posteriori. La rivalutazione, poi, delle componenti sociali e culturali nella formazione della morale ha portato a ridefinire il ruolo stesso del ragionamento. Sono andati così delineandosi modelli alternativi alla descrizione razionalista della morale.

Alcuni studiosi hanno sostenuto che essa abbia rilevanti affinità con il linguaggio. Nel senso che saremmo equipaggiati di un senso innato di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, proprio come siamo equipaggiati di una struttura innata del linguaggio. D’altra parte, non è vero che un bambino impara a parlare prima di conoscere la grammatica?

Ecco, alla base dei nostri giudizi vi sarebbe una sorta di grammatica morale universale, analoga alla grammatica linguistica universale. A sostegno dell’ipotesi secondo cui le persone elaborano giudizi morali, prima ancora della consapevolezza delle relative reazioni emotive, sono state riportate evidenze clinico-lesionali, dati dell’evoluzione, ricerche di psicologia dello sviluppo, test neuropsicologici. Si è sostenuto che i giudizi morali avrebbero origine da analisi inconsapevoli degli effetti di un’azione e che imbarazzo, vergogna e senso di colpa verrebbero più tardi. Insomma, avremmo ricevuto, in dote, un’istintiva grammatica dell’azione su quanto è giusto e sbagliato. Naturalmente, qui si potrebbe discutere a lungo sull’esistenza di un’origine profonda del giudizio morale (preconsapevole) e le giustificazioni razionali ex post, ma rimandiamo la discussione a un’altra occasione.

Questa ipotesi sembrerebbe, comunque, confermata dai quadri clinici di pazienti con lesioni della corteccia prefrontale, i quali pur mantenendo intatta la conoscenza delle regole morali manifestano anomali comportamenti per la loro incapacità di provare emozioni congrue.

Tali ricerche delineano un sistema estremamente sofisticato: quello di una morale fortemente intrecciata con i processi neurobiologici al cui centro vi sarebbero le emozioni, anche se in posizione non dominante. L’impatto di queste ricerche su questioni generali è imponente. Studi sul comportamento sociale animale intraspecifico e interspecifico hanno rilevato l’esistenza di condotte volte all’esclusivo interesse individuale, cui ne corrispondono altre, di segno altruistico, che estendono i benefici all’intero gruppo sociale: anche quando queste implicano alti costi per l’individuo cooperante. Sotto la lente di ingrandimento sono stati messi, tra gli altri, il comportamento dei pesci: la pulizia intraspecifica, la raccolta cooperativa del cibo, lo scambio di uova tra ermafroditi, l’aiuto al nido da parte di individui non fecondi, l’allarme tramite feromoni, il comportamento aggressivo; il comportamento degli uccelli: la caccia cooperativa, il richiamo in presenza di cibo, la condivisione del cibo, gli schemi d’allarme, l’aggressività; il comportamento dei mammiferi: la pulizia reciproca, i segnali d’allarme, le coalizioni per la difesa reciproca, la cura allo-parentale; infine il comportamento e la complessa organizzazione degli insetti eusociali. Si tratta di evidenze che potrebbero segnare un punto a favore della tesi secondo cui esiste una tendenza innata all’altruismo e al vantaggio reciproco.

Uno studioso kantiano (che ritiene giusto un comportamento solo se conforme alla legge morale) giudicherebbe queste evidenze prive di forza normativa.

Nondimeno se venissero provate competenze morali innate si potrebbe guardare con occhi diversi ai temi della solidarietà e della violenza, della reciprocità e dell’intolleranza, senza farsi troppo condizionare da visioni del mondo religiose, filosofiche o culturali. Gettare luce su tali sfere è uno dei compiti più rilevanti della ricerca sperimentale. Sarebbe una perdita trascurarne o addirittura ignorarne l’importanza. Una conoscenza più approfondita di tali dinamiche arricchirebbe di gran lunga il nostro vocabolario morale, dotandoci indirettamente anche di criteri utili ad affrontare le enormi questioni legate al progresso della ricerca.

Proviamo a guardare alle cose da un’altra prospettiva. Negli anni ’70 Libet dimostrò che il nostro cervello decide prima di rendersene conto e che alla guida delle nostre condotte vi sono processi inconsapevoli. Più recentemente, studi con fMRI hanno suggerito che le nostre azioni avrebbero un tempo di latenza addirittura più ampio di quello misurato da Libet e che il valore di queste evidenze travalicherebbe l’ambito sperimentale per investire tutte le scelte della vita ordinaria. Insomma, nessuna azione sarebbe libera e consapevole. Questo vorrebbe dire che non abbiamo libertà di scelta e che saremmo tutt’altro al comando della propria vita. Insomma, saremmo solo, come qualcuno ha sostenuto, dei burattini biochimici. È davvero così? Davvero le nostre azioni, i nostri progetti, le nostre speranze sono un sottoprodotto dellattività del nostro cervello?

Ne dubito. Certo, le prove che specifiche aree del cervello sono necessarie a determinate funzioni stanno diventando sempre più accurate. Ed è certo di grande importanza poter ‘fotografare’ variazioni metaboliche del nostro cervello mentre osserviamo opere d’arte, parliamo, ascoltiamo musica, esprimiamo giudizi morali o ci lasciamo andare alla pura fantasia. Penetrare ambiti sempre più remoti del cervello contribuisce a un ripensamento profondo della natura umana. Tuttavia, come ha osservato Alberto Oliverio, questa visione dal di fuori è esposta a rischi notevoli, come quello di ritenere immodificabile ciò che è fotografato ‘oggettivamente’. Il nostro cervello modifica le proprie funzioni (e finanche le proprie strutture) in base all’esperienza con una libertà che le visioni strettamente normative dell’etica e del diritto disconoscono.

Il nostro sistema giuridico cardine essenziale delle istituzioni di una società – dovrebbe essere integrato, molto più di quanto non lo sia, da cognizioni accurate relative a quanto (e quando) un individuo è (o non è) responsabile di quello che fa.

Le conoscenze sperimentali parlano di un individuo che agisce impegnando tutte le aree che il cervello ha selezionato nel corso dell’evoluzione, di decisioni razionali profondamente influenzate dalle emozioni e su cui abbiamo solo un flebile controllo consapevole. Il dibattito giuridico e filosofico non può non tener conto di tutto questo. In realtà, nella tradizione del pensiero occidentale esistono teorie dell’azione volontaria e del libero arbitrio molto distanti dalla teoria kantiana della razionalità, secondo cui il soggetto è indifferente alle influenze del corpo. Teorie che definiscono in modi estremamente realistici l’esperienza soggettiva, l’esercizio della libertà, l’azione volontaria. All’inizio del secolo, Ribot annota che un’idea che sia solo un’idea, un semplice fatto di conoscenza, non produce niente. Un’idea ha conseguenze solo se accompagnata da uno stato affettivo, solo se evoca un’azione motoria. Dice Ribot, puoi anche aver studiato a fondo la Ragion pratica di Kant, averne penetrato tutta la profondità, averla arricchita delle chiose più lucide, ma non avrai aggiunto una virgola alla morale concreta. Negare che la morale viene da un altrove, aggiunge Ribot, è uno dei più rovinosi esiti della deriva intellettualistica della psicologia.

Si fa sempre più strada l’idea che i nostri comportamenti siano influenzati da sistemi di valore, biologicamente determinati, che regolano lesperienza per effetto di dinamiche adattative.

L’evoluzione ontogenetica e filogenetica mostra che non saremmo nemmeno sopravvissuti senza i nostri repertori emozionali e i nostri dispositivi decisionali. Emozioni ed euristiche sono strumenti di una logica naturale che ci aiutano a giudicare le nostre condotte in determinate circostanze, rivelandoci molto più rapidamente di un ragionamento cosa possiamo desiderare, temere e altro ancora. Oggi sappiamo molto meglio di un tempo come utilizziamo creativamente l’esperienza memorizzata per affrontare situazioni nuove, utilizzando sia le esperienze accumulate dalla specie, sia quelle accumulate dall’individuo. È proprio la memoria sensoriale – in cui esperienza personale, interpersonale e natura si connettono inestricabilmente – a costituire la base materiale della nostra identità morale.

Ma emozioni ed euristiche possono costituire le basi esclusive di una morale universale?

Vi sono ragioni per nutrire un certo scetticismo. Abbiamo altri strumenti (il pensiero, il linguaggio, la cultura) che ci consentono di destreggiarci tra i vincoli della necessità e le possibilità della libertà. Anni fa furono studiate, mediante fMRI, le reazioni di soggetti esposti a forti suggestioni emotive e a problemi che evocavano risposte razionali. Di fronte al dilemma che prevedeva di uccidere qualcuno con le proprie mani, nel cervello degli intervistati esplodeva un vero e proprio conflitto tra aree evolutivamente più recenti (le parti mediali dei lobi frontali) e altre evolutivamente più antiche (la corteccia cingolata anteriore). Diversamente, quando le persone erano chiamate a riflettere su una situazione che non prevedeva azioni su un altro individuo, nel loro cervello si attivavano aree solitamente coinvolte nel calcolo (la superficie dorso laterale dei lobi frontali). È suggestivo ritenere che queste differenti risposte abbiano ragioni adattative.

Probabilmente allalba dellumanità non esistevano dilemmi impersonali. Lassoluta mancanza di norme intersoggettivamente vincolanti e, soprattutto, riconducibili a valori impersonali, spingeva i nostri antenati verso condotte non mediate (o almeno temperate) dalla riflessione.

Vivendo poi in piccoli gruppi, la violenza e le ostilità dei primi uomini si manifestavano inevitabilmente in forma personale, attraverso l’uso di armi rudimentali che colpivano a distanza ravvicinata. Questi atti di violenza, e le emozioni a essi collegate, potrebbero spiegare perché anche solo immaginare di arrecare male fisico a qualcuno provochi malessere. Non è un caso, del resto, che nelle guerre di tutti i tempi che hanno preceduto l’uso di armi a distanza, per neutralizzare le naturali resistenze, gli strateghi ricorrevano – oltre che a ragioni etiche, giuridiche, economiche e religiose – alla disumanizzazione del nemico, alla sua declassazione a razza inferiore, trasformando la ‘naturale’ aggressività interspecifica in espressioni di pura distruttività senza pietas.

Qualsiasi discussione, anche rapida come nel nostro caso della relazione tra morale e decisioni passa per il confronto con lopera di Philippa Foot, filosofa inglese attiva nella seconda metà del secolo scorso in Inghilterra e negli Stati Uniti. Si deve a lei il celebre esperimento, denominato Dilemma del carrello ferroviario, che ha influenzato (e, per molti versi, influenza ancora) la filosofia morale del nostro tempo.

 Sì, l’esperimento è celebre. È più o meno questo: un carrello ferroviario senza più freni procede velocemente verso cinque persone al lavoro sui binari. Verranno di certo uccise se nessuno farà qualcosa. Il solo modo per metterle in salvo è premere un pulsante che devierà la corsa del carrello su un binario alternativo sul quale è impegnato un altro operaio. Schiacciando il pulsante cinque persone si salveranno, ma inevitabilmente una soccomberà. Alla domanda “deviereste il carrello in modo da salvare cinque persone a costo della vita di una?”, quasi tutti gli intervistati considerano plausibile schiacciare il pulsante. In fondo non c’è da sorprendersi. Sacrificare una persona al posto di cinque, per quanto orribile sia, ha una sua razionalità. Vi è poi, un secondo esperimento, non dissimile dal primo. Stessa scena. Un treno fuori controllo e cinque persone, al lavoro sui binari, ignare di quel che sta per accadergli. Vi è solo una differenza: accanto a noi, su un cavalcavia, si trova un corpulento sconosciuto. Il cavalcavia è a metà strada tra il carrello e i cinque operai al lavoro sui binari, proprio sotto di noi. Il rischio di strage è altissimo. Per quanto raccapricciante, l’unica possibilità di evitarla è spingere giù lo sconosciuto. Le generose proporzioni del suo corpo arresteranno di certo il carrello. Il poverino morirà, ma il suo sacrificio avrà salvato i cinque operai. Ecco dunque la domanda: “spingereste l’ignaro vicino verso la morte per salvare i cinque operai?”. Qui, le cose si complicano. In entrambi i casi, ne sacrifichi uno e ne salvi cinque. Dal punto di vista utilitaristico, entrambe le scelte soddisfano il criterio del bene per il maggior numero di persone. Tuttavia, se nel primo caso la maggior parte degli intervistati schiaccerebbe il pulsante; nel secondo caso, senza saperlo spiegare, la maggior parte rifiuterebbe di spingere giù il pingue sconosciuto.

Come è noto, questi esperimenti hanno acceso vivaci discussioni, chiamando in gioco protagonisti di discipline diverse. Ben oltre lambito filosofico. In alcuni casi, il valore dellesperimento è stato messo in dubbio. Si è obiettato: è difficile trarre conclusioni da esperimenti con così tante variabili! Eppoi, come usciamo dalla opposizione personale/impersonale? Siamo proprio sicuri che i mezzi giustifichino sempre i fini? Ma, ciò che più conta, è che lesperimento non considera che ogni azione fa storia a sé e va sempre analizzata per le sue effettive intenzioni. Sì, perché una cosa è salvare il maggior numero di persone, unaltra è non far del male a una persona ignara e innocente. Su questi terreni, poi, le emozioni non aiutano. Infatti, sacrificare una persona per salvarne cinque ha una sua razionalità, spingere un uomo giù da un cavalcavia è un’azione ripugnante. È, dunque, del tutto naturale rifiutarsi di farlo.

Si tratta di un terreno scivoloso. Tuttavia, prima di qualsiasi discussione occorre intendersi su alcuni punti essenziali. Una morale innata dovrebbe contemplare alcune regole fondamentali: non uccidere, non rubare, non ingannare, essere onesti, leali, altruisti. Forse anche aver fiducia nella capacità degli uomini di apprendere regole morali. Anni fa, Marc Hauser ha suggerito che il comportamento animale – per territorialità, gerarchie, reciprocità, dinamiche di gruppo, ricerca del cibo e altro ancora – potrebbe aiutarci a comprenderne le strutture sociali e culturali dell’uomo, ma soprattutto a trarre indicazioni per un sistema condiviso di regole morali. Ad esempio, la reciprocità sociale – ovviamente molto meno complessa negli animali rispetto all’uomo – è una risorsa formidabile. Promuove, infatti, comportamenti virtuosi e sanziona quelli non virtuosi, spinge al differimento delle azioni nel tempo e via dicendo.

Queste dinamiche indurrebbero a credere che sia parte di una morale in qualche modo innata. Insomma, potrebbe essere una prova del fatto che nasciamo dotati di una grammatica morale universale.

Naturalmente, le disposizioni morali innate non si fermano alla bontà, all’altruismo o alla solidarietà. Ve ne sono anche altre, come la tendenza alla discriminazione, alla violenza tribale, al genocidio. Ma queste sono solo altre prove che la società umana è il risultato di una difficile e spesso dolorosa costruzione. Con un lessico diverso, e prima che l’abisso del male si manifestasse nelle forme dei lager e dei gulag e dei successivi genocidi, Sigmund Freud e Albert Einstein incidono nella roccia la loro opinione sulla natura umana. Freud considera l’aggressività una caratteristica naturale dell’uomo e, in quanto tale, ineliminabile. Si può solo provare a regolarne l’intensità, perché non assuma le forme distruttive della guerra. Senza farsi illusioni. La guerra racconta l’uomo primitivo che è in noi. Con l’aggressività occorre fare i conti. La salvezza potrebbe passare per un fragile processo di civilizzazione. Non che questa possa neutralizzare le pulsioni di morte – in fondo, una loro eccessiva interiorizzazione non è nemmeno auspicabile, perché esploderebbe in forme tribali, etniche, ideologiche, belliche. Tuttavia, dovere di una civiltà è spingere verso l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono.

Evidenze sperimentali di qualche anno fa, mostrano che i giudizi morali e quelli non morali attivano differenti aree del cervello. I primi coinvolgono la corteccia orbito-frontale mediale e il solco temporale superiore dellemisfero sinistro; i secondi lamigdala, il giro linguale e il giro orbitale laterale. Queste ricerche sperimentali ci autorizzano forse a credere nellesistenza di una neurobiologia della morale?

 Anche se l’ampia produzione di studi di brain imaging sembrerebbe autorizzare una risposta affermativa, restano aperte molte domande. Ad esempio, le aree coinvolte nei giudizi morali sono sede primaria di quei giudizi o solo il territorio corrispondente di un processo che si svolge successivamente? Possono le emozioni intensificare (ed eventualmente in che grado) il valore dei giudizi morali individuali? Qualunque sia la risposta, la sola esistenza di emozioni sociali dimostra che non agiamo affatto in base a un’algebra morale utilitaristica per massimizzare i vantaggi e minimizzare il dolore.

Nel corso dellevoluzione le emozioni sociali hanno consentito ai nostri antenati di comprendere i propri simili e di costruire società cooperative, creando così il terreno fertile per la nascita di valori (e sistemi di valore) e, conseguentemente, di istituzioni sociali, politiche e culturali condivise. Anche se non è ancora chiaro il senso delle violazioni delle norme sociali, la compatibilità tra diversi valori, la funzione della violenza, resta il fatto che il dolore, il senso di giustizia, l’autorità, la purezza, lesser parte di una comunità di destino, hanno radici evolutive profonde. Non solo nelluomo.

Diverse ricerche hanno mostrato: 1) che l’istinto a evitare il dolore altrui – che genera raccapriccio all’idea di spingere un uomo da un ponte (come abbiamo visto a proposito dei dilemmi morali) – è largamente presente anche in alcuni primati: i quali, ad esempio, rifiutano di azionare una leva che porterebbe a sé cibo e una scossa elettrica a un consimile; 2) che il senso di giustizia ha relazioni con l’altruismo reciproco, a condizione che l’atto sia sostenibile per chi lo compie e chi lo riceve sia disposto a ricambiare; 3) che il rispetto per l’autorità ha a che fare con le gerarchie di dominio e sottomissione; 4) che il senso della comunità che spinge gli individui a condividere e a sacrificarsi per un fine impersonale, potrebbe derivare dall’empatia e dalla solidarietà verso consanguinei e non consanguinei.

Certo, ma se le radici morali sono innate, se il discrimine tra giusto e ingiusto è inscritto nel nostro cervello, come facciamo a provare che eventi come la Shoa e i genocidi sono disgustosi e abominevoli per tutti? Se siamo equipaggiati solo di una morale rudimentale, sarà inevitabilmente lesperienza a orientarci in conformità ai valori di ‘bontà’ o cattiveria, non crede?

Vi sono, però, alcuni elementi che più degli altri condizionano il comportamento morale di un individuo con inclinazioni sociali e spirito di autoconservazione. In primo luogo, le condotte altruistiche, che hanno conseguenze sociali migliori di quelle egoistiche. In secondo luogo, la scelta di non privilegiare il proprio interesse se si intende esser presi sul serio dagli altri. Questa interscambiabilità delle prospettive è un valore morale in sé superiore al ‘particulare’ che invece guida le azioni di un numero ampio di esseri umani e ha conseguenze profonde sulle diverse forme di convivenza sociale. Ci spinge, infatti, a considerare gli argomenti e le azioni dei nostri avversari, anche i più sconcertanti, come qualcosa proveniente da persone con una morale come la nostra e non da individui privi di morale. Ad esempio, in una sfida politica considerare il nostro competitore come un avversario e non come un nemico guidato da motivazioni disoneste o da disegni criminosi, potrebbe essere un primo passo verso l’individuazione di un terreno etico condiviso.

Alla luce di queste considerazioni qual è lo spazio di una morale universale? Certo le emozioni ci forniscono informazioni importanti per conoscere e agire. Ma possono davvero costituire il fondamento di una morale universale? E, in caso affermativo, luniversalità rende giustala morale?

Se fosse così i totalitarismi sarebbero paradisi terreni della morale universale. La morale umana è invece tremendamente vulnerabile alle illusioni. Spinge spesso a confondere il rigore morale con la purezza. A essere intransigenti sulle idee. A collocarci quasi sempre dalla parte della ragione. A definire spesso virtuosi comportamenti che non lo sono affatto. Tutto questo ha conseguenze profonde anche sulla nostra razionalità. Questa ne esce, infatti, indebolita, sempre più somigliante a una fioca luce di candela rispetto alla potenza accecante degli istinti, delle pulsioni e delle emozioni.

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