Il movimento e la cognizione motoria, possiamo dirlo con certezza, sono le componenti evolutive più antiche della specie umana. Sebbene sussistano ben precise architetture neurali del movimento, esso non può essere ridotto a pura meccanica o a mera azione finalizzata. Del ruolo cruciale che il movimento esercita nella costituzione della mente e della nostra vita di relazione, si è discusso nella XIII edizione della Settimana Internazionale della Ricerca, che ha trattato come tema la Mente e il Movimento, inaugurata da una Lectio Magistralis di Alberto Oliverio, Professore Emerito dell’Università Sapienza di Roma e studioso riconosciuto in tutto il mondo.
Con un’intervista a Nelson Mauro Maldonato, Direttore Scientifico della Settimana Internazionale della Ricerca, illustriamo i suggestivi temi della giornata inaugurale del 22 Ottobre 2019 che si è tenuta presso l’Aula Magna “Gaetano Salvatore” della Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università Federico II di Napoli. A cura di Benedetta Muzii

Fin dalle origini, i nostri antenati hanno dovuto fronteggiare eventi e contesti estremamente complessi. È stata la rapidità nelle scelte a consentire loro di sopravvivere alla durezza e ai pericoli di un ambiente sconosciuto. Ad esempio, si doveva essere veloci per catturare una preda in fuga a 40 km/h e trovarsi nel punto esatto in cui sarebbe giunta un attimo dopo, anticipando la propria posizione in qualche frazione di secondo. Prepararsi alla cattura – cioè contrarre i muscoli, vincere la resistenza del proprio peso, attivare il proprio repertorio d’azione per le situazioni più estreme – impegnava duramente la mente e il corpo. Oggi, naturalmente, l’impatto delle sfide ambientali è di gran lunga minore. Ma il nostro cervello funziona ancora così. Evitiamo ancora, infatti, le situazioni pericolose, intuiamo le intenzioni degli altri e così via. Più che una macchina reattiva, come a lungo si è creduto, oggi sappiamo che il nostro cervello è una macchina predittiva, che formula ipotesi, prevede le conseguenze delle azioni, gioca d’anticipo. In un volume di qualche tempo fa – The Predictive Brain. Consciousness, decision and embodied action (Sussex Academic Press) e in un altro recente Handbook of Embodied Cognition and Sport Psychology (The MIT Press) – lei ha affrontato questi temi. Professore, cosa può dirci a riguardo?

Credo che uno dei temi cruciali della ricerca sia oggi quello del rapporto tra percezione e azione. Un’azione non è la semplice esecuzione di un comando meccanico. Essa ha origine dal confronto tra sensazioni e la prefigurazione di eventi. Lo aveva già colto in pieno il grande Pierre Janet all’inizio del secolo: una percezione, diceva, è una sorta di adattamento a stimoli potenziali. Ad esempio, quando vediamo una poltrona, sebbene fisicamente distanti da quell’oggetto, in realtà esso è già in noi: per così dire, ha già preso posto nella nostra mente, già solo per il modo in cui immaginiamo di sederci. Comunque sia codificata, un’azione implica inevitabilmente l’anticipazione di situazioni che dovranno accadere. C’è da dire che, sul piano storico, un tentativo di superamento della concezione tradizionale dell’azione motoria prese corpo dopo la metà del secolo scorso, quando il neurofisiologo russo Nikolai Bernstein propose un modello – un ciclo percezione-azione-anticipazione – caratterizzato da una serie di funzioni come: individuare lo scarto tra il movimento previsto e quello effettivo; facilitare il passaggio da uno schema d’azione all’altro; adeguare il piano d’azione iniziale a eventi imprevisti. In definitiva, il nostro cervello attinge dai suoi archivi schemi di movimento e, prima di metterli in atto, predispone le azioni più adeguate alla situazione.

Le sue considerazioni, mi sembra, aprano questioni interessanti. È plausibile che i processi adattivi nel corso dell’evoluzione abbiano affidato al cervello non solo l’affinamento dei sistemi per la rimodulazione dell’azione, ma anche plasmato secondo le leggi essenziali della natura, l’architettura muscolo-scheletrica e, conseguentemente, i modelli interni del corpo. Oggi, di fronte alla pervasività della tecnologia, che ha mitigato l’impatto delle avversità ambientali e al soddisfacimento dei bisogni primari affidati a un sistema economico-produttivo di massa, sembra che l’antico e permanente stato agonale per la sopravvivenza si sia trasfigurato anche nello sport.

Lo stato agonale, come lei suggestivamente lo definisce, designa la gara, la lotta, il misurarsi con qualcuno per la conquista di un primato. Si manifesta nello sforzo attraverso il quale individui e gruppi cercano l’affermazione e testimoniano la propria condizione di soggetti interagenti con gli altri. Come ambito dell’azione interumana, racchiude i campi dello scambio amichevole, dal gioco alla competizione sportiva, fino a fenomeni di violenza e distruttività. In ogni caso, lo stato agonale individua e rivela la formazione di meccanismi gerarchici tra singoli individui interagenti e tra gruppi sociali. In quanto tale, lo sport è una rappresentazione efficace di tutto questo. Lo stato agonale che sottende lo sport oltrepassa naturalmente la dimensione propriamente ludica e investe sfere valoriali. Con il procedere dell’evoluzione, l’uomo ha organizzato il proprio comportamento mediante connessioni sempre più complesse tra contesti funzionali diversi e sequenze innate e apprese, tra programmi di origine filogenetica e repertori comportamentali preordinati, tra stati motivazionali biologicamente determinati e istanze psicologiche non biologicamente definiti. 

Veniamo al tema che tratteremo in questa edizione della Settimana Internazionale della Ricerca su “Mente e Movimento”. Come emerge dalle evidenze riportate, se è vero che nello sport le performance migliori sono legate alla tecnica, al talento, alla resistenza o alla forza dell’atleta, un ruolo centrale è svolto anche dalla velocità percettiva, di reazione, di decisione e, soprattutto, di anticipazione.

Vero! In gara, i tempi ristretti per elaborare le informazioni impongono prestazioni di intensità massima. Per quanto esperto, un atleta non è in grado di focalizzare la propria attenzione su tutte le fonti sensoriali, esterne o interne che siano. Deve anticipare gli altri. Eseguire le scelte più efficaci. Orientare l’attenzione fin dalla raccolta delle informazioni. L’urgenza lo obbliga a previsioni sulla scorta di informazioni parziali. Se non fosse così, la sua performance sarebbe lenta e inefficace. Solo una previsione dell’evento consentirà all’atleta di anticipare la propria azione e di trovarsi, per così dire, nel posto giusto al momento giusto, evitando costi fisici e psicologici rilevanti. In situazioni estremamente competitive, poi, il gioco d’anticipo fa la differenza. Uno sciatore professionista, ad esempio, non si limita a monitorare e a correggere la discesa in base alle proprie informazioni sensoriali: fa anche previsioni sul percorso, le tappe e altre soluzioni possibili. Solo di tanto in tanto confronta le proprie previsioni con l’andamento della discesa: laddove non coincidessero, modificherà l’angolazione delle ginocchia, la velocità e tutto il resto. Stesso discorso per un tennista. Se non anticipasse, mancherebbe sistematicamente la pallina e andrebbe incontro a sconfitta sicura. Preparare la ricezione, posizionare la racchetta, richiede diverse centinaia di millisecondi, durante i quali la pallina avrà percorso molti metri. Dunque, dovrà inclinare in anticipo la racchetta, scegliere la traiettoria della pallina e gli eventuali effetti da imprimerle. Naturalmente, quante più volte avrà ripetuto lo schema, tanto più automaticamente assolverà il compito.

Potremmo dire, forse, che al netto del talento risieda qui la caratteristica fondante degli atleti esperti.

Senza alcun dubbio. Rispetto ai principianti, gli esperti passano molto più tempo a immaginarsi in azione e a studiare le prestazioni degli avversari. Se i vantaggi adattativi dell’anticipazione sono chiari, ancora più chiari sono gli svantaggi derivanti da previsioni errate. Riprogrammare un’anticipazione ha costi temporali ed energetici elevati. Come sanno tutti gli sportivi, in gara un’anticipazione intempestiva potrebbe anche essere indotta intenzionalmente dall’avversario. Finte e controfinte hanno l’obiettivo di provocare false anticipazioni: cioè movimenti molto svantaggiosi sia sul piano tecnico che delle energie. Si pensi al volley, in cui le finte sono parte dello schema d’attacco. L’atleta sospeso in aria finge di schiacciare e, invece, effettua un pallonetto alle spalle della difesa avversaria. In generale, comunque, l’anticipazione è fondamentale sia per la precisione del gioco che per la rapidità dell’azione. Il tempo ottimale per una reazione anticipatoria è stato calcolato in 1.5 secondi circa. Naturalmente anche qui l’expertise dell’atleta è decisivo per l’esito della prestazione. Un calciatore esperto ha sempre maggiori probabilità di formulare previsioni corrette e di intervenire tempestivamente nel gioco con soluzioni tecniche adeguate.

In fondo, per i nostri progenitori, intercettare oggetti in volo è stato di importanza fondamentale: per colpire un volatile, difendersi da attacchi animali o frecce nemiche, possiamo dire che siano stati essenziali calcoli telemetrici istantanei e accurati. Questi fattori temporali, emozionali ed altro ancora hanno fatto e fanno ancora parte di una cassetta degli attrezzi adattativa, una sorta di algoritmo biologico per l’azione, che ci ha aiutato a fronteggiare e vincere innumerevoli sfide evolutive.

Assumiamo il suo esempio. Come è noto, di fronte a un oggetto a velocità costante il cervello calcola accuratamente il tempo mancante al contatto. Gli atleti esperti utilizzano spessissimo indizi visivi per intuire le azioni dell’avversario. Soprattutto nei momenti critici – e spesso contro le esortazioni degli allenatori che invitano a tenere sempre alta l’attenzione – si concentrano su informazioni come la posizione degli avversari, dei compagni di squadra o degli oggetti. Con un esperimento condotto qualche anno fa, Hubbard e Seng tentarono di capire se i battitori professionisti di baseball, per colpire la palla, la seguivano con lo sguardo per tutto il tragitto. La registrazione filmata delle prestazioni di 29 giocatori professionisti evidenziò che, al di là di alcune differenze individuali, i battitori esperti seguivano la palla con lo sguardo fino a 2.4/4.5 metri dalla mazza. L’assenza di movimenti oculari o del capo nelle ultime fasi di volo della palla evidenziava come i battitori professionisti avessero una rappresentazione interna dell’evento che permetteva loro di usare, efficacemente, gli indizi rilevanti provenienti dal lanciatore.

Affascinante! Sono aspetti del tutto ignoti ai non addetti ai lavori. Vada avanti.

Ad esempio, un polso in torsione suggeriva una curveball; un gomito ad angolo retto una fastball; due dita sulla cucitura della palla uno slider e così via. Non che un battitore studi consapevolmente questi segni. Però, agisce in base ad essi. Che poi ignori cosa sia una derivata o un’equazione differenziale non cambia la situazione. Non intacca minimamente la sua abilità di gioco. Sotto la soglia della consapevolezza succedono cose non di rado equivalenti ai calcoli matematici. E se la palla è già in aria? Beh, in questo caso, i giocatori esperti fissando la palla derivano la velocità dall’angolo tra l’occhio e la palla rispetto al suolo. Non hanno alcun bisogno di misurare il vento, la resistenza dell’aria, l’effetto di rotazione o altre variabili. Nell’angolo dello sguardo vi sono già tutte le informazioni. D’altronde, nel baseball un lancio raggiunge spesso velocità ben superiori alla capacità di inseguimento dei movimenti oculari. Dunque, qualsiasi tentativo di seguire la palla lungo il suo tragitto sarebbe vano. In una ricerca di alcuni anni fa, vennero esaminate le differenze di anticipazione visiva dei calciatori nei calci di rigore. Il compito sperimentale prevedeva la visione di filmati, con sequenze di tiri di rigore e lo spostamento di una barra di comando manovrata dal portiere in risposta agli stimoli visivi elicitati dal rigorista. Ebbene, l’analisi dei movimenti oculari evidenziò che i portieri meno esperti fissavano più a lungo il tronco, le braccia e la cintura pelvica dei calciatori. Al contrario, quelli più esperti fissavano più a lungo la postura del piede che calciava, quello di appoggio e la posizione della palla al momento del contatto con il piede. Nella gran parte dei casi, la capacità di anticipazione era estremamente accurata.

Il discorso riguarda anche le arti marziali, che lei pratica ordinariamente.

Le arti marziali sono discipline elettive per la conoscenza dei meccanismi anticipatori. Nel karate gli avversari si fronteggiano da due metri circa di distanza, cercando di raggiungere la massima stabilità posturale con il massimo risparmio energetico. Un karateka esperto non si limita a reagire a eventi inaspettati. Anticipa l’azione. Per così dire, opera nel futuro. Non potrebbe essere diversamente. Spazio e tempo hanno vincoli ben precisi. L’azione deve essere rapida e concludersi con il minimo impatto sul corpo dell’avversario. Un ritardo, fosse anche di una frazione di secondo, potrebbe costare la sconfitta e, in taluni casi, comportare conseguenze fisiche pericolose. Occorrono, dunque, strategie sia anticipatorie che compensatorie. Sono, però, le prime a stabilizzare il corpo e a permettere ai muscoli di contrarsi precedendo il movimento volontario. Queste strategie anticipatorie, come abbiamo visto, migliorano con l’esperienza. Infatti, più informazioni sono state memorizzate, più efficace sarà l’azione. Il lungo esercizio genera una sorta di algoritmo interno che consente di percepire rapidamente ogni variabile in gioco e di agire in base alle previsioni. Naturalmente, la fluidità dell’azione non è condizionata solo dagli elementi considerati o da eventi inattesi: anche da sentimenti, desideri, preoccupazioni o pensieri, che irrompono nell’azione in corso, mettendo talvolta a repentaglio la performance. Per scongiurare quest’evenienza bisogna tendere, gradualmente, a uno stato libero da pesi e vincoli. Privo di intenzionalità. In cui non si pensa, né si persegue nulla. È così che la concentrazione (e, dunque, l’efficacia di un’azione) può raggiungere livelli elevati.

Sembra controintuivo. Quando gareggiamo, ci alleniamo o studiamo, lei dice che possono innescarsi meccanismi di analisi ed elaborazione su quanto stiamo facendo che impediscono al nostro cervello di attivare quei circuiti cerebrali che rendono possibile le nostre performance?

Può sembrare controintuitivo, ma è esattamente quel che accade. Questo fenomeno – chiamato effetto choking e descritto brillantemente da Beilock anni fa – avviene perché pensiamo troppo ai gesti da compiere, quando invece dovremmo affidarci alla memoria motoria e ai sistemi automatici di cui siamo provvisti. Una eccessiva concentrazione su quanto stiamo facendo ci fa perdere il controllo del movimento, la fluidità e l’armonia della sequenza motoria. Il controllo razionale (peraltro improbabile) fa da ostacolo all’immersione in se stessi, irretendoci entro vincoli di cui ci eravamo liberati. Beninteso, la concentrazione, l’immedesimazione, l’abbandono, non si producono da sé. Occorrerebbero enormi energie! Né, d’altra parte, hanno a che fare col talento o altro. La via è il duro esercizio. Solo così concentrazione, automatismi e immaginario possono fondersi nell’azione in corso. Proprio come accade a un attore, un ballerino, un musicista, perfettamente identificati con quel che stanno facendo.

Se è vero che, per gli esperti, l’azione è affidata ad automatismi inconsapevoli, per gli inesperti è invece necessario fare piena attenzione alla performance. Un’azione rapida ed efficace richiede il passaggio dalla consapevolezza all’inconsapevolezza. Anche la minima esitazione riflessiva potrebbe interrompere gli automatismi e indebolire l’efficacia e la precisione dell’azione. L’abbandono di ogni intenzionalità ci permette di diventare tutt’uno con l’azione, improvvisando secondo le necessità del momento. Qui, la razionalità è inutile e la volontà un ostacolo. In natura esistono corrispondenze semplici e misteriose. Non pensiamo nemmeno che potrebbero avere un’altra forma. Il ragno tesse la tela per la sua preda. Non sa chi vi si impiglierà. Anche l’insetto è ignaro della sua tremenda sorte. In quella danza, perfetta e implacabile, preda e predatore, sono una cosa sola. In uno stato agonale il principiante osserva continuamente l’avversario in attesa che questi scopra la guardia. Cerca il varco per l’attacco. In qualsiasi momento, tuttavia, forze opposte di diversa natura possono compromettere l’efficacia della tecnica. Ma il pericolo maggiore è altrove. Più agirà ‘di testa’, tanto più la sua azione sarà inadeguata.

D’accordo, ma come rendere automatica l’azione ed efficace la tecnica?

Abbandonando ogni intenzione, ogni controllo sull’Io. Per il karateka, ad esempio, non basta staccarsi dall’avversario: egli dovrà staccarsi anche da se stesso. Dopo il lungo esercizio, dovrà separarsi da tutto ciò che aveva imparato. Iniziare un nuovo viaggio. Questa volta dentro di sé. Con un’attenzione nuova. Non dovrà più osservare l’avversario o più avversari per volta. Nell’attimo in cui qualcosa sta per accadere, rinunciando al controllo la mente razionale si accorgerà di aver lavorato all’evitamento degli attacchi, come se li avesse previsti. Forse è pure inesatto parlare di reazione. Tra percezione e azione, ora non vi è più soluzione di continuità. Ma c’è un ulteriore passo da fare. Il più difficile. Sovente, sicuro di aver compreso le regole fondamentali, un principiante considera sufficiente rinunciare allo studio dell’avversario. Prendendo sul serio tale principio, intensifica l’attenzione su se stesso. Non si accorge, però, di rientrare nella condizione agonale precedente, questa volta senza lo ‘studio’ dell’avversario. Se l’obiettivo era congedarsi da se stesso, ora vi si ritrova legato ancor più saldamente. Ha dimenticato, ancora una volta, che la via è nell’astrarsi da se stesso, come dal suo avversario. È la liberazione da ogni intenzione verso ogni cosa che eliminerà la distanza tra azione e reazione. Solo così, azione e reazione, diverranno simultanee. Nello stesso istante in cui eviterà l’attacco egli sarà già pronto a colpire. E, prima di rendersene conto, avrà raggiunto l’obiettivo. A quel punto le ‘strutture inconsapevoli’ avranno preso il posto dell’Io, servendosi delle abilità pazientemente acquisite con sforzo consapevole.

Alla luce di queste considerazioni, possiamo dunque concludere che percezione, memoria e azione sono indissolubilmente legate?

Senza dubbio. Pensi alla memoria. Dovremmo provare a rappresentarcela non solo più come un archivio di eventi passati, ma come l’insieme delle azioni non ancora intraprese. È grazie alle tracce di eventi conservati nel suo fondo che siamo in grado di anticipare le azioni future. Ogni nostro movimento è legato a una sensazione che si prolunga in azione. Così, il presente si costituisce come un insieme di sensazioni e movimenti.

Ma chi svolge questo lavoro di saldatura?

Le ipotesi, anche molto suggestive, non mancano. Qualcuno ha suggerito che, quotidianamente, nei sotterranei della nostra mente, una folla di cognitive workers, come tanti fedeli sherpa, elabora, a nostra insaputa, enormi quantità di informazioni. Si pensi a quando, un attimo dopo aver chiuso la porta di casa, ci affrettiamo a controllare se abbiamo messo le chiavi in tasca o nella borsa. Perché questa lacuna a pochi secondi di distanza? In assenza di patologie, succede perché solo le attività cognitive più elevate raggiungono il piano della consapevolezza. Riconsideriamo per un momento il linguaggio. Parlare è tra le azioni quotidiane più importanti e, almeno in apparenza, più semplici. Ogni giorno, sulla plancia di comando della nostra mente pronunciamo correttamente e senza sforzo, innumerevoli quantità di parole, mentre nella sala macchine i nostri laboriosi sherpa sono intenti a comporre e scomporre frasi assicurando ai nostri discorsi piena fluidità. Non sappiamo come questo accada, ma è così. Stesso discorso quando scriviamo al computer. Le parole sullo schermo sono espressione diretta dell’azione delle dita che corrono veloci sulla tastiera. Anche queste, a loro volta, seguono i comandi di intricatissime vie nervose. Non è raro che, mentre scriviamo, qualcuno si rivolga a noi per richiamare la nostra attenzione. Almeno nell’immediato il nostro piano d’azione non cambia affatto. Anzi rispondiamo mentre le nostre dita continuano a muoversi.

Come è possibile?

Beh, a portare a termine la frase iniziata sono i nostri fedeli sherpa. Che dire, poi, della guida dell’auto? Chi non ricorda le insicurezze delle prime volte? Le mani inchiodate al volante per paura di perderne il controllo, per evitare gli altri veicoli, per non smarrirsi anche in luoghi familiari. Per non parlare della voglia di scendere e mandare tutto al diavolo ed evitare così il giudizio degli altri. Da lì, tutta l’attenzione riversata sulla strada o il buffo intimare a chi ci è seduto a fianco “per favore, parliamone dopo”. Col tempo, poi, tutto diventa più semplice. Ci sorprendiamo a fare più cose insieme. Non che tutto vada sempre come dovrebbe. A volte, intenti a inseguire pensieri fugaci o distratti da un discorso al telefono dimentichiamo l’uscita autostradale, senza che i nostri affezionati sherpa ci segnalino l’errore in corso. In fondo, cosa possiamo pretendere? Sono addestrati a eseguire compiti ben precisi, e a non abbandonare mai la missione. Senza indicazioni accurate garantiscono solo, diciamo così, i servizi essenziali. Del resto, è grazie a loro che possiamo portare a termine, senza sforzi ed eccessivi controlli, i compiti quotidiani, mentre noi ci balocchiamo con cose più o meno importanti.

Dovremmo, dunque, essere più generosi verso questi simpatici esserini che affollano le quinte del nostro teatro mentale. Il loro oscuro lavoro ha modellato i meravigliosi congegni della nostra vita di relazione.

Direi di sì. In fondo, anche grazie a loro si è realizzata quella formidabile sincronia tra movimento, pensiero e linguaggio che coinvolge i piani ‘alti’ e quelli ‘bassi’ del nostro cervello. Anche grazie a loro riusciamo a modificare i nostri schemi d’azione precablati e ad anticipare le scelte future. Ma forse non esistono sherpa, anche se a molti piace pensarlo. È probabile che le nostre difficoltà a comprendere come stanno davvero le cose dipendano non dal problema in sé, quanto dalle ipotesi sin qui avanzate sulla natura delle nostre strutture inconsapevoli e su come esse influenzino i nostri comportamenti.

2 Responses
  1. Ida Pazzi

    Un’evidenza ragionata e studiata che rafforza il mio pensiero sul rapporto indissolubile di corpo mente e movimento

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