Viaggio nel laboratorio della libertà

Dialogo con Nelson Mauro Maldonato

a cura di Benedetta Muzii

La crisi sanitaria planetaria in atto sta avendo ripercussioni anche sullo stato psicologico della popolazione a causa del prolungato isolamento, dell’incertezza e di altri effetti critici. Nell’arco di due mesi questa ha drasticamente riconfigurato la nostra qualità della vita, la routine e i ritmi di produzione, generando diversi effetti psicologici e psicopatologici, peraltro registrati dal nostro Servizio di Psicologia dell’Emergenza, in forme sempre più intense ed ingravescenti. Conoscere le ricadute psicologiche che si stanno manifestando in questo periodo di incertezza e sospensione è importante per tutelare la propria salute e fronteggiare al meglio ogni contesto critico. Professore quale è la sua lettura di quanto sta accadendo? E, in particolare, cosa c’è all’origine della condizione di solitudine che in tanti stanno vivendo?

Per introdurre il nostro dialogo vorrei ripartire da un profetico romanzo di Albert Camus, La Peste, pubblicato nel 1947. L’azione si svolge a Orano, cittadina algerina cara all’autore, narrata in terza persona dal dottor Rieux. Lo scrittore mette in scena le forme del male contro cui l’uomo deve lottare: un affresco lucidissimo della condizione umana e della prigione che ne definisce l’esistenza. La città di Orano viene chiusa per un’epidemia di peste ed isolata dal resto del mondo. Mentre alcuni dei suoi abitanti si adattano alla situazione, altri mostrano inizialmente assoluta indifferenza al pericolo. Pochi capiscono davvero. La lotta è dura, impari. Il dottor Rieux, il suo amico Tarrou e altri due personaggi intuiscono la portata enorme del contagio, così si impegnano con abnegazione in una strenua lotta. La loro tenacia resta intatta anche di fronte all’espandersi dell’epidemia e alla perdita di speranza dei più. Dopo sofferenze inenarrabili, giungono le prime improvvise (e incomprensibili) guarigioni. Il morbo si ritira, fino a estinguersi lentamente. Tarrou muore. Rieux, invece, dopo il lungo e doloroso esilio in patria, assiste alla confusa euforia dei suoi concittadini impazienti di rompere l’isolamento. Il diffondersi del calore umano e della speranza ritrovata riesce ad attenuare la sofferenza e a restituire la pace a tutti coloro che la cercavano. Il romanzo si conclude con la struggente testimonianza del cronista che si unisce ai suoi concittadini nelle uniche cose che ha in comune con loro: amore, sofferenza, esilio. La sua testimonianza in favore degli appestati per “lasciare un ricordo della violenza e dell’ingiustizia fatte loro”. Ma soprattutto per ribadire ciò che i flagelli insegnano: cioè “che ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare”. Pur non essendo santi, quegli uomini si son presi cura degli altri, diventando a modo loro taumaturghi. Ma il cronista sa che non vi sarà mai una vittoria definitiva, perché il bacillo della peste non sparirà mai.

Perché per discutere di solitudine è partito da questa, peraltro attualissima, metafora?

 Perché nihil novi sub sole! Camus ci invita a guardare alla provvisorietà e alla fragilità della vita con la pietas e la solidarietà. Descrive la nascita, lo sviluppo, il declino e l’esaurimento di un terribile flagello – il suo orrore, l’ineluttabilità, il mistero, la violenza sorda e inattesa, la morte – attraversando i problemi del male e della natura, dell’onore e della paura, dell’amore per la vita e di Dio, della solitudine e dell’incontro. Mostra come i cittadini di Orano prendano consapevolezza tardiva di un avvenimento enorme e inaspettato che stentano ad accettare. Ma anche come vi si trovino immersi, come riescano a combatterlo e, almeno provvisoriamente, a sconfiggerlo. Ora, vi sono forse rappresentazioni più lucide e profetiche di quel che stiamo vivendo in questo imperscrutabile tornante della storia? Ecco, Camus racconta il vuoto, la solitudine, l’isolamento di cui tutti stiamo facendo esperienza. In realtà, la storia stessa è precipitata in una gelida solitudine. E tutto ciò accade proprio nel punto massimo di una narrazione che attribuisce all’uomo una presunta naturale propensione alla socialità, mentre non è mai stato alto, come oggi, il rischio di perdersi nel gioco dei mascheramenti alienanti di una contemporaneità massificata. Oggi, più di ieri, sentiamo acutamente la caduta dell’illusione di poter declinare la nostra esistenza sulle frontiere dell’apparenza, nei giochi a somma zero di una scena che ci vede attori e spettatori di un dramma cui nessuno è estraneo.

Lei sta dicendo, forse, che la rete di comunicazione più fitta e pervasiva del passato, nella quale siamo immersi, ci sta esponendo al rischio di disordini e malattie inedite? È così?

 Dico semplicemente che non bisogna sprecare questa chance offerta dalla attuale drastica riconfigurazione della vita, della routine e dei suoi ritmi. La presa d’atto drammatica e credo definitiva che i nostri orologi – quello interiore e quello sociale – non vanno d’accordo sta generando reazioni intense e traumatiche; che, peraltro, chi si occupa di salute mentale sta affrontando sul piano psicopatologico e clinico: dai disordini d’ansia ai disturbi depressivi, dalla compromissione della consapevolezza (con vissuti di derealizzazione e depersonalizzazione) al rischio suicidario e così via. In questo discorso, la solitudine occupa un posto preminente.

Lei ha scritto che la solitudine è una condizione naturale dell’umano. Che la nostra propensione alla socialità deve avere come contraltare la discesa in se stessi e solo chi è in grado di sperimentare la solitudine può vivere relazioni significative, abitare congruamente la propria vita interiore. Eppure, ogni volta che ci si interroga sulla solitudine, sembra che non si riesca a dire cosa essa sia davvero.

L’esperienza che stiamo tutti vivendo sta riaccendendo, inaspettatamente, le luci su una questione che chiede assoluto rispetto: la questione della solitudine, cui sono state date spiegazioni differenti a seconda delle prospettive teoriche e culturali. Proprio l’emergenza attuale dovrebbe mostrare come la solitudine non sia solo una condizione di sofferenza e di tormento, ma anche (e forse soprattutto) un’esperienza che attraversa i momenti cruciali dell’esistenza: dalla penosa sofferenza dell’isolamento alla tendenza a scendere al fondo di se stessi, fino alla capacità di realizzarsi nella relazione. Si tratta di condizioni non separate, ma legate l’una all’altra.

 È fondato dire che l’esperienza della solitudine non solo non esclude l’esperienza della comunità, ma che in diversi casi può perfino rafforzare l’impegno comunitario e rendere più forte il senso di appartenenza?

Penso che quanto più forte è l’esperienza della solitudine, tanto più forte è la possibilità di vivere con l’altro. Quest’esperienza ci mette in condizione di non eludere i temi cruciali dell’umano: la colpa, la libertà, l’incontro, la fede, l’angoscia. Temi questi fondamentali per la propria individuazione. E individuarsi è dolore, caduta nel mondo, separazione. La vita si accompagna sempre all’imprevedibile, all’amore, all’angoscia, all’incomprensibile, all’instabilità: è scuotimento emotivo, soprassalto che divora cose e fatti. Lo stesso esercizio consapevole della libertà provoca vertigine e angoscia. Anzi, l’angoscia è la possibilità stessa della libertà. È nello spazio vuoto dell’angoscia che la libertà può esercitarsi, fino alla sua ultima implicazione: la libertà infinita di Dio. Solo nell’angoscia l’uomo scopre di essere libero. Lutero diceva: “eliminate la coscienza angosciata e potete chiudere tutte le chiese e trasformarle in sale da ballo”. Per tornare al nostro tema, vi sono gradi di solitudine e la loro intensità è proporzionale al desiderio di intimità personale. Ma non c’è bisogno di poeti e scrittori per sapere che la solitudine invoca a gran voce l’amore. Insomma, credo sia impossibile concepire la solitudine senza l’altro e che solitudine e comunicazione siano facce della stessa medaglia.

In Fuga dalla libertà, Erich Fromm ha sottolineato quanto spaventoso sia, per la maggioranza delle persone, il sentimento della solitudine; e come per temperarne l’insopportabilità le persone si affannino nella ricerca del successo, in forme di routine quotidiana o, a un livello più sofisticato, in attività artistiche.

Penso alludesse all’umanissima vertigine che il vuoto e la solitudine generano quando vengono a mancare rassicurazioni e consolazioni trascendenti. Non è una novità che i più cercano la salvezza in feticci mondani e in forme di sottomissione a un capo, a figure carismatiche, a ideologie e altro ancora. L’angoscia genera, peraltro, potenti spinte verso il conformismo, questa infezione psichica collettiva, che è poi la soluzione di tanti che inseguono i miti fallaci dell’egualitarismo democraticista, che ha fatto della nostra società una realtà di atomi umani, tutti allineati (e risentiti) alla mercé di un unico tiranno anonimo. Il ‘900 ha mostrato come le tendenze totalitarie presenti nelle democrazie rappresentative si sviluppino con la folla, favoriscano la folla, siano assecondate dalla folla: moltitudine organica che è la base di ogni tirannia. Al contrario, una moltitudine reale è disomogenea, asimmetrica, fatta di infinite diversità, di divergenti accordi e convergenti disaccordi che possono coesistere e perfino convivere. Una pluralità reale si fonda sull’uomo singolo, sull’uomo-persona, sull’individualità complessa. Perché ogni uomo è un mondo e tutti insieme formano l’universo naturale della pluralità, della coesistenza, della convivenza. D’altra parte, proprio perché separati i singoli si riconoscono e si rispettano. Si può riconoscere e rispettare una diversa civiltà solo restando se stessi, con la propria identità, più civili e umani, più civili e aperti di prima.

 Nel suo volume Dal Sinai alla rivoluzione cibernetica (2001) lei sosteneva che in una democrazia massificata e meccanizzata – in cui l’opinione trionfa sul pensiero – non esiste più la persona. Che nel nostro universo sociale la persona è per lo più un numero, un soggetto esposto all’arbitrio e agli umori di una maggioranza al potere. E che, invece, una civiltà esiste come unità di misura di un ordine umano, non come un’espressione statistica e anonima di una moltitudine.

 In molti suoi aspetti l’universo moderno è un mondo artificiale, costruito sul rovesciamento del mondo naturale. Mi rendo conto quanto possa apparire utopico un ‘universo naturale’ fatto di tanti mondi, in cui ogni uomo è un mondo in pace con gli altri. Eppure, vi sono molte ragioni che militano a favore di questa concretissima utopia, di questo sentiero della conoscenza, della ricerca e delle scelte etiche nel nostro tempo. Penso siano istituzioni legittime quelle che riconoscono gli uomini singoli, che sono a misura della persona in un altruismo dei diritti. Il paradosso delle moderne istituzioni pubbliche è che troppo spesso riconoscono gli uomini che si fanno la guerra, rubano, uccidono, ma non coloro che creano, si rispettano, convivono pacificamente. Sembrano istituzioni capovolte, divinamente idolatre, eticamente disumane. Per molti versi è un esito inevitabile. Il lungo processo della modernità ha dissolto l’uomo concreto nella massa, nella statistica. Kierkegaard diceva che la massa è il male nel mondo, ed è più facile combattere contro un tiranno che contro di essa.

Torniamo alla solitudine. Nella nostra società questa viene considerata una situazione penosa, quasi una forma di disadattamento alla vita del gruppo. La tecnologia favorisce, d’altra parte, nel mondo attuale l’importanza del ‘gruppo’.

Guardo con entusiasmo a tutte le possibilità di una tecnologia che accresca le libertà, anche se occorre non dimenticare che l’essenza della tecnica non è tecnica. Il suo potere, che gli consente di sottomettere la natura alla sua volontà, sta spingendo l’uomo nell’assurdo. Lo ha reso abulico, ancora più incapace di dare un senso al suo agire e al suo vivere. Al perché manca la risposta o, come ebbe a dire Nietzsche, questa è il nichilismo, “il più inquietante degli ospiti”. Il senso di precarietà e di angoscia dell’uomo non solo non è stato arginato, ma ad esso si sono aggiunti un sentimento di incertezza e di acuta mancanza di direzione. Il nichilismo è un ospite fisso del nostro tempo, che ha ghermito alle spalle l’uomo provocando in lui un senso di inquietante spaesamento. Anche questo lo spinge a costruire argini contro la minaccia della solitudine. Ora, anche se è un tema impopolare in un mondo nel quale il richiamo della massa è progressivamente più imperioso e spersonalizzante, la solitudine resta l’unica possibilità per difendere e promuovere la propria individualità.

 Forse dovremmo chiederci se sia sufficientemente motivata l’immagine angosciante che si conferisce alla solitudine. Non sarebbe più opportuno esplorarne gli aspetti ‘positivi’, per restituire alla solitudine il suo significato di fenomeno profondamente umano?

Dovremmo tutti chiederci come mai gli autentici innovatori del pensiero, nelle scienze e nelle arti, abbiano dato il meglio di se stessi nella solitudine. Come sarebbe stato possibile per Van Gogh, Hölderlin, Whitman, Rilke, Beethoven, Proust, solo per citare alcuni, creare opere che hanno dato senso e reso più lieve e interessante il nostro passaggio su questa striscia di terra perduta nell’universo? Le grandi opere sono figlie della solitudine e del silenzio. Con il solo potere dell’immaginazione, Dostoevskij si salva da una sorte tremenda nel durissimo carcere in Siberia. Fu egli stesso a dire che, per una mossa del destino, quell’esperienza fu una straordinaria occasione per andare più a fondo della propria vita interiore. Nazim Hikmet scrisse le sue più belle poesie d’amore nella sua angusta cella ove era stato confinato per la sua opposizione al regime turco di Kemal Ataturk. Ma più della solitudine creativa trovo interessante discuterne come capacità di chi si raccoglie in se stesso, di chi prende una pausa dall’affanno impaziente del mondo, di chi si ferma a dar nome alla propria interiorità. Ecco, dovremmo riflettere sull’importanza di siffatti momenti meditativi e contemplativi dell’esistenza, sul loro effetto emotivo ed intellettivo; e, più in generale, sull’individuazione, identificazione e realizzazione del sé. In un mondo nel quale il richiamo della massa diviene progressivamente più imperioso e spersonalizzante, credo sia proprio la solitudine la linea di resistenza a difesa della propria individualità.

 Pensatori a lei cari hanno indicato la via di un’esistenza autentica nell’evitamento delle seduzioni mondane, la via della discesa verso il fondo della propria esistenza.

È a partire dal fondo a cui lei allude che i grandi solitari di ogni tempo (artisti e filosofi, mistici ed asceti, letterati e così via) hanno attinto alla sorgiva dell’ispirazione. Discende da qui il significato di quella che Bruno Callieri indica come la “capacità di essere soli con il proprio campo interiore. In quanto sfera cruciale dell’esistenza e della relazione con se stessi e il mondo, la solitudine ci intima di decidere il nostro modo di essere al mondo. Certo, l’attitudine a restare soli, a tollerare la solitudine o l’isolamento non è uguale in tutti: non tutti hanno la stessa maturazione emotiva. Per alcuni sono intollerabili anche poche ore di solitudine, per altri star da soli non genera la minima sofferenza. È indubbio, però, che la solitudine consente una ricerca e una maturazione della propria identità. In questo senso, la capacità di essere soli è un fenomeno raffinato alla cui formazione concorrono diversi fattori. Come diceva Winnicott, la capacità di essere soli è uno dei tratti distintivi della maturità nello sviluppo emotivo di un bambino, una conquista precoce che edifica il suo mondo interno.

Si tratta di una conquista che evidentemente ha a che fare con la capacità del bambino di percepire un ambiente e, in particolare, di una madre che lo protegge. Sembra controintuitivo: da un lato una madre che lo protegge e, dall’altro, la sua autopercezione di “esser solo”. Che ne pensa?

 L’esperienza apparentemente contraddittoria dell’esser soli in presenza di qualcuno dipende dalla presenza attendibile, stabile e continua della madre e dalla possibilità data (da lei stessa) al bambino di esser solo e di poter esplorare liberamente. È la madre a consentire all’infante, al bambino e poi all’adulto di esplorare, di scoprire i propri orizzonti interiori e camminare sicuro nel mondo.

Dunque, per il bambino condizione di possibilità per scoprire il proprio mondo interno e accedere sicuro a quello esterno è esser soli, sebbene in presenza di qualcuno. Possiamo dire così?

Se così non fosse, il bambino costruirebbe un modo fittizio per affrontare la realtà con permanente irrequietezza, incapace di avere relazioni stabili con gli altri, di fronteggiare gli urti della vita, costruendo contabilità parallele immaginarie e disturbate. Da qui l’importanza di una figura che stabilizzi e rassicuri anche con la sua sola presenza. Più tardi, questo consentirà al bambino di potersi congedare dalla madre e dalla sua rappresentazione fantasmatica. È a queste condizioni che si può esser soli (portandosi sempre dentro la confidenza e la fiducia, inconsciamente assimilate, dell’immagine materna) nell’armonia tra le diverse istanze interiori, l’ambiente e le strutture sociali nei quali l’individuo è inserito.

 È in questo senso che l’esperienza della solitudine rende più ricca e stabile l’interiorità aprendo al futuro?

Attraverso la solitudine ci si congeda dal mondo esterno. Non per inseguire suggestioni o mondi immaginari, ma per introdurre una pausa, una parentesi, nel fluire anonimo e anomico della vita. Non è facile, né senza rischi. La solitudine ci introduce su sentieri dove incontriamo istanze che irrompono prepotenti dal profondo: attese, speranze, domande sul perché e sul senso del nostro esistere e così via: istanze cruciali che comportano anche il rischio di perdersi in labirinti inestricabili, di false identificazioni e dinamiche disturbanti. Parlo naturalmente di qualcosa di diverso dalla solitudine che, come ho detto prima, deriva dalla decisione di vivere nell’orizzonte della singolarità e dell’apertura altruistica all’altro.

La capacità di vivere soli e sostenere i rischi da lei appena delineati, che sono diversi da individuo a individuo, dipendono dalla fiducia, la sicurezza dell’orizzonte conosciuto. È nella fiducia e nella confidenza che l’esperienza della solitudine può rivelare le contraddizioni dell’esistenza: i vincoli e le possibilità, la libertà e la necessità.

Generalmente, la nostra vita si dipana nella sfera della confidenza. Quando questa ‘familiarità’ viene rimessa in questione, deviata o tradita, tutte le sfere della nostra vita di relazione si appiattiscono. Come Callieri ha mostrato, il dissolversi del confine che delimita e protegge il Sé può generare fenomeni psicopatologici: inquietudine, angoscia per il futuro, accentuazione compensatoria del flusso di coscienza, affaccendamento inutile, sofferenza interiore, depressione, paura degli altri, ansia, fino al ritiro inerte e forzato in se stessi. In condizioni del genere, lo stesso problema della convivenza acquista grande rilevanza, perché le ordinarie relazioni (famiglia, conoscenti, colleghi di lavoro) che stabilizzano e difendono la sfera personale non fanno più da argine all’irrompere dell’anonimo e dell’inquietante che proviene da ogni lato. Prende forma così una nube sinistra, rigonfia di una livida incertezza, ostile, estranea, che costringe ad essere, a dover esser assolutamente così. In questo isolamento (ben diverso dalla solitudine) il paziente sospende il rapporto con il mondo, rifugge dalla consueta relazionalità. È travolto da false identificazioni, sostituzioni, regressioni. Può solo scegliere di non scegliere o tentare di ricostruire forme fittizie di sicurezza. Naturalmente sono tentativi inutili poiché non vi è alcun argine a esperienze artificiose e fini a se stesse. Infatti, è in gioco la donazione di senso alla relazione con il mondo esterno.

Sembra di capire che la solitudine esiga una decisione, mentre l’isolamento rappresenta una sorta di buco nero che irretisce la mente, restando estraneo al nucleo caldo dell’esistenza.

Che sia nevrotico o psicotico, l’isolamento allontana da se stessi e dalle situazioni concrete della vita. Rappresenta una sorta di abbandono del mondo che mina alla radice i legami tra l’io e il mondo. In generale, comunque l’isolamento non è in sé segno di patologia, né si esprime in forme cliniche univoche. A differenza di quelle psicotiche, le altre forme psicopatologiche non sono irreversibili. La possibilità di una comunicazione resta sempre aperta, come pure il richiamo ad essere tirato fuori.

Ci darebbe una rappresentazione sulle declinazioni cliniche della solitudine? Sarebbe molto utile per chi legge.

Mi chiama a un esercizio non semplice nello spazio breve di questo dialogo. Proviamoci. Nel contesto dell’ansia patologica, il paziente è generalmente incapace di scegliere il proprio ruolo tra la propria situazione personale e le determinazioni ambientali. Questa indecidibilità sospende (sebbene temporaneamente) il rapporto con la propria interiorità e con l’ambiente esterno. Irrompe un’ansia sradicante che inchioda il paziente all’immediatezza del puro vissuto, rendendolo incapace di giudicare adeguatamente gli eventi. Egli cammina solo, ostaggio dell’ansia su una crosta sottile attraversata da fenditure profonde: linee di frattura che fanno fibrillare la confidenza nelle ordinarie coordinate individuali e sociali, che si traduce in una disorganizzazione transitoria di schemi di vita e in richieste di aiuto. Dal canto suo, il paziente ossessivo subisce una spinta a tergo, coattiva e inesorabile, che gli ingiunge serratamente di agire in un ordine estremamente rigido. Il paziente fobico, invece, è esposto a dinamiche repulsive di contaminazione, di pericolo e così via. In questo senso, se l’isolamento del paziente ossessivo si declina entro rigidi schemi spaziali, temporali e sociali, quello del paziente fobico è segnato dall’esasperato bisogno di difendersi da imprevedibili minacce fobiche tracciando argini e confini. Diversamente, l’isolamento del paziente ipocondriaco passa per l’esperienza della precarietà del proprio corpo, un fragile castello con il ponte levatoio alzato: da un lato impermeabile alla relazione con gli altri e, dall’altro, permeabile alle rappresentazioni interiori dall’immagine distorta del proprio corpo.

 Cosa succede, invece, rispettivamente nei disturbi depressivi e nelle psicosi?

Quello del paziente depresso è un isolamento di fatto, una sorta di cristallizzazione del divenire e del flusso esperienziale. Il paziente vi assiste impotente alla stregua di uno spettatore che presenzia al proprio naufragio. Fuor di metafora è una condizione che investe tutti i piani dell’esistenza: la temporalità, la spazialità, la comunicazione. Questo non vuol dire che non abbia lucida e spietata consapevolezza della propria condizione, ma come ha ben chiarito von Gebsattel prevale il sentimento dell’esser costretto ad essere solo, che inibisce qualsiasi partecipazione emotiva autentica a quel che accade in lui e intorno a lui. Il suo isolamento, sebbene categoriale, riveste le caratteristiche di un ineluttabile diventar solo che dissolve ogni traccia di umano. Nelle psicosi, invece, solitudine e isolamento del paziente sono aspetti modali e categoriali. La perdita delle ordinarie caratteristiche di familiarità pone il paziente in uno stato di sinistra estraneità che lo rende solo ed isolato, al tempo stesso, precipitandolo in una posizione di radicale incomunicabilità: una solitudine atematica, come suggestivamente è indicata nella tradizione fenomenologica.

 Ci avviamo alla conclusione di questo dialogo. Mi pare che la psicopatologia negli ultimi decenni ha fatto dell’incontro la sua stella polare e, credo si possa dire, che è profondamente interpellata da tali questioni. Quale è la relazione tra queste due sfere cruciali dell’umano?

 Il conoscere psicopatologico oscilla tra questi due poli. Non si verrà mai a capo di nodi teorici così intricati senza gettar luce in questa relazione. L’altro non è solo chi ho di fronte (ma che è in me). L’altro è presenza viva in sé, indipendente da ogni attribuzione di senso e da ogni contesto sociale. Egli non si offre a me perché lo sveli – così lo farei vivere in una luce esterna. Rivolgendosi a me, mi si offre nella sua nudità. Il nostro ‘stare insieme’ precede e oltrepassa la società, la collettività, la comunità. In questa sovversione, ecco che solitudine e incontro assumono una diversa luce. Non più come questioni distinte che si approssimano, ma nel senso che la questione della libertà (dunque la decisione) di esser soli diviene, essa stessa, la questione dell’incontro. Essa non coincide con un qualsivoglia gesto ‘intersoggettivo’ o una qualsiasi astrazione. È, al contrario, una tensione che scrive e riscrive, in modo inesausto, i confini dell’umanità dell’uomo, del suo immenso continente immaginale. In questo senso, l’uomo ha una sola urgenza: quella appunto di essere libero. La libertà è la legge fisica dell’incontro. Nel mondo dove ogni creatura ha la sua legge senza poterne seguire un’altra che non sia la sua, l’uomo ha per legge di essere libero. Egli è interpellato dalla libertà, da ogni lato. L’incontro è il laboratorio permanente della libertà. In questo senso, riportare la verticale verso cui tende ogni relazione umana all’orizzontale dell’incontro è anche stabilire la dimensione essenziale della libertà.

1 Response
  1. Sergio Petrosino

    Bellissimo articolo su un concetto, la solitudine, che si accompagna sempre alla coscienza della morte.
    Voglio aggiungere solo due cose.
    1. Nella solitudine i grandi uomini si formano e perciò la ricercano. Gli altri la evitano come la peste. Nel carcere e nella conseguente forzata solitudine, questi altri portano il proprio piccolo essere, mentre i grandi producono idee e testi tra i più geniali dell’intera storia dell’umanitá: a Dostoevskij e Hikmet, citati dal Prof. Maldonato, voglio accomunare Cervantes, che, in uno dei suoi vari periodi di carcere, ebbe la capacità di scrivere il “Don Quijote de la Mancha”, capolavoro della letteratura mondiale di tutti i tempi.
    2. Dall’articolo si evince che la massa degli uomini vive la solitudine come una iattura, mentre solo pochi convivono bene con essa. Perciò mi piace ricordare qui, a conforto della tesi sostenuta nell’articolo stesso, cosa ne pensava Kierkegaard ne “La malattia mortale”:
    《Il bisogno della solitudine è sempre un segno che in un
    uomo v’è dello spirito, e offre la misura per determinare
    questo spirito. Gli uomini che non fanno altro che
    chiacchierare – tutt’al più copie di uomini – sentono così
    poco il bisogno della solitudine che, come certi pappagalli,
    muoiono appena devono, per un momento, star soli; come il
    bimbo deve essere ninnato, essi hanno bisogno di essere
    calmati dalla ninna-nanna della società, per poter mangiare,
    bere, dormire, pregare, innamorarsi e via dicendo.
    Ma tanto nell’antichità quanto nel medio evo ci si
    accorgeva di questo bisogno di solitudine e si rispettava ciò
    che significava; nella costante socievolezza dei tempi nostri
    ci si spaventa tanto della solitudine che (quale epigramma
    eccellente!) non si sa adoperarla per altro che come pena
    per i delinquenti. Ma siccome è vero che nei tempi nostri è
    un delitto avere spirito, è nell’ordine delle cose che tali
    individui, amanti della solitudine, siano classificati insieme
    ai delinquenti.》
    La malattia mortale, p. 70, in Opere a cura di C. Fabro.

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