Conversazione con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Sergio Petrosino e Benedetta Muzii

La nascita della mente estetica è uno degli eventi più rilevanti dell’evoluzione di homo sapiens. Le storie delle origini si intrecciano fortemente con le creazioni della mente estetica e pongono questioni rilevanti per la storia profonda della nostra specie. Sin dalla loro nascita, le scienze della mente si sono interrogate sul mistero della creazione artistica, nel tentativo di elaborare uno spazio teorico in cui arte e scienza potessero convivere arricchendosi vicendevolmente. Professore, cosa accade quando facciamo un’esperienza artistica? E, in particolare, un’esperienza estetica?

Nell’ultimo mezzo secolo, i neuroscienziati hanno spinto la loro esplorazione sino al confine che divide le scienze della natura dalle scienze della cultura, gettando luce sulla natura biologica e psichica dell’esperienza estetica, una delle più controverse e affascinanti esperienze umane. In verità, già nei secoli scorsi scrittori, artisti e filosofi – da Platone a Kandinsky, da Goethe a Winckelmann ― avevano tentato di penetrare l’essenza del senso estetico e della bellezza. Nessuno di loro poteva, però, immaginare che un giorno avremmo potuto osservare ‘in diretta’ le dinamiche del cervello di fronte ad un’opera d’arte. Lo sviluppo delle nuove metodiche di brain imaging ― che riprendono l’attività del cervello in vivo mentre compiamo un’azione, pensiamo o ci emozioniamo ― sta propiziando formidabili progressi nella conoscenza della fisiologia cerebrale. La Risonanza magnetica funzionale, in particolare, ci consente di studiare pattern di attivazione delle differenti aree del cervello, rivelando come ogni struttura cerebrale sia specializzata per uno o più compiti specifici come l’elaborazione degli stimoli sensoriali (visivi, tattili, uditivi, ecc.), la pianificazione e l’esecuzione di processi motori o la percezione di determinati stimoli emotivi. Queste metodiche ci stanno aiutando a chiarire quanto a noi resta ancora oscuro anche in questo affascinante ambito.

Recenti evidenze sperimentali chiariscono che se sul piano delle esperienze estetiche gli esseri umani mostrano forti differenze individuali (perché collegate a componenti genetiche e culturali), di fronte a un’opera d’arte essi condividono le stesse percezioni elementari.

Questa comune disposizione a percepire lo stesso oggetto o sperimentare le medesime emozioni, che attiva le stesse aree cerebrali in tutti gli esseri umani, è alla base della capacità di comunicare anche quelle impressioni ed emozioni profonde che siamo incapaci di dire a parole. Espressioni artistiche come la pittura, la scultura, la poesia e la musica, permettono all’uomo di esprimere in opere di elevatissimo livello estetico concetti sottili, passioni, piaceri, tormenti e i più intimi movimenti dell’animo umano.

Una decina d’anni fa un gruppo di ricercatori inglesi, guidati da Semir Zeki, mise a punto un programma di ricerca ― definito neuroestetica ― con l’obiettivo di chiarire i meccanismi biologici dell’esperienza estetica.

In diversi studi, Zeki e i suoi collaboratori individuarono alcune aree cerebrali coinvolte nella fenomenologia dell’amore (romantico o materno), mostrando come tale sentimento ― qualsiasi cosa ciò voglia dire ― stimoli le aree cerebrali che generano sensazioni di piacere e ricompensa. Secondo i ricercatori inglesi queste evidenze spiegherebbero perché l’amore, allo stesso modo dell’arte, renda euforici e provochi in noi sentimenti di benessere. In situazioni ove è in gioco tale sentimento, essi hanno notato che mentre alcune aree cerebrali si attivano altre si disattivano: tra queste ultime i lobi frontali, strutture specificamente coinvolte nelle operazioni di giudizio nei confronti delle persone. Questo dato, di particolare rilievo, potrebbe gettar luce sul perché, ad esempio, le persone sono quasi sempre scarsamente obiettive nei giudizi sulle persone amate e, in particolare, perché le madri tendono ad essere sempre molto poco critiche verso i propri figli. Non è implausibile supporre che eventi del mondo esterno ― ad esempio dinamiche socioculturali ― possano provocare un’inibizione reversibile dei lobi frontali, rendendo meno imparziali i nostri giudizi estetici. In questo senso, se si dimostrasse il ruolo inibitorio dei fattori socioculturali sui lobi frontali, si potrebbe forse spiegare perché un’opera non particolarmente suggestiva, ancorché inserita in un contesto a noi noto (ad esempio, quando l’artista in questione è universalmente riconosciuto), possa essere rivalutata esteticamente. Dobbiamo ammettere, però, che si tratta di una materia estremamente controversa.

Una delle peculiarità essenziali del cervello è conoscere ― tra enormi flussi di informazioni ― le regolarità e le invarianze di oggetti e situazioni. A tal fine il cervello utilizza delle procedure per estrarre le informazioni necessarie alla conoscenza delle proprietà durevoli della realtà. Un esempio pertinente è la visione del colore. In qualsiasi ora del giorno un oggetto resta dello stesso colore e ciò grazie a un sistema di elaborazione del cervello, geneticamente determinato, che agisce, per così dire, ad un livello ‘inferiore’ facendoci conoscere il meccanismo per i colori, ma non quello per le forme.

C’è un altro processo di estremo interesse: il fenomeno dell’astrazione, mediante il quale il cervello enfatizza il ‘generale’ a spese del ‘particolare’, aprendo poi alla formazione dei concetti: da quello di linea diritta fino a quello più complesso di bellezza. Si tratta di concetti che gli artisti cercano di trasfondere costantemente nelle loro opere. Consideri la neurofisiologia dei colori e del movimento. Quando il cervello determina il colore di una superficie, lo fa astrattamente, senza ‘preoccuparsi’ della forma precisa dell’oggetto. Esistono, infatti, cellule della corteccia visiva così specializzate da reagire solo al movimento in una direzione e non nell’altra.

In quanto ricerca dei principi e delle regolarità della percezione dell’opera d’arte, la ricerca neuroestetica si è articolata su due livelli fondamentali: a) l’indagine della visione come processo attivo attraverso cui il cervello, costruendo e ri-costruendo il mondo, acquisisce conoscenza dell’ambiente; b) l’indagine dell’esperienza artistica come funzione della relazione tra il soggetto che percepisce e il mondo percepito. Quale è il prossimo obiettivo?

Le ricerche sulle diverse aree della corteccia visiva hanno contribuito in maniera determinante non solo all’elaborazione di un modello della visione come processo attivo, ma anche alla definizione delle sequenze mediante cui il cervello ― filtrando ed elaborando gli impulsi nervosi provenienti dalla retina ― si rappresenta il mondo esterno, attraverso una vera e propria ri-costruzione fondata sull’interpretazione del flusso di informazioni provenienti dall’ambiente. Proprio lo studio delle dinamiche di selezione, classificazione e registrazione degli stimoli provenienti dall’ambiente esterno ― da cui ha origine la rappresentazione della realtà ― ha offerto a Zeki e ai suoi collaboratori lo spunto per ripensare il rapporto tra questa attività di filtro multipla (perché svolta in modo apparentemente indipendente dalle aree della corteccia visiva) e l’elaborazione del dato sensoriale svolta dall’artista nel suo cammino verso ciò che è essenziale.

La selezione, l’eliminazione, la comparazione e, infine, l’identificazione dei dati sensoriali hanno stringenti analogie con quelli alla base della rappresentazione artistica. Quest’ultima costituisce, in qualche misura, una vera e propria estensione delle ordinarie attività del cervello visivo, che sono poi quelle di rappresentare le caratteristiche costanti, durevoli, essenziali e stabili di oggetti, superfici, volti, situazioni e così via: cioè, quelle operazioni che ci permettono di acquisire conoscenza.

Nella sua continua sperimentazione e, dunque, nella ricerca di un proprio linguaggio espressivo, l’artista riprenderebbe, più o meno consapevolmente, il lavoro di selezione attraverso cui il cervello perviene a ciò che vi è di essenziale nel dato sensoriale. In questo senso, l’arte appare come la ricerca di regolarità e invarianze strutturali attraverso un processo di selezione e di derivazione di senso da una gran massa di dati percettivi: una sorta di estensione dell’attività fondamentale del cervello visivo, che poi è quella di acquisire conoscenza del mondo individuandone proprietà specifiche e stabili. Ma vi è un’ulteriore simmetria da considerare: quella tra la necessità del cervello di isolare e valutare le qualità permanenti, essenziali e costanti degli oggetti del mondo e il continuo sforzo della ricerca artistica di cogliere ed indagare l’essenza stessa della realtà.

Non è così che l’arte accresce la nostra conoscenza del mondo esterno, mostrandosi suscettibile all’esplorazione scientifica di alcuni aspetti dell’interazione tra l’elaborazione e la fruizione dell’opera d’arte e l’attività di alcune aree della corteccia visiva?

Senza dubbio! Alcuni studi si spingono proprio in questa direzione, tratteggiando una sorta di approccio intuitivo degli artisti ad alcune sfere della visione. L’artista sarebbe, cioè, come qualcuno ha detto, una sorta di inconsapevole neurologo che ― attraverso la propria ricerca introspettiva e formale ― sollecita più o meno selettivamente le differenti aree della corteccia visiva. La carica comunicativa del prodotto artistico (e le sue implicazioni intersoggettive) sarebbe dovuta alla speciale sensibilità con cui il singolo artista si pone in dialogo più o meno consapevole con le basi biologiche e le funzioni stesse del fenomeno della visione, riuscendo così a produrre qualcosa in grado di sollecitare facoltà, strutture e dinamiche comuni a tutti gli altri cervelli.

A tutti coloro che si occupano, a diverso titolo, di neuroscienze è accaduto di dover rispondere, talora non senza imbarazzo, a domande del tipo: se ogni area del cervello ha una funzione specifica, esiste allora un’area (o più aree) della creatività? E, ammesso che questa esista, è forse più sviluppata nelle persone creative? Lei cosa risponderebbe?

Direi che, nonostante le formidabili opportunità date dalle nuove metodiche di neurovisualizzazione, non siamo ancora in grado di spiegare la maggior parte dei fenomeni cerebrali. A dispetto degli enormi sforzi, l’individuazione di una precisa neurobiologia della creatività, dei molteplici stati mentali e delle emozioni, è ancora tutta di là da venire. Tra i tanti fenomeni ancora avvolti nel mistero, ce n’è uno che sta catturando progressivamente l’attenzione dei ricercatori, e che ha a che fare con le questioni essenziali poste dalla neuroestetica: la sinestesia, fenomeno che vede sfere sensoriali diverse mescolarsi in combinazioni che danno luogo a percezioni e rappresentazioni inedite. Una forma di sinestesia molto nota è quella tra colori e suoni: una persona, ascoltando suoni o note particolari, percepisce un colore sovraimposto alle immagini che sta guardando, anche se quel colore è fuori dal suo campo visivo. Celebre è il caso di Mozart che, assieme al suono, ‘vedeva’ il colore delle note. C’è da dire che, anche se non ne siamo del tutto consapevoli, tutti noi sperimentiamo intrecci tra vista e udito talora inestricabili. A ricorrere più frequentemente è la combinazione tra suoni e immagini, come nel caso della percezione di suoni colorati o viceversa. Nei sinesteti, ad esempio, l’osservazione di un quadro richiama alla mente una musica, proprio come l’ascolto di una sinfonia richiama un’immagine o un colore.

La sinestesia studiata oggi dalle neuroscienze è in sostanza la stessa che, nel corso della storia, ha acceso la fantasia creatrice di artisti, musicisti, poeti e scrittori: penso a Rimbaud, Liszt, Kandinsky, Nabokov ed altri ancora.

L’esperienza raccontata da Kandinsky è stupefacente. In lui i colori si trasfigurano in un mezzo sonoro che “risuona e vibra” nell’opera assieme alle forme. L’artista russo scopre la straordinaria potenza espressiva dei colori assistendo alla rappresentazione del Lohengrin di Wagner. Egli annota: “(…) mi sembrava di avere davanti agli occhi tutti i miei colori. Davanti a me si formavano linee disordinate, quasi assurde. (…) Il sole scioglie l’intera Mosca in una macchia che, come una tromba, impetuosa fa vibrare tutto l’animo. No, quest’uniformità rossa non è l’ora più bella! Questo è solo l’accordo finale della sinfonia che dona massima vitalità ad ogni colore, che fa in modo che tutta la città risuoni come il fortissimo di un’enorme orchestra”. Per Kandinsky il colore produce sugli spiriti sensibili effetti psichici intersensoriali che vanno oltre la vista: sapori blu, suoni gialli, colori ruvidi o lisci. L’intimo rapporto tra suoni e colori percepito da Kandinsky attraverso la musica wagneriana si incrocia con le speculazioni teosofico-musicali di un altro artista russo suo contemporaneo, il musicista Alexander Scriabin, con il quale condivideva la credenza nella funzione mistica dell’arte. Nel suo Prometeo le arti si unificano, i suoni e i colori si fondono. Di più, tutta la sinfonia cromatica del Prometeo si nutre della corrispondenza tra suoni e colori: ogni suono richiama un colore, ogni modulazione armonica richiama una modulazione cromatica. La musica è indissociabile dai colori.

Torniamo alle dure questioni neurobiologiche. Il cervello è costituito da diverse aree separate che consentono la percezione dei differenti aspetti del colore, del movimento, dei volti, dei suoni e così via. Dal punto di vista anatomico, tra l’area V4 (che presiede alla visione dei colori) e le aree uditive non vi sono connessioni dirette e, dunque, colori e suoni percorrono vie percettive differenti. Ad esempio, se in condizioni normali l’esperienza cromatica interessa l’area V4 e quella uditiva riguarda la corteccia cerebrale uditiva, si ipotizza che nei sinesteti l’ascolto di suoni che determina attività in V4 provochi percezioni cromatiche anche in assenza di stimoli specifici. È plausibile sostenerlo?

In realtà, nessuno sa se nel cervello dei sinesteti vi siano peculiarità anatomiche, strutture neurali di contatto tra aree cerebrali distanti o se tra queste aree manchi un’inibizione nella comunicazione neuronale. Sappiamo, però, che la sinestesia rende la conoscenza del mondo straordinaria ed esteticamente avvincente. Inoltre, che la sua influenza sulla creatività di un artista ― cioè l’effetto di sovrapposizione di oggetti presenti nell’ambiente alla percezione viva di colori, suoni o gusti ― è formidabile. Vedere i colori di una sinfonia o sentire il gusto di una forma rende più intenso il valore estetico di un’opera. Attenzione, però! Nonostante la comune origine, la sinestesia è una cosa diversa dalla creatività. Infatti, mentre la sinestesia genera un’esperienza vincolata alla percezione spontanea ed esplicita, la fantasia creativa ha invece come sua sfera elettiva l’immaginazione e, dunque, non ha a che fare con la sensorialità. È in ragione di questa loro natura astratta che le idee creative possono essere trasmesse attraverso le generazioni e condivise da civiltà differenti, costituendo un valore nell’evoluzione culturale. Diversamente, le originali e inconsuete percezioni dei sinesteti appaiono esperienze ineffabili di pochi individui.

La ricerca dei nessi tra creatività e sinestesia ― che è poi la ricerca di una correlazione tra la struttura fisica del cervello e la creatività ― è di estremo interesse scientifico. La stessa creatività, se pensata come un effetto estremo della sinestesia, chiama in causa rapporti specifici fra aree del cervello e connessioni particolari, che conferiscono all’individuo la capacità di cogliere nuove relazioni tra sfere psichiche diverse e gli oggetti del mondo.

Sappiamo da tempo che è l’amigdala ad attribuire valori emozionali a stimoli di per sé neutri mediante processi associativi dettati dall’esperienza individuale. Evidenze empiriche suggeriscono che il senso del bello deriva da un’attivazione simultanea di aree corticali deputate all’analisi fisica dello stimolo (e quindi dipendenti dai parametri intrinseci dell’opera, che possono variare da opera ad opera) e dell’insula, struttura deputata alla percezione e all’organizzazione delle emozioni. Altri valori dell’opera d’arte sono invece elaborati dall’osservatore secondo criteri soggettivi riconducibili all’esperienza e al gusto individuali. Questo secondo tipo di bellezza, che si può definire soggettiva, coinvolge l’attività dell’amigdala, l’area che codifica l’aspetto emozionale delle esperienze personali.

C’è un altro aspetto da considerare. Da un punto di vista neurofisiologico, la visione non dipende dalla fissazione di un’immagine sulla retina, poi trasmessa e interpretata dal cervello. Nell’occhio non vi sono immagini in senso tradizionale. La retina è solo il filtro e il canale dei segnali verso il cervello che poi mette in scena il mondo visivo. In altre parole, la visione è un processo attivo.

Il grande pittore Henri Matisse lo aveva intuito perfettamente quando, ben prima degli scienziati, scriveva: “vedere è già un processo creativo, che richiede molto sforzo”. Questa idea di creatività chiama in causa l’esistenza di connessioni al tempo stesso supplementari e atipiche, cioè strutture nervose che fanno da ponte tra percezioni e attività psichiche (consapevoli o inconsapevoli) presenti esclusivamente in alcune persone più creative.

Forse non è nemmeno necessario esser sinesteti per conquistare l’ispirazione e l’emozione che ci spinge a creare. Non crede che basterebbe acuire la propria sensibilità attraverso il coinvolgimento dei sensi in un originale ensemble percettivo?

,Oggi più di ieri, la tecnologia permette a un artista di dipingere, scolpire o scrivere, ad esempio, mentre ascolta musica. Si possono finanche aggiungere alle opere d’arte elementi che evocano esperienze multi-sensoriali che ne accrescono il valore emozionale. Ricerche recenti mostrano come percezioni simil-sinestetiche esaltino il giudizio estetico e l’armonizzazione di profumi, colori e suoni restituendo alle opere un intreccio sensoriale di intenso piacere. Ad operare questa sintesi tra dimensioni sensoriali differenti sono, in particolare, individui capaci di ottimizzare gli elementi figuratividella grammatica percettiva umana. In questo senso, l’esperienza estetica non andrebbe pensata come una semplice stimolazione (o iper-stimolazione) selettiva di determinate aree della corteccia visiva, ma in questa peculiare grammatica utilizzata dagli artisti nella comunicazione. Troverebbe qui fondamento la correlazione tra immagine e risposta emotiva all’immagine che costituisce l’essenza di quel che definiamo arte. In questa mediazione tra il fruitore e l’ambiente, l’arte si sarebbe evoluta come emulazione della realtà, estensione di quelle funzioni che vedono impegnati i nostri circuiti neuronali ogni volta che dobbiamo valutare una gamma di possibilità d’azione rispetto ad una determinata situazione.

 Vi è il timore diffuso che l’interpretazione degli oggetti artistici in termini neurobiologici possa toglier loro valore, privandoli della loro capacità di interrogarci e provocare in noi piacere. Questo pesa non poco sulle sorti di questo ambito di ricerca. Si tratta di un timore fondato o di un semplice pregiudizio che tende a riproporre la separatezza tra le “due culture”, ognuna delle quali deve svolgere il proprio lavoro?

È evidente che non è la conoscenza dei meccanismi e delle funzioni neuronali ― che pure ci fanno apprezzare i dipinti di Caravaggio, Turner o Velasquez ― a renderli meno meravigliosi. Di gran lunga più proficuo è discutere se l’arte abbia o meno una funzione. E, ammesso che l’abbia, se questa consista nella necessità di acquisire ulteriore conoscenza del mondo circostante o, addirittura, di simulare la realtà, trascendendola e deformandola.

A questo punto bisogna chiedersi se non sia necessario ripensare in termini nuovi il rapporto tra neuroscienze, arte e filosofia. Non solo la storia dell’arte, ma anche gli studi di iconologia, antropologia e psicologia dimostrano che la funzione della rappresentazione non può essere identificata solo in un ulteriore strumento della nostra conoscenza del mondo degli oggetti.

Se, come è stato detto, l’uomo è un animale produttore di simboli, la simbolizzazione è un processo volto ad esprimere qualcosa. L’interpretabilità del simbolo, tuttavia, non riguarda una realtà esterna e materiale, ma una realtà interna e immateriale. Ma eccoci precipitati all’interno di un perfetto paradosso: il simbolo dà corpo e sostanza a ciò che corpo e sostanza non ha. Attraverso il simbolo, infatti, esprimiamo quei contenuti indistinti che affiorano alla coscienza e prendono poi parte, in forme diverse, alla sfera razionale. È la coscienza a restituire alle cose un senso che è al di là della mera oggettualità. Invece di trattare direttamente con le cose, l’uomo ne fa esperienza, le coglie, le decifra solo tramite un costante dialogo con se stesso. Egli non si muove in un mondo di oggetti univocamente dati, di spinte immediate, ma vive, sente e riflette immerso in una densa atmosfera di emozioni e immagini, di sentimenti e fantasie, di attese e speranze. L’uomo è un animale simbolicoe il simbolo, come dice Jung, è corpo vivo ed anima, la più antica ed efficace metafora del simbolo.

Al di là della sua origine, il termine simbolo – che rinvia etimologicamente ai movimenti di separazione e riunione –porta in sé una polarità derivabile ed una inderivabile. Se in Freud, il simbolo ha il compito di occultare la verità (unendo il contenuto manifesto di un comportamento, di un pensiero, etc., al suo senso latente), in Jung designa la natura oscura dello Spirito (l’ombra) nelle sue polimorfe espressioni e attività, mantenendo sempre viva la tensione dei contrari, che è alla base della nostra vita psichica. Comunque sia, il simbolo rinvia a un senso ineffabile, oscuro, che nessuna parola può esprimere compiutamente.

Il simbolo svolge una funzione sostitutiva chefa transitare nella coscienza, in forma dissimulata, contenuti che altrimenti non potrebbero accedervi. Il simbolo è una realtà dal potere tremendo che ― come si vede sovente in psicopatologia ― può in alcuni casi anche sconvolgere trame e orditi psichici. La sostituzione implica anche una funzione mediatrice: un vero e proprio ponte fra gli opposti, tra realtà e sogno, natura e cultura, inconscio e coscienza. È un fattore che stabilizza valori e sentimenti, forza unificatrice e fattore d’integrazione personale, ma anche sempre concausa potenziale di disordini della personalità, di frammentazione del sé, di falsificazione delle istanze temporali. Credo che il simbolo sia sempre la cifra allegoricadi un mistero, mai svelato una volta per tutte, come un al di là del pensiero sempre nuovamente da decifrare nello scarto tra linguaggio metaforico e cosa indicata. Come concetto-simbiosi porta sempre con sé il pericolo che la pregnante ‘irrazionalità’ del suo discorso, trasformando il “regime notturno” in “regime diurno” e come per i surrealisti, la sua doppia sintassi in un’attività onnipervasiva.

Continui pure …

Ecco, se l’indagine neuroestetica non si fermasse all’analisi dei principi e delle regolarità della percezione e della fruizione dell’opera; se non si limitasse a chiarire come e perché l’artista si serve proprio dei mezzi e del linguaggio del cervello visivo, rivolgendosi, per così dire, nel proprio atto espressivo a quelle aree altamente specializzate evolutesi lungo un tempo milioni di anni più lungo di quello del linguaggio; ecco, allora forse si potrebbero conoscere non solo i codici materiali condivisi su basi biologiche (realtà psichiche immateriali comuni a tutti gli uomini), ma si potrebbero vieppiù conoscere elementi e aspetti della realtà psichica da una nuova prospettiva – la simbolizzazione – che così tanto caratterizza l’homo sapiens.

Per oltre un secolo la psicologia e la psicanalisi hanno indagato le dinamiche della simbolizzazione. Non le sembra che oggi abbiano, per così dire, perduto la loro originaria forza propulsiva? Sono meno pessimista. Proprio da un più stretto dialogo con la psicoanalisi, la fenomenologia e la neuropsicologia, la neuroestetica potrebbe divenire lo strumento per un ulteriore studio della simbolizzazione che potrebbe dischiudere orizzonti interpretativi nuovi per l’indagine di quegli elementi del patrimonio simbolico comune che costituiscono l’alfabeto delle immagini attraverso cui ci relazioniamo con e tra di noi da sempre.

Leave a Reply