Quel grido inascoltato del cuore. Dialogo sull’estremo atto della coscienza

Intervista a Nelson Mauro Maldonato

a cura di Benedetta Muzii

Riproponiamo, a distanza di pochi mesi, una riflessione su un tema di estrema sensibilità: il suicidio. Riteniamo opportuno, vieppiù in questa atmosfera di festosa euforia, riflettere su un lato in ombra di questo tempo, che nella letteratura scientifica viene definito come “Christmas Blues”: cioè quella condizione di sofferenza tipica delle transizioni tra la fine di un ciclo e l’inizio di un tempo nuovo, tra un passato (illusoriamente) rassicurante e un futuro di attese.

Il suicidio è un tema dal campo gravitazionale ampio, che attraversa ambiti diversi tra loro: dal darsi intenzionalmente la morte al suicidio assistito (con tutte le sue implicazioni etiche: se, cioè, il corpo sia o meno nella nostra disponibilità); dalla prevedibilità/predittività alla dimensione clinica del suicidio giovanile, la cui incidenza epidemiologica sta rimettendo in questione le nostre chiavi di lettura di questo fenomeno; infine, dalla medicalizzazione del suicidio ad altri aspetti non meno rilevanti. Ne parliamo con Nelson Mauro Maldonato, psichiatra e professore di Psicologia Clinica alla Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università di Napoli Federico II.

Il tema del suicidio, nonostante le sue diverse cause, resta ancora oggi un elemento anomalo sul piano clinico. Possiamo dire così? 

Direi di sì. Sebbene non vi sia Trattato di Psicopatologia che non vi dedichi rilevante attenzione, il suicidio è da sempre una categoria dell’umano avvolta da un’aura di mistero e ambiguità. Non è né una sindrome, né un disturbo, men che meno una malattia. È di certo un tema scomodo, sul quale dobbiamo ragionare senza ricorrere a troppo facili scorciatoie o a rassicuranti nosografizzazioni. Fu, peraltro, Karl Jaspers a chiarire che il suicidio può costituire “una forma di protesta, di sfida” contro potenze sovrastanti: quasi che l’agito suicidario rappresenti una estrema riaffermazione della propria autonomia e libertà di scegliere se stessi. Pur nella sua minacciosa ambiguità, il desiderio di morte può avere la sua sorgiva in questa drammatica, paradossale decisione.

Qualcuno ha suggestivamente sostenuto che il suicidio ci costringe sempre a ricostruzioni imperfette. 

Vero. Possiamo individuare regolarità, condizioni di possibilità del suo accadere; oppure analizzarlo come fatto oggettivo o soggettivo; o ancora considerarlo in termini statistico-epidemiologici; finanche considerarlo in ordine ai suoi frequenti fenomeni di emulazione, d’altra parte conosciuti da tempo. E, tuttavia, il darsi la morte resta nella sua essenza incomprensibile. Dobbiamo ammettere che esso possa essere una determinazione estrema della nostra coscienza o, come diceva Bruno Callieri, il padre della psicopatologia fenomenologica italiana e uno dei miei maestri, un’ambigua categoria antropologica.

In che senso “ambigua”?

Nel senso che l’ambiguità è una cifra costitutiva dell’umano. E, almeno entro certi limiti, il suicidio è un paradigma di tale ambiguità. Lo scandalo assoluto, per chi si toglie la vita di fronte a situazioni di fallimento o di sofferenza insostenibili, è l’affermazione, da un lato, di una sovranità (morale, super-egoica) sulla propria esistenza; dall’altro, la consapevole rinuncia all’esistenza che, naturalmente, non vuol dire mero annientamento o insensato nichilismo.  

Generalmente, il suicidio è considerato dagli psichiatri una sorta di condotta anomala, alla cui origine vi è un ampio spettro di condizioni: dalla franca patologia psichiatrica a quella medico-internistica, ad altro ancora che con tutto questo non ha nulla a che fare. 

Occorre molta prudenza. L’orizzonte dell’esistenza – con le sue linee di frattura, i suoi coni d’ombra, i suoi abissi – eccede di gran lunga il potere di sguardo della psichiatria e della medicina. Troppo spesso siamo propensi a credere che le nostre conoscenze e le nostre verità puramente congetturali racchiudano tutto. Ma di ciò che si muove nel fondo limaccioso della vita – e della materia, se si vuole – sappiamo ancora poco. Come di fronte a molte altre grandi questioni, dobbiamo riconoscere con onestà intellettuale che siamo in un punto cieco: da qui non sappiamo nemmeno di non sapere. Davanti a noi vi è una no man’s land che si allarga ogni giorno di più, proprio in un tempo di apparente ampliamento del nostro potere sul mondo. Pensi al mondo adolescenziale e giovanile, a quel pluriverso di condotte autolesive gravi, di narcisismo patologico, di rabbia impulsiva e aggressività incontrollata, di condotte anti-sociali, di incapacità di tollerare qualsiasi frustrazione, di schemi rigidi nel fronteggiare le vicissitudini della vita. Per non dire del numero crescente di giovani che anziché sfidare le difficoltà (per superarle) le eludono, rifugiandosi in atmosfere illusionali brulicanti di fantasie di grandezza, che sono poi la spia di un senso di impotenza che alimenta delusioni e disillusioni laceranti. Qui il discorso sull’ambivalenza dei rapporti dei giovani con i genitori e gli adulti (intere generazioni che avrebbero potuto fallire meglio) si fa inaggirabile. Sia come sia, siamo chiamati tutti a porre attenzione agli indizi critici del malessere e, laddove possibile, a predisporre strategie preventive innanzitutto provando a conoscere in modo più penetrante la loro personalità, prima che intere generazioni sprofondino in una realtà sempre più mediocre, più cinica, più indifferente. Il nostro gruppo sta conducendo una ricerca in questo ambito e i primi risultati appaiono di grande interesse.

Si ha la sensazione che di fronte ai mutamenti epocali, alla tremenda incertezza che ci ghermisce alle spalle, a questa nebbia dentro cui percepiamo qualcosa di enorme e minaccioso che si muove, le analisi non sembrano essere all’altezza delle questioni che abbiamo di fronte.

Innanzitutto occorre accettare l’idea che vi sono problemi che non sappiamo spiegare e per i quali, almeno per ora, non abbiamo soluzioni. Soprattutto per quanto riguarda le condotte suicidarie occorre guardarsi dal pericolo di ricorrere a una rassicurante, quanto irrilevante, patologizzazione di queste angolazioni dell’esistenza. Si tratta di una questione cruciale. Pur di fronte a un numero altissimo di casi in cui prevale l’aspetto psicopatologico, è necessario riconoscere – contro ogni semplificazione semeiologica e diagnostica – la presenza di condotte suicidiarie estranee che nulla hanno a che fare con aspetti clinici, sociali, economici. Per casi del genere sarebbe implausibile ogni forma di medicalizzazione o, peggio, di generalizzazione sociologica.

E, tuttavia, la depatologizzazione di queste condotte ha una portata rilevante.

Proviamo a chiarire meglio. In certi stati di disordine emotivo grave, di turbamento violento, quando per ragioni diverse si è davanti a vie senza uscita; quando la presa d’atto della propria crudele limitatezza ritorna nelle forme di un intollerabile dolore fisico e psichico; quando più acuta si fa l’impressione di vivere qualcosa di diverso da ciò che siamo; quando l’esistenza affonda brutalmente nelle cose e resta solo lo spazio per sogni dolorosi a occhi aperti; quando prevale l’agghiacciante sensazione di essere lontani dalla vita, precipitati nella deriva impotente di una coscienza incapace di pensare se stessa (e tuttavia condannata a portarne il peso insostenibile dopo aver voltato le spalle ai propri desideri): ecco, allora, che la consapevolezza del ritrarsi dalla vita, come a guardarla estinguersi da lontano, porta la ragione ad assopirsi e la vita irriflessa ritorna con i suoi istinti, i suoi riti sanguinari, per re-istituire il proprio ordine, la propria primitiva sovranità, ad ogni costo. Tutto questo diviene di pregiudizio alla vita stessa, al punto da gettarla via anche con un solo gesto. E noi, con la nostra presunta razionalità, siamo lì incapaci di comprendere.

Bruno Callieri diceva pure che vi sono condotte e atti umani a cui possiamo accostarci solo su un terreno antropologico ed etico, non su quello medico. 

Diceva anche che il suicidio è tra le poche situazioni umane, forse l’unica, che evidenzia i limiti dello “psicologizzare”. Personalmente, vedo ostacoli, sovente insuperabili, nella comprensione delle ragioni all’origine di certi casi singoli. Tutto il nostro acume è incapace di cogliere il disporsi di una persona dinanzi alla propria morte: non la morte in genere, ma l’assolutamente altro. L’invalicabilità di questa linea d’ombra mostra quanto piccola sia questa cosa che chiamiamo con fierezza intelligenza.

Grandi poeti, letterati, pensatori hanno scelto di mettere il punto alla propria vita, anche quando la loro vita era irradiata dalle luci della ribalta.

Mi fa venire in mente il darsi la morte di Sylvia Plath, Virginia Woolf, Gilles Deleuze, Amelia Rosselli, Primo Levi, Yukio Mishima, ma l’elenco potrebbe continuare. Proviamo solo a immaginare l’atmosfera in cui hanno concepito la propria fine: la rassegnazione, i tenui barlumi di speranza, gli oblii, la cerimonia d’addio. Anche se le loro opere testimoniano il divorante bisogno di vivere per mille anni ancora, probabilmente era per loro insostenibile l’idea che un giorno, questo qualcosa di vago e inafferrabile, temibile e disperante, che è la morte, avrebbe reciso – come disse lucidamente Derrida – il legame tra il nome e il corpo. Proprio quel nome che è per noi, per ognuno di noi, sin dall’inizio, sigillo di morte. Provo ad immaginare la vita svolgersi davanti ai loro occhi. Penso al loro restare senza parole: quelle stesse parole che avevano usato per nuove aperture e sguardi e narrazioni inedite sul mondo. Se proviamo ad immedesimarci nella loro disperazione, possiamo cogliere lo scacco radicale davanti al senso dell’esistenza, la perdita irriducibile del significato, l’enigma di una forma dietro la quale vi è il nulla. Esposti al potere del nulla, ancora al di qua della follia e al di là della ‘normalità’, sarà forse risuonata in loro la domanda: cosa sarà mai di noi, se alle parole e al tempo abbiamo affidato la nostra intera sorte? Ecco, allora, che tutto ci riporta al problema del senso e del significato e, inevitabilmente, al senso del significato. Ma questa è un’altra storia.

1 Response
  1. Tiziana Mancinelli

    Assolutamente condivisibile. Spietata l analisi veritiera nel porre il confine della decisione di porre fine alla propria vita , in un contesto demedicalizzato e , ma sicuramente fuori da ciò che il senso co.une fa ricadere nella normalità. Del resto ” se Luigi si sporge verso l acqua sono solo fatti suoi” diceva Francesco de Gregori, ma io ancora non lo so se condividere questo pensiero.

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