Quelle terre conosciute in sogno. Sul sentimento della nostalgia

Conversazione con Nelson Mauro Maldonato

A cura di Benedetta Muzii

Parlare della nostalgia significa, prima di tutto, tornare alla questione del tempo: questione diversa da quella dello spazio, se è vero che possiamo andare da un punto all’altro dello spazio: ad esempio, tornare in un luogo dove siamo già stati, mentre ci è impossibile nel tempo, che non torna più. Il fiume di istanti che chiamiamo tempo non può risalire la corrente. La nostalgia parla di un tempo che non ci appartiene più, un tempo finito. Cos’è per lei la nostalgia e quale rapporto intrattiene col tempo?

Il termine nostalgia – sul piano etimologico nostos (ritorno) e algìa (dolore) – fu usato, per la prima volta, nella seconda metà del XVII secolo per indicare una sindrome che colpiva i soldati svizzeri inviati presso guarnigioni straniere. Era caratterizzata da una tristezza vitale, da un intenso, lacerante bisogno di far ritorno alla propria terra, alla propria patria, alla propria casa. Tra il ‘600 e il ‘700 venne considerata dai medici addirittura mortale. Resoconti dell’epoca riportavano osservazioni cliniche di questa natura anche tra donne svizzere e francesi recatesi in paesi stranieri in cerca di un lavoro. Più tardi venne classificata come malattia coloniale. Il mal d’Africa, ad esempio, fu a lungo considerato un vero e proprio disordine della mente. È interessante notare, come riportano le cartelle mediche dell’epoca, che una volta a casa i soldati guarivano. Anzi, che a farli guarire bastava anche la sola promessa del congedo. Naturalmente si trattava di una guarigione illusoria. Il luogo da cui erano partiti tanto tempo prima non esisteva più. Era definitivamente cambiato. E anche loro stessi.

In realtà, già Platone aveva cólto una relazione tra nostalgia e reminiscenza, tra memoria e ricordo: relazione evidenziata, del resto, dalla etimologia stessa del termine, che designa una sfera di sentimenti in rapporto con il ricordo, la reminiscenza, la rimembranza. Ma in che senso il ricordo ha a che fare con la nostalgia?

Non basta dire che la nostalgia è fatta di ricordi irrevocabili, sigillati nel passato. La nostalgia è il sentimento di uno spazio vissuto: ad esempio, un luogo dell’infanzia, la terra da cui si è partiti per andare altrove, ma anche l’insieme dei ricordi di chi è stato sradicato o allontanato da un luogo: in breve, il sentimento della lontananza, dell’esilio. I poeti conoscono perfettamente il significato della nostalgia e dei suoi movimenti. In fondo, poeta è colui che parla la lingua della terra-madre, il linguaggio della fantasia e dell’immaginazione. Chi è separato dalla propria terra è, inevitabilmente, separato anche dalla propria lingua. La sua condizione è vivere in una perenne posizione nostalgica. È separato dalla sua lingua materna, perché separato da quel linguaggio dell’infanzia che una volta era la sua lingua. Ma separazione dalla terra è anche separazione dal corpo della madre, in quanto linguaggio dei simboli, affettività: dunque, corpo della madre | corpo della terra | corpo della lingua. Nella figura del poeta, madre, terra e lingua coincidono. Attraverso questi elementi il poeta dona sostanza e forza al proprio linguaggio. Attraverso il ritmo e la finzione egli ricrea un nuovo tempo, un altro tempo, un tempo a venire. Ogni forma di separazione, anche la più tragica e violenta, è sempre una separazione da una parte di sé, che è quel determinato luogo, quella determinata storia. Anche per questo la nostalgia è un sentimento doloroso. Un dolore che nasce dall’addio a quel noi vissuto in un tempo e in un luogo che non torneranno più; che si sono perduti per sempre e non potremo mai più riavere indietro.

Forse si può dire che la nostalgia è anche fortemente ancorata alla speranza. Entrambi i sentimenti, infatti, hanno come chiave interpretativa il tempo. Se per la nostalgia è il tempo passato, per la speranza è il tempo futuro. Apparentemente divergenti tra loro, questi sentimenti si saldano in uno stato d’animo simile al desiderio.

Poeti, scrittori e artisti hanno contribuito molto a un’idea della nostalgia come desiderio di qualcosa di indeterminato, qualcosa che potrebbe accadere anche quando è andata perduta ogni aspettativa. Se il passato è non più presente e il futuro è non ancora presente, allora nostalgia e speranza sono sentimenti sospesi che ‘guardano’ in qualche modo il tempo dall’esterno.

Lei ha sostenuto di recente che la nostalgia e la speranza, così cruciali nella poesia, nella letteratura, nella musica, hanno grande rilievo anche in psicopatologia.

Non è semplice rispondere. In generale, vi sono forme di nostalgia regressive. La storia è piena di storie di individui e comunità fissate sui miti della propria etnia, della propria origine, del proprio paese, della propria identità culturale: fissazioni che ostacolano l’evoluzione individuale e sociale, generando linguaggi e simbolismi di immunizzazione verso l’altro. Vi sono nostalgie mitico-regressive che semplicemente negano l’altro e il suo stesso diritto a vivere. Naturalmente in questa chiusura regressiva, in questa nostalgia di una radice immaginaria vi è sempre una possibilità di apertura, di riconoscimento dell’altro. Si potrebbe continuare, ma temo che entreremmo in tecnicismi che vorrei evitare.

Sebbene struggente e doloroso, la nostalgia è anche un sentimento aperto?

Sì, perché attraverso i ricordi ci restituisce il tempo dell’infanzia, dell’adolescenza, i luoghi conosciuti, i paesaggi visti, le persone amate. Cose che divengono nel tempo parte di noi stessi. Riappropriarci di qualcosa che si è avuto ci aiuta a portarci dietro quello che siamo stati e, in qualche misura, a continuare il nostro cammino. Senza rimpianti e con una consapevolezza nuova: che se l’oggetto o la persona ricordata non possono tornare più, potremo comunque reincontrarli nella memoria e che quel che non possiamo più rivivere nel tempo potremo riviverlo nel linguaggio. Una delle caratteristiche primarie dell’arte è proprio questa, basti pensare alla nostalgia vaga e sospesa, al sentire indeterminato dello spleen baudelairiano o dell’in(de)finito leopardiano.

Noi tutti aspiriamo a un luogo in cui non siamo mai stati, come una nostalgia di una terra sconosciuta, che è poi, in qualche modo, il centro del nostro essere.

Quando Proust scrive “(…) basta che un rumore, un odore già sentito o respirato un’altra volta, lo siano di nuovo, a un tempo nel presente e nel passato, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti” ci dice come la realtà oltrepassi l’attualità, che questa è solo la punta dell’iceberg della realtà. Il presente non è tutto. La realtà è più profonda di quel che appare in superficie. Perché è reale senza essere attuale, è ideale senza essere astratto. Per questo l’inapparente non è semplicemente un’astrazione, ma un’idealità che ha vita.

Ma luogo elettivo della nostalgia non è solo la scrittura.

Vero. C’è una sensazione cui non riusciamo a dar corpo, a dar senso, a dar nome e che ha a che fare con la nostalgia: una sensazione di sospensione, di indefinito, di incompletezza. In realtà, viviamo tutti nell’incompletezza, nella finitezza, all’interno di un limite. Pensare, agire, amare, muoverci fra gli uomini, richiede il riconoscimento di questi limiti. Se accettassimo questa finitezza – perché impotenti di fronte al tempo – la nostalgia avrebbe un volto positivo. La nostalgia ci dice che quel che abbiamo vissuto, abbiamo amato e di cui abbiamo avuto cura non tornerà più; che siamo in continuo movimento e non possiamo essere quello che siamo stati un tempo; che occorre riconoscere il limite del tempo: un tempo che ci trascende, che non ci appartiene più.

Lei ha frequentato a lungo il Brasile. Che rapporti intrattiene la nostalgia con la saudade?

Credo vi sia qualcosa di diverso e, insieme, di molto simile alla nostalgia. Anche se reca in sé cifra della memoria, la eccede di gran lunga, come un desiderio vago, indefinito. Di questo desiderio, di questa vaghezza vi è chiara evidenza nella musica, nel canto. Nell’epoca in cui la nostalgia era considerata una malattia la voce rivestiva un ruolo di grande importanza. È Rousseau a ricordare l’effetto nostalgico provocato dall’eco di voci familiari in una terra straniera: voci familiari e straniere di persone lontane. Nel fado portoghese, nel tango argentino, in generale nelle musiche degli emigranti, voci, musica e suono si saldano alla nostalgia. Dal Seicento in poi tutta la storia della musica è impregnata di nostalgia.

In definitiva, la nostalgia parla di un tempo irrevocabile. “Noi siamo cambiati”, dice Pessoa. “Lisbona torno a rivederti, ma io non mi rivedo”. Nel Livro do desassossego, annota “Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la vita”. Il poeta portoghese è esiliato da se stesso: un esilio che è nostalgia di una lingua, della propria lingua, del proprio io; esilio che è mancanza di luogo, impossibilità di sentirsi a casa; esilio che è fragile appartenenza, un essere sempre altrove. Doppiamente esiliato, dal mondo e da se stesso, per Pessoa i luoghi, le immagini, i volti hanno perduto senso. Non perché invecchiati, consumati o corrotti, ma perché la radicalità dello scacco da loro subito ha lasciato un vuoto, un silenzio inospitale.

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