Di Nelson Mauro Maldonato

Nell’esordio psicotico e, più in generale, nelle psicosi iniziali, sia la «disposizione d’animo delirante», sia l’«esperienza di fine del mondo», hanno il proprio comune denominatore nella dissoluzione di una struttura categoriale dei contenuti simbolici di significato. Si dissolve, cioè, il legame tra il vissuto e il significato ordinario che assegniamo alle cose. Al nascere dell’esperienza psicotica, l’alterazione dei significati attribuiti alle cose contrassegna profondamente la struttura dell’esistenza, soprattutto nelle sue categorie spaziali e temporali. I limiti tra io e mondo diventano indistinti. Ogni cosa assume caratteri estranianti, enigmatici, sinistri. L’ordinaria atmosfera del mondo è minacciata da sensazioni incomprensibili e intraducibili di sortilegio, di incubo, di incantesimo maligno. Se sul piano psicopatologico la prossimità formale tra «disposizione d’animo delirante» ed «esperienza di fine del mondo» appare chiara (si pensi all’alterazione delle categorie simboliche di significato), sul piano clinico quest’ultima appare come una modalità di base dell’esperienza psicotica: un accadere unico e sconvolgente, un esistenziale estremo e inderivabile. Qualcosa, cioè, non facilmente riconducibile ad altri disturbi primari, come una qualsiasi formazione delirante o una semplice somma di sintomi di ‘primo ordine’. All’accadere logico-razionale, se ne contrappone uno ambiguo, paradossale, precario, incerto, estraneo, sinistro. Come se l’esserci nel mondo – ben ordinato nelle sue coordinate spazio-temporali e che assegna significati rassicuranti e univoci alle cose – fosse oggetto di una tremenda metamorfosi, che trasforma e trasfigura l’esperienza più ovvia in qualcosa di scucito, fratturato, enigmatico, sconcertante: come se niente avesse più senso perché tutto può avere senso. Lo stesso linguaggio diviene ineffabile. Ogni gesto tenta di radicarsi in un senso condiviso, di arginare un’angoscia estrema: prima del rarefarsi delle cose, dell’incontro col nulla. Storch ha inscritto questa ‘metamorfosi schizofrenica’ all’interno di strutture deliranti cosmico-metafisiche. E, tuttavia, la perdita delle ordinarie relazioni come via d’accesso a un margine più profondo di sé, non è poi così implausibile come potrebbe sembrare. L’«esperienza di fine del mondo» del paziente schizofrenico non si esaurisce con il suo inquadramento nel ‘delirio di significato’ o nella ‘consapevolezza delirante’. È qualcosa di più di un singolo sintomo formale: è la cifra più profonda dell’accadere schizofrenico, della sua espressione più densa e cogente, anche se resta, come per ogni delirio primario, una delle declinazioni più radicali della metamorfosi dell’esserci.

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Molto è stato scritto sulla tremenda domanda della ‘malata di Sandberg’, al precipitare del delirio, che Jaspers riporta in Psicopatologia Generale: «C’è qualcosa… Dimmi, cosa c’è? Non so. Ma è accaduto qualcosa». In qualche occasione, la sua interrogazione è stata considerata come paradigma dell’esordio psicotico: un crocevia catastrofico dove i significati interni ed esterni del tempo e dello spazio sfumano, mentre il mondo si manifesta attraverso figurazioni deformate e deformanti. Qui, però, più che inoltrarci in una discussione sulla fenomenologia del presagio schizofrenico – sulla quale Bruno Callieri ha scritto pagine di vertiginosa penetrazione – oppure tentare di decifrare gli aspetti strutturali e genetico-dinamici del mysterium tremendum che è (e resta ancora) l’esordio psicotico, interessa chiedersi chi è a fare esperienza dell’enigma emergente e inondante che minaccia in radice l’intero dispositivo di pensiero e percezione del mondo? Chi è a perdere l’evidenza naturale delle cose? Chi è a mettere in questione, fino a scuoterla dalle fondamenta, la fedeltà all’ordine del mondo? Infine, chi tenta di incontrare la ‘malata di Sandberg’ con la sua domanda? Callieri ha scritto che l’eccezionalità della «disposizione d’animo delirante» non risiede soltanto nel dislocamento tra contenuto e forma dell’esperienza vissuta, ma anche nel suo singolare concernere l’Io. Questa, infatti, è piena di Io e i suoi contenuti, sia pure indeterminati, non sono affatto impersonali e neutri. Qui la convergenza concettuale del pensiero del maestro romano con quanto scrive Gaetano Benedetti – cioè che «la psichiatria è rimasta incagliata nel dramma concettuale dell’unità dell’uomo» – è fortissima. La convergenza delle loro posizioni è qualcosa di più che una solidarietà di pensiero: è la condivisione di un medesimo orizzonte teoretico e di un gesto teorico e pratico che tenta di liberare la psicopatologia dall’autoreferenzialità di una riflessione che non nutre dubbi sulle fonti della propria conoscenza; che, anzi, pretende di comprendere l’Io – immenso e irriducibile pluriverso immaginale e non nucleo metafisico unitario e invariante – sulla base di fondamenti indiscutibili.

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