Di Nelson Mauro Maldonato

Sostengono taluni che nel suo fantasmagorico viaggio verso l’iperstoria, l’uomo realizzerà il suo antico sogno di immortalità; che con l’aiuto della genetica, della robotica, dell’intelligenza artificiale, dell’ingegneria genetica, sarà in grado di trasformare il proprio corpo in una creatura simbiotica, metà uomo e metà macchina, che lo eleverà al rango di Homo Deus. Sarà così che carestie, siccità, epidemie e guerre – per migliaia d’anni considerate ineluttabili – verranno definitivamente sconfitte. In questa profezia che si autoavvera (che è insieme un paradosso della predestinazione), manca un tema cruciale che riguarda il presente e il futuro dell’umanità: quello della salute mentale di milioni di persone dell’intero pianeta: un iceberg di dimensioni gigantesche, di cui si intravede solo la punta emergente. Si considerino solo i disturbi depressivi e l’ansia. Proiezioni epidemiologiche recenti indicano che, presto, le patologie depressive diverranno le più diffuse dopo quelle cardiovascolari. In Italia, riguarderanno circa 3,5 milioni di pazienti e in Europa oltre 35 milioni. Una ricerca dell’OMS ha rivelato che circa 300 milioni di persone nel mondo sono, a tutt’oggi, affette da depressione (già di fatto la maggior causa di disabilità al mondo), il cui incremento, nel solo arco di tempo tra il 2005 e il 2015, è stato di oltre il 18%.

Le conseguenze di tali patologie sono enormi: per gli anni di salute perduti, i costi necessari al mantenimento e alle cure, gli effetti via via più chiari della correlazione tra depressione e malattie come il diabete, le malattie cardiache, l’abuso di sostanze e altro ancora. Questi dati, in sé allarmanti, dovrebbero indurci a ripensare la strada fatta sin qui, comprendere dove siamo adesso e decidere in quale direzione andare. Le domande che dovremmo farci sono: chi saranno i nostri pazienti? Come saranno curati? Chi sosterrà le cure? In che modo il patto con la società riguarderà la tutela della salute mentale? Come affrontare la sfida delle neuroscienze computazionali che sta monopolizzando la scena del mondo scientifico e non solo? Come fronteggiare le sfide poste dalle epocali migrazioni del nostro tempo? In un mondo sempre più complesso, occorre più che mai che i clinici si mettano in sintonia e in dialogo con la società, affinché i pazienti affetti da un disagio psichico abbiano le stesse opportunità di vita, indipendentemente dalle possibilità finanziarie e dal luogo in cui vivono.

Alla base del patto tra la clinica e la società – patto in permanente negoziazione – vi sono aspettative e istanze reciproche da esplicitare e rendere più trasparenti. Tutto ciò ha valore soprattutto per le nuove generazioni di clinici, alle quali occorre trasmettere il senso della complessità di una cura che, oltre alle inaggirabili dimensioni biologiche e psicologiche, tenga in massima considerazione gli aspetti sociali e spirituali della persona che ha di fronte. Per ragioni diverse tale discorso investe la teoria e la pratica della psicopatologia, che rappresenta (o almeno dovrebbe rappresentare) la bussola dell’agire clinico. Sempre più spesso, negli ambienti scientifici internazionali (psichiatrici, psicologico-clinici e neuroscientifici) si sentono appelli come “tornare alla psicopatologia”. Si tratta, per lo più, di invocazioni che sembrano, da un lato, tradire il rimpianto per una stagione luminosa e remota; dall’altro, l’insoddisfazione per un presente su cui aleggia l’aura sacrificale della nostra condizione presente. Forse, la domanda da porsi è: perché la psicopatologia è finita ai margini dell’orizzonte clinico e conoscitivo? Siamo forse di fronte al crepuscolo di una storia lunga e feconda? Se così fosse, non vi sarebbe nulla di strano. Tante volte, nella storia della conoscenza, idee e paradigmi di ricerca hanno avuto fasi alterne di splendore e crisi irreversibili.

Dunque, quali le ragioni? Forse il ritorno della psicopatologia nel grembo della sua grande madre Medicina, affascinata dal canto delle sirene di sistemi diagnostico-nosografici sempre più dettagliati e le metodiche di brain imaging sempre più accurate, che stanno rimettendo in questione la natura umana nelle sue sfere costitutive: la coscienza, le decisioni, il libero arbitrio, la responsabilità? In realtà, la fiducia acritica nelle capacità delle neuroscienze di rispondere a questioni difficili come queste sembra contraddetto dalla durezza e, per molti versi, dalla irriducibilità delle evenienze psicopatologiche. Peraltro, non sono sicuro che la psicopatologia sia stata sempre la stella polare dell’agire clinico. Temo che chi lo sostiene sia tratto in inganno da un’infedeltà della memoria. È comprensibile: in tempi di grandi incertezze si diviene nostalgici, anche di storie solo immaginarie. Per lo scenario che abbiamo davanti, invece, vi sono ragioni ben precise. Innanzitutto, l’utilizzo acritico e conformistico dei sistemi di classificazione internazionali dei disturbi mentali che, nonostante innegabili meriti iniziali, ha generato forti distorsioni. Per diverse ragioni: a) per aver scambiato i mezzi con i fini, con viete semplificazioni semeiologiche e diagnostiche, entro cui viene sintetizzata entro rigidi schemi tutta l’esperienza di sofferenza dei pazienti. Infatti, sono tanti, oggi, coloro che non sentono il bisogno di aggiungere altro alla diagnosi, perché questa compendia passato, presente e futuro del paziente, con deleteri riflessi sull’intervento terapeutico; b) per aver dissimulato, dietro una dichiarata neutralità, interessi poco trasparenti, esiziali per qualsiasi impresa scientifica; c) per aver ampliato lo spettro delle patologie psichiche (con l’invenzione di nuove) con la pretesa di curare anche la “normalità”; d) la marginalizzazione, se non addirittura la cancellazione, di un patrimonio di ricerca di generazioni di psicopatologi che con le persone parlavano davvero. Si potrebbe continuare a lungo … Credo di non allontanarmi dal vero dicendo che l’invocazione a tornare alla psicopatologia sia il segno di una crisi profonda, in larga misura ascrivibile alla crisi di questo egemonico modello nosografico. Naturalmente, non è questo il luogo per una discussione sui rischi cui si espone un’impresa scientifica quando si tenta di uniformare, in un linguaggio lontano dalla vita delle cose, la pluralità degli orientamenti e delle sensibilità scientifiche.

Dunque, a quale psicopatologia si allude, quando se ne invoca il ritorno? Forse una semeiologia descrittiva, neutra, con qualche concessione a ciò che resiste alla misura quantitativa: cioè, una psicopatologia interessata esclusivamente alla biologia della vita psichica e indifferente alla soggettività? Siamo proprio sicuri di andar lontano continuando a semplificare la complessità dell’esperienza psichica? Se occorre restituire il posto e l’onore che le spettano, è necessario che la psicopatologia rimetta i modi particolari di esistere al centro dei propri interessi. Disordini psichici, sottesi da particolari modi di funzionamento della mente, devono essere anche indagati con i metodi quantitativi, accettando sempre la sfida della verifica delle proprie asserzioni e delle proprie ipotesi di ricerca. A condizione che resti vivo il senso insopprimibilmente ulteriore dell’incontro.

Un incontro è sempre un viaggio lungo arcipelaghi intricati, geografie complesse: perché intricati e complessi sono i passaggi e i paesaggi che ci si aprono dinanzi quando ci accostiamo alla mente nei suoi versanti oscuri, contraddittori, molteplici. Pensando a partire da essi e, inevitabilmente, oltre essi. Un viaggio sorretto dall’interesse per l’umanità dell’uomo, più che dalla pretesa di corrispondere a una verità oggettiva. Soprattutto, un viaggio che assuma in pieno lo scarto sempre presente tra due uomini che si incontrano (terapeuta e paziente), in un ‘faccia a faccia’ che cancella la presunzione fatale di una conoscenza che tiene insieme soggetto e oggetto, spirito e materia. Un viaggio, il solo viaggio possibile, per un nuovo gesto e una nuova passione per la conoscenza.

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