Conversazione sulla creazione artistica e l’improvvisazione

con Nelson Mauro Maldonato

a cura di Sergio Petrosino

(…) è quel che porto di sconosciuto a me stesso a farmi io.

Paul Valery

Il 22 Ottobre, nell’Aula Magna “Gaetano Salvatore” della Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università Federico II di Napoli, vi sarà l’inaugurazione della 13° edizione della Settimana Internazionale della Ricerca. L’evento, che avrà come titolo generale “Mente e Movimento”, si articolerà come da tradizione in tempi e luoghi geografici differenti, italiani e stranieri. I lavori della SIR saranno introdotti da Alberto Oliverio, che terrà una Lectio Magistralis sull’improvvisazione e il movimento. Tra le sezioni di maggior interesse ve ne sarà una dal titolo “Il tempo, l’intimità, il mistero”, un dialogo sulla creazione artistica e l’improvvisazione, che vedrà un confronto a più voci tra studiosi e artisti di differente esperienza: Francesco D’Errico (musicista jazz), Paolo Gritti (psicoanalista), Davide Sparti (saggista e studioso del tango) e altro ancora.

“Il tempo, l’intimità, il mistero” è il titolo di un evento SIR dal fascino estremo. Come nasce l’idea di un confronto plurale sull’esperienza creativa e l’improvvisazione?

I temi della creazione e dell’improvvisazione mi affascinano da sempre. Come la vita, che è sempre quel che non ti aspetti, ogni creazione autentica nasce dal mistero, quando rivelazioni, epifanie, immagini inedite, appaiono e scompaiono nelle frange di interferenza tra coscienza e inconscio; quando bagliori istantanei si fanno largo tra rappresentazioni, sovente effimere e oscure, illuminando repentinamente la coscienza, muovendo infine verso la propria realizzazione.


Sebbene con mille differenze uno scienziato e un artista seguono lo stesso cammino. Entrambi cercano, l’ordine, la regolarità, la bellezza, fino ai confini del pensiero, della logica, del senso.

Aggiungerei che entrambi inseguono la meraviglia, la sorpresa, l’esaltazione. Anche quando, giunti oltre il confine del pensabile, tutto quello che avevano visto sin lì si sarà tremendamente rimpicciolito. Ma una creazione è anche un viaggio tra assenze, asimmetrie, realtà nascoste. Un lavorìo di opposizione e di risoluzione che apre il campo in(de)finito dell’esperienza.

Cosa ha a che fare questo con l’improvvisazione?

Facciamo un esempio. Prendiamo il gioco enigmatico e sublime dell’improvvisazione musicale. Quell’attività che, a partire da un’idea musicale, vede un performer affidarsi alla spontaneità della composizione, alla creazione di armonie, melodie e ritmi in tempo reale. Si tratta di pura invenzione, ma non al buio. Il rituale avvicendamento tra i performer, infatti, crea forme di prevedibilità mediate da una mimica e una gestualità, in un’identificazione emotiva dalle funzioni addirittura catartiche.
           
È plausibile sostenere che la comprensione del fenomeno improvvisativo può dirci molto sulla creatività umana?

Assolutamente sì! Questo, però, passa per la soluzione – per ora lontanissima – di una duplice questione: la conoscenza delle basi biologiche dell’azione motoria e quella del modo in cui il nostro cervello trasforma in invenzione artistica delle pure intuizioni.

Cosa sappiamo oggi di come si realizzano le sequenze motorie di un performer tra le innumerevoli possibilità espressive e i vincoli motori?

Domanda impervia. Temo che la risposta – ovviamente parzialissima – implichi qualche riferimento a nozioni tecniche. Ma vale la pena spingersi su questa terra delle meraviglie. Come attività fondata sul passaggio imprevedibile da uno schema d’azione all’altro (in cui l’esecuzione viene modulata in base a elementi di volta in volta emergenti), il fluido gioco tra esecuzione e espressività dell’improvvisazione dà vita a un vero e proprio ciclo memoria-percezione-azione-anticipazione. Quel che è di enorme interesse scientifico è che, a determinati livelli, un performer ignora cosa faccia il suo cervello. Non sa nulla dei formidabili colloqui elettrici e chimici che guidano la sua mano nell’esecuzione. Insomma, ha smesso di riflettere. Gli automatismi lo hanno liberato da qualsiasi ostacolo all’espressione della propria personalità artistica. Un performer esperto ha a tal punto automatizzato la propria esecuzione da permettersi il parziale abbandono dell’attenzione focalizzata. La memoria involontaria, esaltata da processi emotivi e cognitivi, gli consentirà di generare e valutare all’istante ogni suggestione armonica e ritmica emergente.

In questo ordine spontaneo, in certi casi quasi caotico, l’improvvisazione è però sempre esposta all’errore.

Errori e imperfezioni direi sono consustanziali al linguaggio improvvisativo, alla sua logica, alla sua estetica. Forse è anche una fortuna che sia così. Del resto, al netto dei generi e delle preferenze non vi è paradigma assoluto cui corrispondere. Si tratta di una sorta di ‘stato d’eccezione’ in cui un performer ha solo il dovere di essere libero. La sua libertà di (che è insieme libertà da) poggia su una tecnica rigorosa e colta, ma soprattutto sulla capacità di fondere, per così dire, ad altissima temperatura, medium espressivo del sé, istanze inconsapevoli arcaiche, competenze formali e narrative della composizione, tecnica strumentale.

Quel che è difficile capire, per i non addetti ai lavori, è come fanno dei musicisti a suonare per ore, creando spesso capolavori, senza ricorrere a repertori prestabiliti, partiture ed altro ancora. Come venire a capo dell’enorme quantità di dissonanze, variazioni isolate e legate, in un ordine spontaneo senza un disegno prestabilito o una bacchetta anticipatrice? Lungo quali misteriose vie onde psichiche carsiche affiorano in una forma esterna senza materiale codificato scritto o memorizzato, senza strutture narrativo-morfologiche pre-esistenti? Cosa sappiamo di tutto questo, oggi che la scienza ha accumulato conoscenze infinitamente superiori a quante ne avesse prodotte nei 5000 anni precedenti?

Prima di provare a rispondere a queste domande, occorre chiedersi cosa intendiamo per creatività. Gli studi neurobiologici classici hanno considerato la creatività a partire dalle diverse funzioni degli emisferi cerebrali: quelle logico-simbolico-linguistiche, collegate prevalentemente all’emisfero sinistro; e quelle olistico-generaliste-emotive, collegate prevalentemente all’emisfero destro. Sebbene le funzioni emisferiche siano più ampie e ancora poco conosciute, sembra non vi siano dubbi sulla preminenza dell’emisfero sinistro nelle attività simbolico-linguistiche e nei processi computazionali. Studi sulle asimmetrie emisferiche, mediante fMRI, suggeriscono che la creatività è correlata, da un lato, a uno stand by dell’emisfero sinistro; dall’altro, a un’intensa attività di associazioni, metafore e analogie nell’emisfero destro, che genererebbe nuovi punti di vista sulle cose.

Vi sono conferme sperimentali crescenti sul ruolo dell’emisfero destro nella scoperta di nuove spiegazioni, come è evidenziato dal suo coinvolgimento in una serie di funzioni come la percezione, le immagini e le creazioni artistiche visive, quelle musicali e così via. Insomma, pare acclarato che la scoperta repentina della soluzione a un problema abbia a che fare innanzitutto con l’emisfero destro. Queste differenti competenze emisferiche hanno indotto a credere che i processi creativi, emotivi e istintivi dell’emisfero destro, siano opposti a quelli razionali e alle attività semantico-cognitive dell’emisfero sinistro. É corretto affermarlo?

Direi di sì. La letteratura più recente sulla creatività evidenzia il ruolo della ricombinazione di contenuti e informazioni disponibili in nuove associazioni. Le idee creative nascono da relazioni inedite tra fatti noti, erroneamente considerati estranei gli uni agli altri. Alla loro origine non vi è il ragionamento deduttivo, ma immagini mentali. Come ha lucidamente sottolineato Alberto Oliverio, le analogie rivelano somiglianze e relazioni tra oggetti, eventi e fatti che, comparando esperienze attuali e conoscenze pregresse, aiutano a colmare vuoti conoscitivi o a risolvere problemi. I concetti astratti, interni alle analogie, trovano corrispondenza in modelli di realtà non rappresentabili a causa della loro distanza dai nostri sensi. Gli artisti avrebbero una propensione naturale sia a rendere concrete le idee che generalmente sfuggono alla sensibilità ordinaria, sia ad esprimere concetti non traducibili in linguaggi formali. Questa tendenza a generare nuovi significati da esperienze e ricordi passati evidenzia come la nostra mente non rispecchi affatto il mondo reale, ma ne inventi uno nuovo. A differenza delle logiche che imprigionano le libere associazioni e l’immaginazione, il pensiero analogico accresce le probabilità di risultati creativi.

Quali sono le aree cerebrali coinvolte in questi processi?

Principalmente due: la corteccia associativa e la corteccia prefrontale, quest’ultima ben più estesa negli umani rispetto ai primati e agli altri mammiferi. Come è noto, la corteccia associativa rende possibile associazioni tra elementi diversi della stessa esperienza. Ad esempio, conoscere qualcuno vuol dire averne memorizzato la fisionomia, la voce, le circostanze in cui l’abbiamo incontrato, come pure le reazioni emotive provate come la simpatia, l’indifferenza, l’antipatia e così via. Queste differenti componenti dell’esperienza vengono successivamente ricombinate dalla corteccia associativa con la nascita di nuovi contenuti di memoria. Ad esempio, il tono di una voce significativa ascoltata in passato spinge la corteccia associativa ad associare il volto, le emozioni espresse e via dicendo. La corteccia prefrontale, invece, funziona da archivio delle rappresentazioni dal quale vengono recuperati gli elementi utili per rispondere a richieste specifiche. Insomma, in tema di analogie, mentre la corteccia prefrontale seleziona l’informazione, la corteccia associativa connette gli elementi comuni, confrontando categorie come “notte”, “sonno”, “buio” e altro ancora.

Ma qual’è, dal punto di vista evolutivo, la funzione del pensiero analogico?

Essenzialmente di consentire il passaggio da un fatto conosciuto ad un altro sconosciuto. Alle prese con un problema nuovo la nostra mente cerca automaticamente situazioni assimilabili alla nuova evenienza, proponendo soluzioni adattabili: proprio come uno scienziato che, alle prese con un nuovo rompicapo, ricorre ad analogie basate su conoscenze precedenti. Il pensiero analogico è retto da logiche diverse da quelle formali: logiche non filtrate (e forse appesantite) da deduzioni che ne validino la plausibilità e l’utilità, ma che facilitino la formazione di matrici originali e aperte applicabili a fenomeni sconosciuti per la nascita di nuove idee e teorie.     

Può chiarire meglio? Cosa sono queste matrici?

Nel suo lungo viaggio evolutivo, il cervello ha selezionato due sistemi, emotivo e cognitivo, ognuno dei quali deputato all’elaborazione di diversi tipi di informazione. Queste vie, raggiungendo il talamo, innescano due sequenze: una iniziale, a contenuto emotivo, elaborata nell’amigdala; una successiva, a contenuto affettivo, elaborata nella corteccia cingolata e nella corteccia prefrontale ventromediale. Il sistema cognitivo, invece, coinvolge altre strutture limbiche: principalmente l’ippocampo e le cortecce temporali, occipitale e parietale. Vi è ampio accordo sul fatto che tale circuito è sede della memoria a lungo termine. La piena integrazione delle informazioni emotive e cognitive dipende dalla convergenza di entrambi i tipi di elaborazione, emotiva e cognitiva, sulla corteccia dorsolaterale prefrontale. Questa regione è coinvolta nei processi esecutivi ed integra le informazioni per consentire funzioni superiori come il pensiero astratto, la flessibilità cognitiva, la pianificazione, la consapevolezza. Inoltre, la corteccia prefrontale dorsolaterale formula piani e strategie per il comportamento appropriato e l’esecuzione attraverso le cortecce motorie. Da questa zona corticale dipendono, inoltre, funzioni come la memoria di lavoro, l’integrazione temporale e l’attenzione selettiva sostenuta, che permettono alle funzioni cognitive complesse di realizzarsi.
É in gioco un’attività integrativa alla quale concorrono due differenti sistemi: un sistema esplicito e un sistema implicito. Il primo, consapevole e verbalizzabile, basato su regole e contenuti; il secondo, inconsapevole e non verbalizzabile, basato su abilità pratiche. Ovviamente sarebbe semplicistica una separazione rigida tra conoscenza esplicita e implicita e le strutture nervose da cui queste abilità cognitive dipendono. Infatti, entrambi i sistemi possono essere attivati in parallelo.

Alla luce di queste considerazioni e senza entrare in ulteriori dettagli neurofisiologici, può dirci perché alcune persone hanno una spiccata propensione alla creatività?

Gli individui creativi sono in grado di muoversi, più degli altri, tra queste due dimensioni del pensiero, attraverso un continuum tra processi primari e processi secondari. Per semplificare, la scintilla creativa provocherebbe una transizione verso uno stato primario di coscienza facilitando la scoperta di nuove combinazioni di elementi, mentre l’elaborazione creativa riporterebbe al processo secondario. Insomma, le persone creative avrebbero più facile accesso ai processi primari del pensiero. Dunque, se la scoperta di una soluzione è data dalla capacità di convertire i processi secondari in processi primari che lascia emergere analogie e libere associazioni, la ricerca di nuove soluzioni sarebbe legata, come vedremo oltre, alla capacità di ‘spegnere’ la corteccia prefrontale e trasformare i processi secondari in processi primari. Se è fondata tale ipotesi, contenuti distinti emergerebbero dalle dinamiche competitive e cooperative tra gruppi neurali, che vengono poi trasmessi e portati alla coscienza.

Ma cosa distingue la creatività da quello stato della mente in cui un individuo è del tutto immerso in se stesso?

Lo stato della mente cui lei allude – uno stato caratterizzato da un’attenzione eccitata e un pieno coinvolgimento – fu descritto negli anni ’90 da Csikszentmihalyi. Si tratta di una condizione della coscienza quasi automatica, priva di sforzo e fortemente mirata, associata a un subeccitamento, che entra in gioco in quelle attività mentali o fisiche caratterizzate da concentrazione e impegno, obiettivi chiari, feedback immediato. Queste attività automatiche (dunque inconsapevoli) suggerirebbero che la corteccia prefrontale è ininfluente su tali processi e che questi possono essere attribuiti ai sistemi cognitivi impliciti che dipendono dai gangli basali. Il flow può essere considerato come un intervallo temporale durante il quale un’abilità routinaria o una funzione cognitiva si realizza senza interferenze del sistema esplicito: cioè, uno stato transitorio di minore attività del lobo prefrontale che ‘spegnerebbe’ temporaneamente le capacità analitiche del sistema esplicito.

Piuttosto controintuitivo…

Vero. Si tratta, però, di una sospensione transitoria. Per essere concentrato e persistente, il flow richiede attenzione e, dunque, l’attivazione della rete nervosa frontale. Entro certi limiti, questo stato è compatibile con una diminuzione dell’attività prefrontale, che genera attenuazione della consapevolezza di sé. É per questo che il flow viene generalmente indicato come un livello inferiore di attività frontale, ad eccezione dell’attenzione esecutiva, che consente alla mente di focalizzarsi su un target provocando uno stand by delle altre abilità esecutive e cognitive della corteccia prefrontale. Focalizzare l’attenzione sull’attività corrente permette al sistema implicito di funzionare con la massima efficienza. Diversamente, la creatività emerge dal coinvolgimento di differenti circuiti cerebrali: la novità viene prima generata all’interno del sistema implicito (lo striato ventrale) e poi analizzata ed elaborata dalla corteccia prefrontale, che trasforma la novità in risposte e comportamenti creativi.

Se vi è accordo sul fatto che all’origine della creatività vi è una pluralità di strutture e funzioni, e che la tradizionale dicotomia emisfero destro/emisfero sinistro non spiega da sola i comportamenti creativi, cosa si può dire dell’improvvisazione? Può bastare definirla come una generazione spontanea, selezione ed esecuzione di nuove sequenze uditivo-motorie?

Temo che le cose siano ben più complesse, anche se si tratta indiscutibilmente di un terreno privilegiato per studiare le basi neurali dell’invenzione di nuove sequenze d’azione. Vi sono numerosi studi di brain imaging sulla cognizione musicale, sui correlati neurobiologici della percezione e sull’elaborazione musicale, ma ve ne sono pochi sull’invenzione musicale (limitati per lo più allo studio di prestazioni precedentemente memorizzate) e pochissimi sull’improvvisazione musicale.

Oggi sembra che le neuroscienze, sia cliniche che sperimentali, non possano prescindere dal contributo delle metodiche di neurovisualizzazione?

Vero. Anni fa, Limb fece un esperimento di grande intelligenza: chiese a dei pianisti di memorizzare una melodia, esaminandoli con una risonanza magnetica appositamente modificata e collegata a una tastiera. Posizione tutt’altro che ideale! Nondimeno, i musicisti furono in grado di portare a termine i compiti sperimentali: cioè, a riprodurre una melodia appena memorizzata, effettuare una scala semplice e, infine, improvvisare. L’esperimento evidenziò che l’improvvisazione era correlata all’attivazione di una rete nervosa che, tra le altre, comprendeva strutture come il ‘giro frontale inferiore sinistro’, la ‘corteccia cingolata anteriore’ e la ‘corteccia prefrontale mediale’. L’osservazione più interessante fu proprio il diffuso ‘spegnimento’ delle aree prefrontali generalmente correlate al controllo consapevole delle attività in corso.

Forse il cervello, libero da compiti attentivi e di ragionamento, era libero di ‘giocare’?

Non corriamo a conclusioni affrettate. Studi successivi a quelli di Limb hanno mostrato che, nel corso di un’improvvisazione, le aree frontali coinvolte nel controllo consapevole non sono del tutto ‘spente’. Al contrario, alcune di queste sono molto attive. Il cervello, per così dire, non considera degno di attenzione tutto ciò che emerge spontaneamente e così idee, pensieri e immagini vengono continuamente monitorati, valutati e selezionati per l’azione. Questa funzione critica richiede l’intervento dei lobi frontali (soprattutto prefrontali) che esercitano un controllo sulle azioni motorie. Si spiegherebbe così perché quelle aree non siano del tutto ‘spente’.

Ma quali sono, precisamente, i livelli di tali attività?

Negli ultimi tempi si è attribuita molta importanza al ruolo della cosiddetta rete di default, un circuito basato su processi che interrompono il controllo consapevole a favore di una messa a fuoco parziale o quasi totale sul pensiero spontaneo emergente. Si tratta di una plausibile spiegazione di quel pensiero focalizzato – il flow – caratterizzato da una intensa concentrazione sul compito in corso e dalla parziale eliminazione del tempo cronologico. Ora, chiarito che la competenza è condizione necessaria per un’improvvisazione efficace – senza esperienza, infatti, non vi è alcun automatismo, contatto con la memoria involontaria e spazio per liberi giochi della mente – diversi studi hanno evidenziato che i performer esperti mostrano una più spiccata capacità di disattivazione dell’attenzione selettiva rispetto ai musicisti in erba o ai non musicisti. Senza entrare troppo in dettagli tecnici, l’area cerebrale responsabile di tale modulazione è la giunzione temporoparietale, chepuò schermare, filtrare o inibire informazioni, consentendo ai performer di integrare le attività ordinarie della mente con quelle correnti, mantenendo attenzione e filtrando pensieri, idee e percezioni esterne potenzialmente disturbanti.

E cosa succede nell’improvvisazione di gruppo?

Qui, ovviamente, le difficoltà tecniche per l’utilizzo di gruppo dell’fMRI rendono ancora più difficile la realizzazione di compiti sperimentali. Di recente è stata riportata una minore attivazione della rete di default in situazioni di gruppo, rispetto ai precedenti studi di Limb sull’improvvisazione solista. Non sorprende. La necessaria armonizzazione dei materiali emergenti in una performance di gruppo ostacola lo ‘spegnimento’ delle strutture prefrontali e, per converso, innalza i livelli attentivi.

Ma allora vi è meno spontaneità nell’improvvisazione di gruppo?

Non vi sono prove al riguardo, anche se molte ragioni lasciano credere il contrario. Sappiamo, però, che nel corso di un’improvvisazione il cervello disinibisce, per così dire, le aree deputate alla inibizione di sé, mentre ‘accende’ quelle collegate all’espressione di sé. In altre parole, un musicista spegne le proprie inibizioni, liberando così la propria interiorità.       

Da questo ragionamento, possiamo concludere che l’improvvisazione rimette in discussione la sovranità della mente razionale?

Rimette in questione quell’astrazione, che chiamiamo Io, su cui crediamo di esercitare piena sovranità: un’astrazione pullulante di sensazioni, pensieri e memorie, sostenuta da nuove esperienze e informazioni corporee; un’astrazione mai del tutto unificata, basata sul gioco concorrenziale di diverse coscienze (tutte interne a uno stesso Io) e fortificata da associazioni attorno a complessi di idee concatenati. Si tratta di dinamiche di assimilazione e rifiuto che definiscono la libertà espressiva dell’Io. Senza questo lavoro di sgombero sarebbe impossibile dar voce a zone interiori invisibili e impensate. Ecco perché un musicista, nel corso di una performance, pur cominciando con motivi previsti, li abbandonerà presto. Perdendosi. Togliendosi di mezzo. Facendo vuoto, per diventare se stesso. Congedandosi dal pensiero razionale, vero intralcio all’emergere di forze e conoscenze autonome e disperse provenienti da memorie antichissime e inconsapevoli.

Lei ha scritto che siamo una pluralità che si è immaginata unità. Può chiarire per chi legge?

Vede, sono sempre stato convinto – al di là delle viete mode sull’embodiment, spesso sostenute da stravaganze teoriche prive di solide letture – che a pensare sia l’organismo intero. Tutto il corpo prende parte al pensiero, al sentimento, alla volontà. Questa pluralità instabile, in permanente tensione, è composta da tante forme di consapevolezza tante quante sono le strutture che costituiscono il corpo. Dunque, se esiste in noi una forma di unità, questa non poggia sull’Io consapevole, sul sentimento, sulla volontà e sul pensiero, ma sulla capacità del corpo di ricordare, decidere, anticipare, inventare.

 Se capisco bene, l’Io sarebbe dunque solo uno strumento di tali processi, una sintesi concettuale di altre identità immaginarie, una rappresentazione di quel che accade nelle nostre strutture nervose.

Anche se si continua ad attribuire alla mente la natura di principio organizzatore unitario, credo che la consapevolezza non svolga alcun ruolo nell’adattamento e nella sistematizzazione dell’unità dell’Io. Unità ha senso solo se significa coordinamento. In questo senso, se è vero che la consapevolezza è subordinata al corpo, nella sua forma ultima il problema dell’unità dell’Io è un problema biologico. Eppoi, il pensiero cronologico è ordinato nel tempo, mentre il pensiero corporeo è simultaneo. Non è sottomesso al tempo. Ignora il passato e il futuro. In quella singolarissima forma di narrazione che è l’improvvisazione, il tempo ha rilievo assoluto.

Quando si dice improvvisazione la mente va immediatamente al jazz.

Anche se l’improvvisazione ha una vita ben più antica, anteriore anche alla meravigliosa stagione della musica barocca, nel jazz narrare vuol dire mettere in scena il tempo, incarnare ritmi, dissonanze, insight estetici, imprevisti e imprevedibili. Qui, l’urgenza performativa di gesti, voci e suoni – certo, declinata in un medesimo orizzonte armonico e melodico – rende irriducibile la differenza del tempo individuale. Del resto, se i tempi individuali coincidessero, i musicisti condividerebbero la stessa vita. Ma il tempo sorprende tutti, e a tutti manifesta estraneità. Ognuno ne fa esperienza in se stesso, cogliendone i movimenti più sottili, sulla soglia di un istante tra un non più e un non ancora.

Ne viene fuori l’immagine di un performer jazz come un esploratore dell’ignoto.

Bella definizione! Sì, un esploratore dell’ignoto che spera ogni volta che tra intuizione e suono si realizzi una reciproca conversione, che il fuoco sacro dell’ispirazione illumini le sue più intime profondità e gli faccia sperimentare le potenze rivelatrice dell’abisso, trasfigurandoli in note, armonie e altre narrazioni privilegiate. Qui, nel ritmo che nega la durata, azzera le pause e infutura vita e idee, fino ai limiti dell’inesprimibile, si manifesta l’imprevedibilmente altro di ogni performer. Da verità ‘oggettiva’ il presente si trasforma in un personalissimo atto di libertà, in cui ogni accordo è sottoposto a una destabilizzante intemporalità. Ecco, forse si potrebbe dire che l’improvvisazione non è una proprietà del tempo, ma un movimento nel tempo. Nell’improvvisazione, kairos è il tempo opportuno. Pause, dissonanze, rallentamenti, perifrasi, citazioni e riprese della frase, cambi di accordi e di misura, testimoniano lo sforzo di conquista e riconquista di sé e del tempo, al termine del quale l’essenziale è ritrovarsi.

 In questa infinita conversazione, il rapimento fa da contrappunto al rischio.

Sì, perché improvvisare è un atto di pura audacia e, insieme, di profonda interiorità, in cui si leggono, spinte all’eccesso, le tensioni che l’artista deve affrontare, tra la pura ricerca artistica e la necessità di ridefinirsi sul piano individuale e pubblico. I nuclei sepolti nella sua interiorità sono materiali da liberare e trasformare. In questo sublime gioco a dadi con il suo cervello, più di qualsiasi cosa egli spera che nulla interferisca con il movimento delle sue mani, con le molteplici rappresentazioni e suggestioni che attraversano fugaci la sua coscienza.

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